Per tutti gli appassionati di calcio, pochi paesi del mondo riescono ad esprimere il fascino che emana in maniera ipnotica l’Argentina. Uno dei poli calcistici più importanti del mondo, patria di alcuni dei massimi esponenti di questo sport e scenario di quella che, con tutta probabilità, è la rivalità più sentita e accesa del mondo: quella, chiaramente, tra River e Boca. L’Argentina è un paese dalle forti passioni. È la terra delle esagerazioni, dei sentimenti che imperversano come tempeste impetuose. Che bruciano come il sole sulle terre selvagge e incontrollabili. È uno stato tormentato, eppure costantemente innamorato. Capace di dimenarsi tra le passioni più asimmetriche, ma di mantenere sempre dritta la propria rotta. Alta la propria bandiera.
È un paese ricco di contraddizioni e forse proprio per questo non c’è calciatore che rappresenti meglio l’Argentina di Diego Armando Maradona. Uno dei più forti di sempre. Forse il più grande di tutti. Uno che ha vissuto senza mezze misure, dentro e fuori dal campo. Capace di provare e suscitare solo passioni estreme, come il paese che ha portato sul tetto del mondo.
Non è un compito semplicissimo eleggere il calciatore più rappresentativo dell’Argentina. Chiaramente il primo pensiero va a Maradona, ma come tralasciare Lionel Messi, o come mettere da parte altre icone del calcio argentino come Juan Román Riquelme o Mario Kempes? Tutti grandissimi esponenti della tradizione albiceleste, ma el Pibe de oro è quello che riesce più a fondo a rappresentare la sua Argentina. E lo fa sia nei suoi aspetti positivi che in quelli negativi. Maradona è stato uno specchio del suo paese. La sua vicenda tende in maniera esponenziale al simbolismo con quella del suo stato natale e ha finito per creare una simbiosi difficile da scindere e da replicare.
Ecco perché dunque Diego Armando Maradona è il calciatore più rappresentativo dell’Argentina, perché non si limita a simboleggiarne la sfera sportiva, ma si erige a vera e propria incarnazione della storia e della cultura del suo paese.
El Dia de la Revolucion
La storia dell’Argentina è, come quella di tutto il Sudamerica, intrisa di conquiste, di lotte coloniali e di ribellioni. Possiamo stabilire un primo punto di origine verso l’affermazione dello stato argentino nel maggio 1810. L’Argentina al tempo era una colonia iberica, controllata insieme a Paraguay, Uruguay e Bolivia dal vicereame di Spagna. L’Europa nei primissimi anni dell’800 viene scossa dall’ascesa di Napoleone, capace di sconvolgere gli equilibri di un continente intero con le sue mire espansionistiche.
La mano del leggendario generale arriva ad allungarsi fino alla Spagna e proprio la sua interferenza nella guerra d’indipendenza spagnola, che si stava combattendo in quegli anni, offre l’occasione di ribellione all’Argentina. Impegnata sul fronte nazionale, la Spagna chiaramente allenta la propria morsa sulle colonie e ad approfittarne è il popolo di Buenos Aires, che si organizza per sottrarsi al giogo iberico.
Scoppiano disordini nella città argentina, che intanto si dota di un gruppo di rappresentanza, che chiede un incontro all’allora gestore della legge, il viceré Baltasar Hidalgo de Cisnerso. Dopo alcuni tentennamenti nel conferire udienza ai dissidenti, il clima si fa sempre più teso e il viceré è costretto a concedere il cosiddetto Cabildo Abierto, ossia l’incontro dell’assemblea dei cittadini rivoluzionari. Il Cabildo Abierto vota quindi la deposizione del viceré e l’insediamento del primo governo autonomo a Buenos Aires, la Primera Junta.
Questi fatti si svolgono dal 18 al 25 maggio e segnano il punto di avvio verso l’indipendenza dell’Argentina. Un processo che parte da Buenos Aires e che arriva a compimento sei anni dopo, con la dichiarazione d’indipendenza del 6 luglio 1816 al congresso di Tucuman. L’insediamento della Primera Junta rappresenta però un punto focale della storia dell’Argentina, tanto che ancora oggi si celebra El dia de la Revolucion de Mayo, ovvero il 25 maggio.
Se invece, vogliamo andare a cercare un dia de la Revolucion per l’Argentina del calcio, lo possiamo trovare nel 22 giugno 1986. Allo stadio Azteca di Città del Messico, l’albiceleste affronta nei quarti di finale del mondiale l’Inghilterra che supererà con due gol leggendari, anche se per motivi diversi, di Diego Armando Maradona. È il match che diventa il manifesto del genio del Pibe de oro e della grandezza di quell’Argentina, che poi si laureerà, qualche giorno dopo, campione del mondo.
La vittoria in Messico per l’albiceleste è fondamentale, perché riscatta il successo mondiale di otto anni prima. La vittoria in casa, in quello che è passato alla storia come il Mundial della vergogna nel 1978.
Dalla vergogna alla gloria
Facciamo un passo indietro. Come fa la vittoria di un Mondiale a essere un qualcosa di cui vergognarsi? Occorre contestualizzare quel successo. La manifestazione del 1978 si gioca in un’Argentina compressa dal giogo della feroce dittatura del generale Jorge Videla, che nel 1976 aveva rovesciato il governo di Isabel Peron e instaurato un regime militare fortemente repressivo.
L’Argentina vive anni durissimi, segnati dal dramma dei desaparecidos, le persone che scomparivano nel nulla. Si ritiene che, dal 1976 al 1983, in Argentina ben 30.000 cittadini siano completamente spariti nel nulla. Un clima di terrore avvolge dunque anche il Mondiale del 1978, che l’Argentina vince tra i vivissimi sospetti di una pesante ingerenza del regime sul risultato finale.
