Nel nostro ultimo tour ci siamo spinti oltreoceano, sulle coste del Brasile, al Maracana. Quest’oggi, con la tappa al Luigi Ferraris, facciamo ritorno nella penisola nostrana, in una città che con il Sudamerica ha un forte legame, e in particolare con l’Argentina. Per la precisione con Buenos Aires, dove un gruppo di nostri compatrioti diede il via ad una delle storie calcistiche più belle di sempre, quella del Boca Juniors, degli xeneizes, ovvero dei genovesi.
Un nome con un’etimologia non ben precisata, ma secondo alcuni da ricondurre alla parola greca xenos, ossia “straniero“. Un termine che calza a pennello in entrambe le realtà, sia quella di una squadra fondata, appunto, da stranieri, sia in quella di una città che sugli stranieri ha costruito le sue fortune.
Chiedimi chi sono, ti risponderò cosa sono stato
Genova, una città che come poche altre è stata in grado di essere in contatto con il resto del mondo, prima ancora che la globalizzazione diventasse un qualcosa ormai a tutti comune. Sin dal medioevo potenza marittima e mercantile di rilievo nello scacchiere europeo, capace di diventare con il tempo centro nevralgico dell’economia europea, il tutto prima che proprio gli affari con il resto del mondo ne decretassero la caduta. Un luogo che non ha smesso di rivolgere lo sguardo al mare, da sempre specchio in cui dar vita a progetti e realizzare i propri sogni.
Tra i tanti rapporti instaurati nel corso dei secoli, uno dei più stretti è senza ombra di dubbio quello con il regno di Sua Maestà. Un legame evidenziato dalla comunanza dal simbolo dei rispettivi popoli, la croce di San Giorgio. A Genova instaurata fin dai tempi delle crociate, per poi rimanere simbolo della città e tratto distintivo di tutto ciò che aveva a che fare con la repubblica marinara, non a caso usato anche dalle imbarcazioni inglesi, a testimonianza della protezione che Genova aveva assicurato loro.
Un rapporto finito con il rovesciarsi nel corso dei secoli, per via dell’ovvia ascesa dell’Impero Britannico e della contemporanea rovina della potenza marittima genovese. Un vincolo protrattosi negli anni, che non poteva non finire con l’influenzare anche settori diversi da quello economico, per via di una presenza inglese sempre più folta nella città ligure.
A Londra nel 1863 aveva preso vita la FA, la Football Association, data in cui si può riconoscere la nascita del calcio come lo conosciamo oggi. E proprio agli inglesi, primi fautori di questo meraviglioso sport, dobbiamo la fondazione a Genova della prima società calcistica italiana. Il 7 settembre del 1893 un gruppo di soci italiani ed inglesi fonda il Genoa Cricket and Football Club.
Il Ferraris, due cuori e una casa
Il Genoa inaugura dunque la storia del calcio italiano. Una delle prime questioni che si vengono ovviamente a porsi è quella di dover trovare un terreno adeguato a fungere da campo di gioco. I primi anni consistono in un girovagare continuo, da Piazza d’Armi di Campasso al Campo Sportivo di Ponte Carrega, fino all’impianto di San Gottardo. Sfortunatamente per la società anglo-italiana, nessuno dei campi si dimostra idoneo, chi per un motivo chi per un altro, ad ospitare stabilmente le partite del Genoa.
A risolvere la questione ci pensa uno dei soci italiani della neonata compagine, Musso Piantelli, il quale propone di costruire un nuovo stadio nel terreno adiacente la propria villa nel quartiere Marassi. Il progetto viene approvato e il terreno venduto alla società, purché questa s’impegni a mantenere integro il galoppatoio già presente. Siamo nel 1910 e ad un anno di distanza, il 22 gennaio del 1911, viene inaugurato quello che allora verrà conosciuto come il Campo di Via del Piano.
La struttura attraversa un paio di decenni in cui rimane sostanzialmente la stessa, almeno fino alla fine degli anni ’20. Nel 1926 il campo adiacente della Cajenna (dove giocava l’Andrea Doria), viene dichiarato inagibile. In quel periodo intanto, il numero di curiosi pronti ad affacciarsi al calcio era aumentato in maniera esponenziale, tant’è che i posti allo stadio di Via del Piano non bastano più. Il Genoa fiuta l’affare e acquisisce il terreno dalla Doria, in modo da poter espandere il proprio stadio con la costruzione di una nuova tribuna sull’ormai ex-terreno dell’altra compagine cittadina.
