Un mesetto fa, in una di quelle tipiche serate autunnali di Champions League in cui in 90 minuti è condensato tutto il meglio che il calcio europeo può proporre, Real Madrid e Ajax disputavano la terza gara del loro rispettivo girone. Per entrambe era una partita particolarmente importante: i madrileni andavano in scena a Donetsk dopo l’inattesa sconfitta casalinga contro lo Sheriff; l’Ajax, dopo aver vinto le prime due gara, ospitava all’Amsterdam Arena il Borussia Dortmund, anch’esso a punteggio pieno, nel primo dei due atti che con molte probabilità avrebbero decretato la vincitrice del gruppo C. Dopo un lungo ma placido accerchiamento, il Real sfonda la resistenza ucraina sfruttando un goffo autogol di Kryvstov, mentre qualche minuto prima anche ad Amsterdam un autogol aveva inaugurato quello che sarebbe stato un trionfo storico per i lancieri. La punizione da cui scaturisce lo sfortunato autogol di Reus nasce da un’iniziativa di Antony.
Servito in profondità sulla fascia destra, il brasiliano dopo aver controllato con il sinistro punta Mats Hummels in quello che sarà il primo duello di uno scontro che nei 180 minuti assumerà toni tra il drammatico e il grottesco per il centrale tedesco. Antony con un guizzo fulmineo si sposta il pallone verso sinistra prima che il suo avversario possa anche solo valutare lo scenario, costringendolo a commettere fallo a pochi centimetri dall’area di rigore. L’Ajax domina in lungo e in largo la prima frazione, fornendo una prestazione in cui l’organizzazione tattica data da ten Hag e l’imprevedibilità tecnica garantita dai calciatori si fondono travolgendo come uno tsunami il Borussia Dortmund di Rose.
A Donetsk intanto, quando il cronometro recita il 50′, Modric con un filtrante che aveva già visto nella sua testa 10 minuti prima di ricevere il pallone da Benzema, manda in porta Vinicius Jr. Il brasiliano controlla e con il destro punisce l’uscita disperata di Trubin con un delicato pallonetto. Passano una manciata di minuti e Vinicius si mette in proprio: riceve nella sua zona, il centro-sinistra della trequarti avversaria, mette in serie un paio di doppi passi che fanno perdere la percezione dello spazio a Dodo, si incunea in area di rigore, finta la conclusione con il destro eludendo l’opposizione di Kryvstov e con il mancino buca Trubin sul primo palo. Quelli realizzati sono i gol numero 6 e 7 della sua stagione, grazie ai quali a metà ottobre aggancia e supera il suo record di marcature stagionali. Giusto per non farsi mancare nulla, dopo aver raccolto una verticalizzazione di Benzema, serve a rimorchio Rodrygo per il gol del momentaneo 0-4.
Ad Amsterdam, come se informato della performance del suo coetaneo e compagno di Nazionale, Antony alza ulteriormente il livello del suo gioco nei secondi 45 minuti. Quasi in concomitanza con il secondo gol di Vinicius, grazie ad una spizzata di Haller, può controllare il pallone in area di rigore, puntare Emre Can, rientrare verso sinistra per crearsi la finestra di tiro, aprire il piattone e, con un colpo da golfista, andare in buca sul secondo palo. Un gol incredibilmente complesso per velocità d’esecuzione e tempismo ma che lui per l’enorme quantità di spazio che guadagna spostando il pallone fa sembrare di una semplicità elementare.
Antony e la tecnica a servizio del sistema
In realtà di semplice, nel gioco di Antony, non c’è nulla. Sin dai primissimi minuti con la maglia dell’Ajax dà l’impressione di potersi integrare bene in un contesto in cui le qualità tecniche non fanno notizia, ma l’elevata comprensione del gioco si, ed è necessaria per garantirsi un ruolo da protagonisti. Per Antony non esiste fase di ambientamento, è da subito a suo agio con calciatori che giocano come se avessero il cervello nei piedi come Tadic e Blind. Dopo poche settimane ruba il posto al connazionale Neres, come lui un prodotto del San Paolo ma che a differenza sua, nonostante un buon rendimento nel corso degli anni, appare troppo poco maturo nelle scelte di gioco.
Antony imperversa sul lato destro dell’attacco dei lancieri con il suo stile fatto di piccole carezze al pallone che precedono un dribbling subitaneo o una pausa ragionata in cui sfrutta il moto perpetuo dei compagni per valutare la soluzione migliore. Antony è sempre lucido nello sfruttare i raddoppi – che con il tempo inizia a dover affrontare sempre più di frequente – per premiare le sovrapposizioni esterne o interne del terzino, del trequartista o di uno dei due mediani. Prima della sensibilità tecnica, a stupire del suo gioco è proprio l’abilità nel saper ordinare la propria squadra e disordinare quella avversaria. Una dote sicuramente amplificata dal sistema in cui può muoversi, ma non banale per un ragazzo che solo tre anni prima esordiva in Brasile con la maglia del San Paolo.
