Col sole alto nel cielo, nelle belle giornate di primavera, quei due passavano ore e ore fuori in giardino. I sabati e le domeniche, quando tutta la famiglia si riuniva per pranzare insieme, puntualmente nonno e nipote sparivano. Dalla finestra li si poteva scorgere intenti nel portare avanti il loro gioco preferito: l’uomo anziano tirava il pallone in aria con le mani e il piccolo attendeva che questo precipitasse dal cielo, per provare a colpirlo con le più contorte acrobazie. Erano in grado davvero di passare tutta la giornata così, col nonno che incitava il nipote a compiere la rovesciata perfetta.
D’altronde, quell’uomo anziano è sempre rimasto particolarmente affascinato da quel gesto. Da quelle contorte acrobazie, dal rapporto tra l’uomo e il cielo. Da Icaro che viene attratto dal sole. Quello rappresenta per lui la rovesciata, la volontà di volersi avvicinare alle stelle. Di voler sfiorare la volta celeste. Di protendersi verso le divinità che da lassù si godono lo spettacolo che va in scena sulla terra. Un gesto che avvicina molto l’uomo a quelle entità. Lo divinizza. Lo rende un supereroe. È un uccello? È un aereo? No, è un semplice uomo che va oltre i propri limiti. Senza calzamaglia blu e mantello rosso, con la sola spinta propulsoria delle proprie gambe.
Quel gesto lo ha ammirato infinite volte sulle copertine degli album dei calciatori, le cui pagine da giovane ha sempre riempito. Una passione che ha trasmesso a quel piccolo essere lì davanti a lui che sta praticamente rendendo la propria copia. O meglio, la proiezione dei propri desideri. Spesso, a occhi aperti, ha sognato di realizzare il gol decisivo in finale di Coppa dei Campioni in rovesciata. O magari, restando più umili, una rete davanti al proprio pubblico. Magari nemmeno in una partita decisiva, però quantomeno in una vittoria. Ok l’umiltà, ma se non si esagera nei sogni quando lo si può fare?
E quindi sin da piccolo ha istruito il nipotino a librarsi in cielo per colpire il pallone. Ha cercato di fargli capire che l’unico modo per distinguersi dagli altri è quello di lasciare il suolo e avvicinarsi alle divinità. Andare a cercare il pallone prima che ricada per terra e poi colpirlo, con forza e precisione. E il piccolo ha continuato a provarci all’infinito. E i genitori quante volte si sono arrabbiati. Per le cadute, per i vestiti strappati. Per la folle perseveranza di quell’anziano e per la cieca fiducia di quel bambino. E i due hanno continuato a ripetere lo stesso schema all’infinito: il nonno alza il pallone, il nipote lo colpisce in rovesciata. Fino allo sfinimento.
Pallone in alto
Col passare degli anni, il tempo per ripetere quel mantra si assottiglia sempre di più. Il bambino diventa un ragazzo, alla compagnia del nonno preferisce spesso quella dei compagni di scuola, anche se nessuno si presta con pazienza ad alzargli il pallone per ammirare le sue acrobazie. Alle volte quindi torna dal nonno, che però nel frattempo sta subendo i segni dell’età. Quanto fa male la schiena dopo la quinta volta che lancia in alto il pallone. Come diventa difficile stare in piedi un’ora senza riposarsi un attimo.
Il tempo si porta via quel gioco infantile, che però rimane vivo nella mente dei due. Quando sono a tavola ammirano i video su YouTube, studiano le rovesciate impossibili che hanno fatto la storia del calcio. La prodezza di Djorkaeff con la Roma, la perla di Rivaldo contro il Valencia. Analizzano ogni frammento di quei gesti, sezionano ogni singolo movimento compiuto in area dal protagonista in quel momento divinizzato. Con gli occhi il nipote cerca di catturare ciò che poi simulerà in campo, e intanto il nonno pregusta il momento in cui su quei video di YouTube ci sarà finalmente quel ragazzo che sin da piccolo ha cresciuto a suon di rovesciate.
Il ragazzo inizia a muovere i primi passi sui campi da calcio. Ogni domenica il nonno è lì sugli spalti ad osservarlo e supportarlo. Inizialmente segue tutte le partite, poi si limita solo alle trasferte più vicine, infine a malapena riesce a guardare le gare in casa. Il ragazzo quando gioca lontano sulla strada di ritorno chiama subito il nonno. Gli racconta la partita, le giocate, i dettagli più sensazionali. All’uomo interessa principalmente una cosa, ma la risposta puntualmente è negativa. No, nessun gol in rovesciata. D’altronde, non c’è nessuno che mi alza il pallone come facevi tu, chiosa puntualmente il ragazzo. Il vecchio sorride e con tono di dolce rimprovero dice che non vuole più sentire un racconto di una partita finché non segnerà in rovesciata.
È incredibile la caparbia con cui il vecchio insiste nell’esaltare quel gesto. Ma per lui è una forma di emancipazione. La vita non è stata sempre facile per lui, soprattutto da giovane, e spesso tutto ciò che ha avuto sono stati i sogni a riempirgli gli occhi e ad asciugargli le lacrime. Quando ciò che aveva intorno non gli piaceva, guardava in cielo. Ammirava le stelle, pensava a quelle entità là sopra che, distaccate, osservavano tutto. E magari si divertivano tanto. E allora lui sognava di alzarsi in cielo e dargli un calcio. Per destarle. Per dirgli guardate, noi siamo qui. Noi lottiamo e soffriamo in questo mondo e voi da sopra non fate niente. Per questo ha sempre immaginato di segnare in rovesciata. Perché così quelle divinità si sarebbero accorte di lui. Avrebbero visto il suo calcio vicino agli occhi e non avrebbero più potuto distogliere lo sguardo. Lui non c’era riuscito, ma suo nipote ce l’avrebbe fatta. Lui avrebbe attirato l’attenzione di quelle divinità, sarebbe arrivato vicino a loro e avrebbe colpito il pallone con tutta la forza posseduta in corpo.