I lavori vengono terminati solo nel ’32, e l’anno successivo va in scena una nuova inaugurazione dello stadio. Ora non più conosciuto con il nome di Via del Piano, bensì con quello oggi noto a tutti, lo Stadio Luigi Ferraris, un gesto in onore del capitano rossoblù scomparso durante il primo conflitto mondiale. Il nuovo look lo rende uno degli stadi più moderni dell’epoca, tant’è che diventa uno degli impianti adibiti ad ospitare la terza edizione della Coppa del Mondo, quella del 1934.
Alla gradinata Nord, costruita sulle ceneri della Cajenna, si aggiungono nel corso degli anni due nuove costruzioni che andranno a completare l’assetto dello stadio. In primis una gradinata opposta alla Nord, poi nel 1947 una nuova tribuna di fronte a quella principale esistente sin dai primi anni di vita dell’impianto. Nello stesso periodo, al Ferraris si insedia un nuovo inquilino, la neonata Unione Calcio Sampdoria, risultato della fusione tra la Sampierdarenese e la già citata Andrea Doria.
Ma è a quattro anni di distanza da questi eventi che il Ferraris prende la forma definitiva che conserverà per oltre un trentennio. Vengono costruiti i distinti su due piani, delle nuove scalinate di accesso alle gradinate e soprattutto, vengono collegate tra loro le varie gradinate. Lo stadio assume così la forma con cui vengono concepiti gran parte degli stadi odierni, raggiungendo la capienza di circa 55mila spettatori.
Come già detto per altri stadi, è l’avvento di un Mondiale a segnare il passo del cambiamento, ma mai come per il Ferraris questo risulterà drastico. Dell’impianto che fino ad allora aveva ospitato le partite del Genoa, e poi anche della Sampdoria, non rimane nulla. Fatta eccezione per l’ingresso della prima storica tribuna dell’impianto.
Il risultato del progetto di Vittorio Gregotti è lo stesso che possiamo ammirare oggi. Uno stadio che risulta inusuale, quasi uno straniero, tanto per ricondurci alle discussioni sull’etimologia del nome, all’interno del mondo calcistico italiano. Uno stadio all’inglese come molti lo definiscono, per la vicinanza delle tribune al campo, seppur ridotta nel nuovo millennio rispetto a quella originaria. Ma comunque introvabile in gran parte degli stadi italiani.
Il Ferraris, grazie ai suoi colori, a quelle torri quasi incoerenti con il concetto di stadio regala uno scenario unico. Sembrerebbe quasi di giocare nel cortile dietro casa, per quanto la struttura risulta accogliente e chiusa, quasi protettiva. Uno stadio unico, reso ancora più speciale da tutto quanto vi è successo e succede all’interno, dall’eterno dualismo tra il rossoblù e il blucerchiato.
Cartoline dal Ferraris
Apriamo ancora una volta il nostro personalissimo album fotografico, una pratica ormai desueta, ma cui a maggior ragione siamo particolarmente legati. Come succede alle madri con i propri figli, le prime foto ad arricchire l’album sono quelle del primogenito, in questo caso il Genoa. La nostra prima istantanea risale addirittura al 1924. Il calcio italiano era ancora da considerarsi alle prime armi, eppure c’era una squadra che di esperienza ne aveva fatta già tanta.
Il Grifone dalla sua fondazione aveva conquistato buona parte dei campionati disputati, e quell’anno arriva addirittura il nono successo nella massima serie. Un vero e proprio dominio, 9 scudetti su 26 campionati, di cui 7 nei primi 16. Se il buongiorno si vede dal mattino, quella del Genoa sarebbe destinata a diventare una storia di successi, eppure le cose vanno diversamente. Quello del 1924 rimane l’ultimo scudetto vinto dal grifone, un passato che tutto l’ambiente rossoblù spera di rivivere prima o poi, ma che per il momento rimane solo un lontanissimo ricordo, qualcosa di cui far vanto, ma di cui non poter gioire.
Per le prossime due istantanee facciamo un salto in avanti di oltre sessant’anni, un arco di tempo in cui la centralità del calcio italiano abbandona il porto di Genova, per accasarsi prepotentemente nelle altre due città del triangolo industriale, Torino e Milano. Siamo all’inizio dell’ultimo decennio del secolo. La più giovane Sampdoria sosta stabilmente nei piani alti della classifica da ormai diversi anni, ma senza mai riuscire a contendere davvero per il titolo, nonostante abbia collezionato anche due Coppe Italia.