Nel suo primo anno di Eredivise oltre a 9 gol realizza 8 assist, la maggior parte dei quali serviti con cross catapultati in quella terra di mezzo tra difesa e portiere in cui gli attaccanti sono soliti banchettare. Nel modo in cui rientra sul mancino e crossa verso l’area ricorda un po’ Douglas Costa. L’ex Juventus nei suoi momenti migliori sembrava nato per essere l’oggetto di quelle compilation di skills su YouTube in cui ogni giocata è accompagnata da un effetto speciale; Antony invece, pur ricalcando le movenze del connazionale, è meno esplosivo e potente e i suoi cross hanno una traiettoria più morbida e affusolata.
Paradossalmente Antony mostra prima il nucleo del suo gioco, che appare sin da subito solido e, passatemi il termine, “europeo”, e poi, guadagnata la giusta dose di fiducia, la superficie. Per superficie si intende quella serie di virtuosismi che di solito sono stampati sul biglietto da visita con cui i calciatori sudamericani si presentano al calcio europeo. Antony quella nota di colore al suo gioco l’ha aggiunta in maniera più marcata quest’anno, prendendosi il proscenio delle notti di Champions alternando e mixando la spettacolarità dei suoi trick e l’efficacia delle sue visioni.
Pensavate che a rendere magica la prestazione contro il Borussia Dortmund fosse stata l’atmosfera dell’Amsterdam Arena? Be, vi sbagliavate. Un paio di settimane dopo Antony ha camminato sulle acque al Signal Iduna Park realizzando due assist (anche se potremmo dire due assist e mezzo) e causando l’esplusione di Hummels con una di quelle giocate che ti fa slogare la mascella a furia di rivederla in loop. Ricevuta palla nella sua metà campo, spalle alla porta e con Brandt alle calcagna, Antony con un tocco impercettibile d’esterno fa passare il pallone alla sinistra del tedesco per poi sgusciare come un furetto dall’altra parte per andare a raccoglierlo. Nemmeno il tempo di controllare il pallone che Hummels si precipita in scivolata per interrompere nel modo più brusco possibile l’esibizione dell’avversario, ma questo è più rapido e con una ruleta fa sparire il pallone finendo per essere falciato dall’avversario e inducendo l’arbitro ad estrarre un rosso ad onor del vero molto severo.
Se non attraverso soluzioni estrose, Antony non è un buon dribblatore. Secondo i dati di fbref tra i suoi pari ruolo in Champions League è nel 25esimo percentile per dribbling completati (1,20), quindi il restante 75% di ali/centrocampisti offensivi completa più dribbling di lui. Prendendo i dati di Whoscored la percentuale di dribbling realizzati a fronte di quelli tentati è del 50% in Eredivise e addirittura del 30% in Champions League.
La causa è da ricercare in un fisico non propriamente da dribblatore seriale, a cui si aggiunge una mancanza di esplosività. I dribbling di Antony si fondando unicamente sull’attesa: se il difendente piuttosto che temporeggiare effettua la prima mossa lui è abbastanza rapido da poter spostare il pallone ed effettuare il dribbling. Dinanzi ad un difendente meno avventato il suo dribbling perde efficacia. Un profilo simile ad Antony, guardando sia i pregi (tanti) che i difetti (pochi), è Lorenzo Insigne. Entrambi non sono grandi dribblatori, entrambi hanno, seppur con piedi diversi, nel tiro a giro la soluzione più efficace per calciare in porta ed entrambi assurgono al ruolo di regista avanzato delle proprie squadre.
Vinicius Jr, il prototipo del giocatore moderno
Chi invece ha nel dribbling la sua arma più affilata è Vinicius Jr. Fino a poco fa si pensava addirittura che il brasiliano fosse solo dribbling: un giocatore da grandi volumi, scientifico nel creare superiorità ma evanescente in fase di definizione. Vinicius, con l’espressione stralunata e il calcio fatto di strappi improvvisi e talvolta così estemporanei da essere incompresi, faticava ad imporsi in una squadra che per lui aveva sborsato 45 milioni di euro. Con il tempo anche la legittima scusa dell’ambientamento ha iniziato a perdere di efficacia, tanto che ad un certo punto, Benzema, il faro dell’attacco madrileno, ha consigliato ai compagni di non passargli il pallone perchè tanto lui non lo passava mai.
Nel caos che ha iniziato a circondare Vinicius ci si è dimenticati di un fattore importante: la sua carta d’identità. Difatti, seppur con alle spalle più di 100 presenze con la maglia del Real Madrid, restava un ragazzo di 20 anni arrivato in Spagna nell’estate dell’addio di Cristiano Ronaldo per affiancare Eden Hazard nella sostituzione del totem portoghese. Il belga, complici ovviamente i numerosi infortuni, non ha mai risposto presente e Vinicius si è dunque ritrovato a vestire la maglia del Real Madrid con continuità neanche due anni dopo il suo esordio nel calcio professionistico.
