Arshavin è stato uno dei più grandi talenti passati per l’Arsenal e non dirò mai che è stato un flop. Ce ne sono stati di giocatori strapagati, anche molto più di lui, che se ne sono andati senza dimostrare niente. Andrey invece ha segnato e ha dato tutto sé stesso per questa squadra. Tutto tranne la corsa, è vero, quello non lo faceva neanche quando Wenger gli urlava contro.
Con queste parole Emmanuel Frimpong ricorda Andrey Arshavin con cui ha condiviso campo e spogliatoio ai tempi dell’Arsenal. Potremmo stare a pensarci per ore, giorni o settimane, ma quella qua sopra è la sintesi migliore che si possa fare della carriera del fantasista russo: un potenziale immenso rosicchiato dalle aspettative e divorato da limiti caratteriali. Riviviamo quel che è stato e quello che non riuscì mai ad essere.
Gli anni d’oro
Arshavin nasce nel 1981 in una città e in un Paese che non esistono più: Leningrado, Unione Sovietica. Con la dissoluzione dell’URSS – l’alba di quindici stati indipendenti tra cui la Russia – la sua città natale viene ribattezzata San Pietroburgo. Con un nome o con l’altro, il destino aveva deciso che Andrey l’avrebbe portata in trionfo. Lo stesso destino che lo protesse quando, ancora bambino, fu coinvolto in un incidente stradale che avrebbe potuto costargli la vita. È suo padre Sergey ad indirizzarlo verso il calcio: il suo sogno nel cassetto era quello di diventare un calciatore professionista e, come spesso accade in queste situazioni, l’ha trasmesso al piccolo Andrey.
Inizia a danzare col pallone a soli 7 anni con la maglia della Smena Football Academy, una squadra satellite dello Zenit. Si capisce subito che ha una marcia in più rispetto ai suoi coetanei. Era il prototipo perfetto di quello che gli amanti di Football Manager chiamano wonderkid. I successi sul campo riescono quasi a camuffare la sua infanzia che, invece, ha portato fin troppi dispiaceri: è stato allontanato dalla scuola, ha visto i genitori divorziare, ha conosciuto la povertà insieme alla madre e ha perso il padre appena quarantenne. Strano che tutto questo non gli abbia tagliato le ali. Forse però, a posteriori, possiamo dire che il colpo l’ha accusato eccome qualche anno più tardi.
Nel 2000 arriva finalmente il suo momento. Dopo un po’ di gavetta con la seconda squadra, Yuri Morozov decide di inserirlo nella rosa del suo Zenit per quella stagione. C’è chi crede sia solo una comparsa, ma si sbaglia. Non a caso il suo esordio ufficiale arriva nell’importantissima semifinale di ritorno di Coppa Intertoto in trasferta a Bradford. Da quella serata indimenticabile nel West Yorkshire in poi sarà una continua ascesa. Un suo punto di forza è la duttilità: ha debuttato come esterno di centrocampo a destra, ma può giocare senza problemi anche a sinistra; ricopre poi anche i ruoli di trequartista e seconda punta. È un tuttofare dalla metà campo in su, il “10” per antonomasia e de facto a partire dalla stagione 2002/03. Shava entra nel cuore dei tifosi.
L’exploit si completa in due annate magiche: 2007 e 2008. Nella prima guida lo Zenit San Pietroburgo alla conquista del suo primo campionato russo, giocando 2687 minuti sui 2700 disponibili. Nella seconda porta la contraerea (come chiamano la squadra da quelle parti) sul tetto d’Europa per ben due volte. In finale di Coppa UEFA, vinta 2-0 contro gli scozzesi del Glasgow Rangers, sfodera un assist illuminante per il vantaggio di Igor Denisov. Tre mesi più tardi, in Supercoppa UEFA parte a sorpresa dalla panchina ma subentra all’intervallo e prende parte al successo storico per 2-1 sul Manchester United di Sir Alex Ferguson. È il destino che si compie.
A dire il vero, tra una coppa e l’altra, Arshavin si è tolto un’altra grande soddisfazione: essere protagonista con la nazionale. A EURO 2008 la Russia arrivava senza fare troppo rumore, sorteggiata nello stesso girone della Spagna guidata da Luis Aragonés, della Grecia campione in carica e della Svezia di Zlatan Ibrahimovic. L’asso dello Zenit salta le prime due giornate per squalifica, ma al rientro va in gol nella sfida decisiva per il passaggio del turno contro gli svedesi. Con due assist e un gol nel secondo tempo supplementare, è l’artefice dell’eliminazione dell’Olanda ai quarti di finale. Il cammino della Russia rivelazione si ferma a un passo dalla finale, ma ora tutti conoscono il nome di Arshavin.
London calling: Arshavin all’Arsenal
Il ragazzo di San Pietroburgo ha fatto faville in patria e in Europa. Inutile dire che con questo rendimento abbia attirato l’attenzione dei grandi club. Barcellona, Arsenal, Tottenham e Newcastle danno vita a un asta di mercato che si conclude solo nella sessione invernale, il 31 gennaio 2009. Andrey non ha mai nascosto la sua passione per il Barça, ma alla fine sceglie i Gunners: 17 milioni di euro nelle casse dei russi, circa 4,5 all’anno per il giocatore. A Londra trova Arsène Wenger. Il tecnico francese l’ha fortemente voluto, anche se poi tra i due si instaurerà una relazione di amore e odio. Eppure, all’inizio di quell’avventura, si prospettava tutt’altro.