La formazione è guidata dal 1986 da uno dei personaggi più enigmatici e romantici, nonché genuini, della storia del calcio, Vujadin Boskov. L’allenatore jugoslavo ha una squadra formidabile, in cui splende l’affiatamento di un duo che oggi vediamo sulla panchina della nazionale, quello composto da Vialli e Mancini. Una formazione formidabile, capace di arrivare finalmente nel 1991 alla vittoria del primo scudetto blucerchiato, un successo storico per tutto l’ambiente Sampdoria.
La seconda istantanea targata blucerchiato viene scattata ad un solo anno di distanza. I protagonisti sono sempre gli stessi, ma a cambiare è lo scenario, non più quello nazionale, bensì quello continentale. La formazione di Boskov è iscritta alla Coppa dei Campioni, quella che dall’anno successivo sarebbe poi diventata la Champions League. Il percorso della Sampdoria si protrae incredibilmente fino alla finale, dove ad aspettarla c’è il Barcellona. Sembra l’epilogo perfetto per una storia iniziata anni prima, e che l’anno prossimo è destinata a finire con la partenza di molti degli attori più importanti.
Ma purtroppo non tutte le storie hanno il lieto fine. I sogni di un intero popolo verranno infranti da una di quelle illogiche esplosioni che per oltre quindici anni hanno abbattuto le porte di mezza Europa, e che avevano un nome e un cognome, Ronald Koeman. Un esito che magari sarebbe stato diverso se solo la barriera avesse fatto più attenzione, ma che nulla tolgono ad una squadra capace di interpretare uno dei migliori stili di gioco mai visti nel nostro campionato.
L’ultima immagine della raccolta ritrae un personaggio, che nel bene o nel male, facendo gioire o soffrire, ha segnato la storia del Derby della Lanterna. Il nuovo millennio non sta riservando particolari gioie alle due compagini genovesi, che puntualmente ritrovano nel derby il senso di un’intera stagione. È il 3 maggio del 2009, di lì a qualche mese il nostro eroe vestirà nuovi colori, ma evidentemente sente di dover lasciare un ricordo indelebile nel cuore dei tifosi che per ben due intervalli della sua carriera ne hanno gridato a squarciagola il nome ad ogni rete.
Quel giorno va in scena l’ennesimo capitolo della stracittadina. Il Genoa sta conducendo un ottimo campionato – come non capitava da tempo – e vuole mettere la ciliegina sulla torta vincendo il derby di ritorno, dopo aver conquistato oltretutto già quello di andata. Al Ferraris sarà un one man show, quello di Diego Alberto Milito, uno dei giocatori più amati dal popolo rossoblù. La partita finirà 3-1 per il Grifone grazie ad una tripletta del Principe, scrivendo una delle pagine più belle del recente passato rossoblù.
Antologia: Genoa-Sampdoria, il derby del ricordo
Poche città hanno saputo unire e dividere l’Italia come Genova. Dal ruolo centrale nelle guerre che per secoli hanno contribuito a divedere la nostra penisola, fino alla spedizione dei Mille che poi quel Paese ha contribuito a riunirlo, partendo proprio dai pressi del capoluogo ligure. Per poi dividerci in altre occasioni, come nel luglio del 2001, quando Carlo Giuliani perse la vita nelle manifestazioni durante il G8, dimostrandoci ancora una volta quanta strada avesse, e abbia da fare il nostro Paese.
Il 14 agosto del 2018, invece, ha spinto tutti a riunirsi attorno a Genova. Il crollo del Ponte Morandi ci ha ricordato quanto sia importante l’unione di un popolo, soprattutto nei momenti di difficoltà, come del resto quello che ci troviamo a vivere oggi. O almeno così sembrava, fino a che non siamo tornati a tuffarci in quel fango dentro il quale da anni ci divertiamo a bisticciare. Ognuno dando la colpa all’altro, cercando ripulirci le mani da quel fango che invece ha macchiato indelebilmente gran parte di noi stessi.
Questa volta non chiuderemo con un racconto, ma con un ricordo che possa magari far da monito al presente. Il 25 novembre dello stesso anno al Ferraris si gioca il primo derby dalla caduta del ponte. Sarà il derby in cui le tifoserie seppelliranno le asce da guerra, congiungendosi nel ricordo comune di quanto successo, cercando di ricucire la ferita di un’intera popolazione. Anche il campo sancirà che quel giorno non c’è spazio per i festeggiamenti, con la partita che finirà 1-1.