I lampi di talento sono stati diversi e folgoranti anche nelle prime stagioni. Nel pieno della sua seconda primavera a Madrid segna nel Clasico sotto gli occhi vigili di Cristiano Ronaldo dopo esser stato telecomandato e servito da Toni Kroos. Nonostante alcuni picchi – come ad esempio l’ottavo di Finale contro il Liverpool in cui realizza la sua prima doppietta in Champions League – il rendimento continua ad essere però troppo altalenante. Lui stesso recentemente ha parlato così dei suoi primi anni a Madrid:
Dico la verità: la pressione su di me quando ho firmato per il Real è stata molto grande. Non ho mai visto una cosa del genere con qualcuno così giovane. Forse perché ero un giocatore costoso.
A quest’annata Vinicius si approcciava con l’obbiettivo (anzi, l’obbligo) di fare uno step importante e lui, seguendo il percorso di crescita tipico dei predestinati, di step ne ha fatti tre. Tutta l’inefficacia dei primi tre anni in Spagna la sta compensando in questi primi mesi di stagione. Secondo i dati di Understat nelle prime 12 giornate di Liga ha prodotto 4,96 xG a fronte di 7 gol realizzati e quindi facendo segnare una notevole overperformance. Nella precedente stagione, la terza a Madrid, in 35 giornate gli xG prodotti erano stati appena 6,82 (con 3 gol segnati), mentre nella prima e nella seconda rispettivamente 4,51 e 3,64.
Vinicius non ha sacrificato parte del suo gioco, non ha tolto un pezzo per aggiungere un altro più pregiato, ma ha integrato a ciò che faceva prima la lucidità negli ultimi metri di campo. Adesso conduce palla a testa alta, si serve dei compagni per ricevere il pallone in zone più congeniali, ha ridotto isolamenti poco fruttuosi e ha iniziato a sfruttare la sua sensibilità tecnica nelle conclusioni in porta. Contro il Levante, in una partita che aveva già riportato sul 2-2 prima del nuovo vantaggio dei padroni di casa, all’85’ sugli sviluppi di un calcio d’angolo riceve il pallone sul versante sinistro dell’area di rigore, conduce verso la linea di fondo e con un tocco di punta totalmente controintuitivo beffa il portiere da posizione proibitiva. Ma a questi colpi da fenomeno alterna anche gol facili, quelli che fino a poco tempo fa sbagliava per eccesso di superficialità.
Stefano Borghi, ai tempi del suo arrivo a Madrid, lo descriveva come un Frecciarossa che correva di fianco a tanti Intercity, sottolineando come attraverso la fusione di tecnica e velocità incarnasse l’ideale del giocatore moderno. Un prolungamento della strada tracciata da Kylian Mbappè. Calciatori che hanno nella capacità di gestire le velocità, accelerare e decelerare a piacimento la base del loro calcio. Vinicius è questo: esplosività allo stato puro, istinto selvaggio che dopo tanto peregrinare ha trovato le coordinate giuste per allinearsi all’efficacia, alla concretezza.
Obbiettivo Qatar 2022
Chi potrà godere di questi talenti così diversi ma potenzialmente estremamente complementari è il ct del Brasile Tite. L’ex Corinthians, raccolte le ceneri della Seleção sparse a Belo Horizonte dopo il Mineirazo, ha dato vita ad un nuovo corso che ha portato il Brasile ha disputare un buon Mondiale in Russia, ma soprattutto a vincere la Copa America nel 2019 e ad arrivare in finale nell’edizione successiva. L’ottimo lavoro svolto è stato confermato dal ruolino di marcia avuto fino ad oggi nelle qualificazioni ai prossimi Mondiali, pass ottenuto aritmeticamente dopo la recente vittoria contro la Colombia. 11 vittorie e un solo pareggio in 12 partite in cui Tite ha dimostrato di aver sfruttato l’enorme mole di talento a disposizione per creare un impianto di gioco moderno e all’avanguardia all’interno del quale far sfogare la creatività dei suoi giocatori. Il sole al centro di questo sistema è, ovviamente, Neymar Jr, il cui eterno bagliore sta rinvigorendo – tra gli altri – il talento di Lucas Paquetà, uno dei fedelissimi di Tite.
Antony e Vincius Jr, che al momento hanno raccolto rispettivamente 4 (e 1 gol) e 8 presenze con la maglia del Brasile, sono entrati nelle rotazioni in punta di piedi, accontentandosi di un ruolo da comprimari cercando di sfruttare i ritagli di tempo a disposizione per prendere confidenza con le idee del ct. La strada per il Qatar è però ancora molto lunga e vedendo con quanta foga stanno sgomitando per farsi largo non è inimmaginabile vederli ai lati di Neymar durante la prossima rassegna mondiale.