Occhi al cielo
Accade poi che quelle divinità, stanche di osservare, siano passate all’azione. Come le parche nella mitologia latina, hanno deciso di tagliare il filo della vita di quel vecchio, ormai giunta agli ultimi rantoli. Quel cielo sempre sognato, sempre visto da lontano, diventa la casa del nonno, una dimora però troppo lontana da quella del nipote, che si sente tradito e deluso. Dalla vita, ma da sé stesso in maniera principale.
Come tutti i giovani, lo scorrere del tempo non l’ha mai preoccupato e ha sempre pensato di avere l’eternità a disposizione per realizzare l’unico sogno del nonno e di segnare finalmente quel maledetto gol in rovesciata. Ora che il tempo è giunto a presentare il proprio inesorabile conto, il nipote ha realizzato di aver perso definitivamente la sua occasione. Pensa di aver sprecato anni, di non essere riuscito nell’unico compito che ha sempre avuto sin da piccolo e per cui il nonno lo ha cresciuto.
La sua vita va avanti e la carriera da calciatore continua. Quel ragazzo è ormai diventato uomo, continua a pensare spesso al nonno, soprattutto alla fine di ogni partita che gioca. Appena uscito dagli spogliatoi con i compagni, solitamente si defila, prende il telefono e inizia a parlare da solo. Fa un resoconto della partita, illustra le migliori giocate dei 90 minuti. E termina il proprio soliloquio sempre con la stessa frase. No, neanche stavolta ho segnato in rovesciata, ma vedrai, la prossima sarà la volta buona. Guarda il telefono, bloccato sulla schermata home. Vorrebbe tanto sentire qualcosa dall’altra parte, ma può solo immaginare di farlo.
Colpire in rovesciata
Il tempo continua a passare e la vita scorre in maniera regolare. Succedono le cose che solitamente accadono nell’arco di una vita: quell’uomo si sposa, ha dei bambini. Costruisce la propria famiglia e intanto porta avanti la sua carriera, che non raggiunge picchi d’eccellenza, ma gli vale comunque le sue soddisfazioni. Quando a casa gioca a calcio con i suoi figli ogni tanto scodella qualche palla alta, invita i bimbi a gettarsi in acrobazia per colpirla, ma puntualmente un velo di tristezza gli copre il volto.
Ormai ha smesso anche di simulare quelle telefonate a fine partita. Ora si sbriga a tornare dai suoi figli e racconta a loro le giocate e i dettagli del match. Quando vede un pallone che solca il cielo alza ancora lo sguardo e un brivido gli parte lungo la gamba, lo spinge a balzare in aria, ma ormai ha imparato a controllarlo. Ora non salta più, ma aspetta che il pallone scenda, allarga le braccia e lo accomoda sul petto. È un uomo ammaestrato alla vita, ha perso ogni aspirazione alla divinità e si giustifica dicendo che i sogni sono sogni, ma la realtà è un’altra. Il bello dei sogni, però, è che di punto in bianco possono avverarsi.
Sembra un pomeriggio come gli altri. Il match tra la squadra dell’eterno nipote e quella avversaria procede sul filo dell’equilibrio, con le due compagini che non riescono a pungersi. Tutto sembra tremendamente ordinario e noioso, fino a che dal cielo non arriva l’illuminazione. Il nipote è lì, in area di rigore, cerca di smarcarsi per ricevere il pallone, quando quest’ultimo, lanciato da un compagno, improvvisamente s’impenna. La sfera tocca l’apice della propria traiettoria e inizia la discesa. È indirizzata verso di lui, che sente il consueto brivido, anche se ormai veramente flebile e facile da ignorare. Stavolta, però, c’è qualcosa di diverso.
Quel pallone cade, il nipote alza gli occhi al cielo e vede due occhi che lo guardano. Sono gli stessi che lo osservavano quando era bambino. Quando la domenica in giardino si aggrovigliava in cielo e cercava in ogni modo di colpire il pallone. Sente una voce, quel suono familiare che puntualmente gli chiedeva dopo ogni partita se ci fosse riuscito. Si distrae e quel brivido diventa impossibile da controllare. Allora il nipote spicca il volo, si libra in cielo. Le divinità lo osservano e lo vedono arrivare. Lui intanto tiene fissi gli occhi sul pallone. Sente lo sguardo addosso, la voce nelle orecchie.
Ma rimane concentrato, come faceva da bambino. La distanza tra il suo piede e il pallone si riduce, si assottiglia fino ad annullarsi. Arriva l’impatto, potente e preciso. Una volta che si è staccato dal suo piede, il pallone non è più oggetto del suo sguardo. Non segue con gli occhi la traiettoria, sa già che entrerà in rete. Ricadendo continua a guardare in cielo, poi tocca il terreno, resta a terra e vede arrivare su di sé la massa dei compagni esultanti. Nel groviglio di corpi e di braccia esultanti, si ritaglia uno spiraglio per continuare a guardare il cielo. Intanto pensa: “È proprio vero, come mi alzi il pallone te non riesce nessuno”.
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