Da febbraio a maggio colleziona 15 presenze tra Premier League e FA Cup, mette a referto 6 gol e 10 assist. Uno score niente male per una matricola. Il tutto impreziosito dal poker realizzato ad Anfield in un pirotecnico Liverpool Arsenal 4-4, due gol di destro e due col sinistro.
🔴 Liverpool 4-4 Arsenal 🟡
The greatest Premier League game of all time? 🍿pic.twitter.com/gJnsjG2VDH
— Goal (@goal) February 11, 2020
Sull’onda dell’entusiasmo, si ritrova anche con la fascia da capitano al braccio nel match contro il Portsmouth: sforna un assist per Bendtner e si guadagna un calcio di rigore nel 3-0 che vale l’aritmetica qualificazione alla Champions League. Alla fine del mese di maggio viene premiato come Player of the Month. È il punto più alto della sua esperienza in Inghilterra.
Il talento di Arshavin è sotto gli occhi di tutti e si creano aspettative enormi su di lui. Alla prima stagione intera con la maglia dell’Arsenal è un titolarissimo di Wenger, ma il suo apporto in zona gol è inferiore a quello che ci si aspettava: 12 reti in 39 presenze, per una media di 0,31 gol a partita. Il francese è convinto che può fare di meglio e non se ne priva, ma i dati peggiorano: 10 reti in 52 presenze nella stagione 2010/11, con la media che cala a 0,19 gol a partita. Il gol che schianta il Barcellona di Pep Guardiola nell’andata degli ottavi di Champions è solo un’illusione: per lui, di essere tornato quello di una volta; per l’Arsenal, di far fuori i marziani.
Con l’inizio della stagione 2011/12, il russo finisce in panchina, rinnegato dal proprio allenatore. Anche i sostenitori dell’Arsenal iniziano a beccarlo. Al momento del suo ingresso in campo all’Emirates Stadium contro il Manchester United viene sommerso dai fischi. Lui reagisce tirando stoccate a tutto l’ambiente:
Avremmo dovuto fare un mercato migliore. Diciamo sempre che siamo stanchi di aspettare e che vogliamo vincere, ma per farlo servono giocatori pronti come me. Non ha senso andare alla ricerca di prospetti.
Per la formazione che possiamo schierare oggi il terzo posto che occupiamo è un grande successo. E se l’Arsenal avesse voluto davvero vincere la Premier League non mi avrebbe schierato come punta centrale. Lo sanno tutti che non sono un centravanti, che sono alto 173cm e non posso tenere testa ai difensori centrali inglesi nei duelli fisici.
Effettivamente si è ritrovato a giocare fuori ruolo più di una volta. Questo, però, va interpretato come ultimo vano tentativo di risvegliare l’Arshavin del 2008. Il problema è che quell’Arshavin se ne era andato senza salutare.
Quando una stella muore
Quale posto migliore per ritrovare sé stessi se non casa propria? A tre anni esatti dal suo sbarco nel Regno Unito, Andrey fa il percorso inverso e torna San Pietroburgo. Non gioca molto, complice anche la formula con cui è arrivato (prestito secco), ma si gode il suo secondo titolo nazionale con lo Zenit. In estate rientra a Londra in un Arsenal che non lo tiene più in considerazione. Dodici mesi passati con le ragnatele sulle scarpe prima di andare in scadenza e dire definitivamente addio ai Gunners. Lo accoglie per la terza ed ultima volta la squadra della sua città. La gioia per il terzo campionato russo in bacheca fa da contraltare allo scarso minutaggio – 55 partite in due anni.
Si pensava potesse rimanere fino al termine della sua carriera alla corte di chi l’ha amato e cresciuto, invece Shava strappa altri due contratti: Kuban Krasnodar e Kairat Almaty. Ma se la parabola del calciatore si arena nel campionato kazako, quella dell’uomo non è meno triste. Prima lo scandalo per dei commenti sessisti durante un’intervista:
Non darei mai lezioni di guida alle donne. Dovremmo costruire nuove strade solo per loro. Perché? Non sai mai cosa aspettarti da una donna al volante. Se vedi una macchina che sterza senza motivo o che fa strane cose, stai sicuro che la sta guidando una donna. Se ne avessi il potere, vieterei alle donne di guidare e invaliderei tutte le loro patenti. Non ci penserei due volte. Noi e loro siamo creature completamente differenti.
Poi quella che i media di tutto il mondo hanno ribattezzato “notte da leoni“, come il film di Todd Phillips campione di incassi. Arshavin, che da quando le cose sul campo avevano iniziato ad andare male si era dato all’alcol, viene ripreso mentre è in fila per entrare in uno strip-tease in compagnia di varie donne con cui avrebbe poi tradito la moglie, madre dei suoi tre figli. Qualche ora più tardi le telecamere lo immortalano mentre gira ubriaco per le strade di San Pietroburgo in sella a un cavallo appena rubato. Un’uscita di scena degna di Hollywood ma poco elegante.
Andrey Arshavin è stato la speranza di una nazione, l’eroe di una città e la delusione del calcio interno. Un’icona che ha del controverso, ma pur sempre il più grande talento che si sia mai visto in Russia.