La vittoria dell’albiceleste si porta dietro quindi uno strascico di polemiche e controversie, che esplodono ancora di più quando il duro regime militare cade e nel paese sudamericano torna a farsi strada la democrazia.
Nel 1986 dunque sono passati tre anni dalla fine di quell’incubo. L’Argentina si sta lentamente risollevando e il Mondiale messicano rappresenta la possibilità di ripristinare l’onore nazionale in campo sportivo. Il Mundial del 1978 è una macchia, che il successo in Messico spazza via e relega agli archivi. Tutto si condensa in quella sfida con l’Inghilterra, che per Maradona e l’Argentina possiede un carico di significato veramente enorme.
Argentina-Inghilterra, tra calcio e politica
Torniamo dunque al Messico e al 1986. Dopo aver superato brillantemente il gruppo A davanti a Italia, Bulgaria e Corea del Sud, l’Argentina di Carlos Bilardo si trova agli ottavi di finale di fronte all’Uruguay. L’Albiceleste riesce ad archiviare il derby sudamericano con una rete di Pasculli sul tramonto del primo tempo e nei quarti di finale l’aspetta l’Inghilterra, guidata da uno strepitoso Gary Lineker e reduce da un sonoro 3-0 al Paraguay.
Nel 1986 la sfida tra le due Nazioni va ben oltre il campo. Ricrea tensioni molto recenti, conflitti politici ancora pericolosamente vivi. Prima di fronteggiarsi sul rettangolo verde dell’Azteca, Argentina e Inghilterra si sono confrontare nelle acque dell’Oceano Atlantico qualche anno prima. Il governo militare infatti, con l’obiettivo di fomentare il sentimento nazionalistico della patria e consolidare il proprio regime, nell’aprile 1982 muove un’insensata guerra al Regno Unito. L’Argentina, stretta sotto il giogo di una grave crisi economica e attraversata da proteste popolari in tutto il paese, invade le Isole Falkland, poste sotto il controllo del Regno Unito e su cui il paese sudamericano reclama un presunto diritto di sovranità.
Quella che passa alla storia come la guerra delle Falkland si combatte tra l’aprile e il giugno 1982 e provoca quasi 1000 morti. La manovra del generale Leopoldo Galtieri è rivolta alla conquista di questo arcipelago di piccole isole situate nell’Atlantico meridionale, note in spagnolo come Malvinas e in inglese come Falkland. Si rivela un fallimento. La guerra si conclude dopo 75 giorni con la resa degli argentini, che rinunciano a quella conquista e lasciano i territori nelle mani del Regno Unito. Il conflitto crea però una frattura enorme tra i due paesi, i cui rapporti sono ora molto instabili e lo rimarranno a lungo.
La sfida del 22 giugno 1986 si gioca dunque in un clima di forte tensione politica. Di fronte ci sono due paesi che qualche anno prima sono stati in guerra e che, da quel momento, non si sono mai più confrontati a livello diplomatico. Facile comprendere dunque quanto quel match pesasse e portasse un carico emotivo parecchio trascendente rispetto al semplice valore sportivo.
La manifestazione del Dios
Quel che succede poi allo stadio Azteca è storia nota. L’Argentina supera l’Inghilterra con due reti di Maradona. Due gol destinati a diventare leggenda. Il secondo è il cosiddetto “gol del secolo”, la corsa di 60 metri del fenomeno argentino attraverso la metà campo inglese. Uno tsunami che si abbatte sui poveri giocatori britannici, inermi e travolti da quella calamità naturale. Un manifesto della classe e della potenza del diez. Un saggio del sublime.
Il primo è però quello che ha consacrato definitivamente l’aurea divina di cui è sempre stato circondato Maradona. Il gol realizzato in volo dall’argentino, in anticipo sul portiere inglese Shilton, con l’ausilio però della mano. La Mano de Dios. Appunto.
Il gol è estremamente famoso, forse il più celebre della storia del calcio. Più che il gesto in sé, che poi Diego ha fatto passare come una sorta di ricompensa divina per punire gli inglesi, tornando alle Falklands, è interessante capire la portata che assume un concetto del genere in un paese come l’Argentina.
Quando in apertura si parlava di sentimenti totalizzanti e di passioni sfrenate, la massima dimostrazione di questa concitazione è la forza della fede nel paese. Per la precisione della fede cattolica, credo largamente dominante in tutta la nazione. L’Argentina è uno degli stati con la percentuale di credenti più alta nel mondo: il 92% della popolazione, quasi la totalità praticamente, è cattolica, praticante e osservante. La religione ha una potenza inaudita qui, è un tratto tipico di quasi tutto il Sudamerica, ma si caratterizza in maniera specifica in Argentina come fede cattolica. L’Argentina è infatti anche uno dei paesi sudamericani in cui trovano meno spazio riti legati alla natura o alla magia, largamente presenti nel resto del continente. L’unica comunità degna di nota estranea al cattolicesimo è quella ebrea che si trova a Buenos Aires, ma per il resto si può dire che tutto il paese è cattolico.
Lo è con una forza enorme, che sembra quasi rimandare indietro di secoli agli occhi degli occidentali. La manifestazione della potenza della fede argentina a tutto il mondo è avvenuta chiaramente con l’elezione al soglio pontificio di Papa Francesco, primo pontefice argentino e in generale sudamericano della storia. Un evento accolto con un tripudio e una celebrazione enormi. È stata la consacrazione per un paese la cui vita è scandita dal fervore religioso e dalle sue ricorrenze. Basti pensare che, in occasione della ricorrenza dell’Immacolata Concezione dell’8 dicembre, l’Argentina si ferma per ben tre giorni di festa, tanto è sentita l’occasione.
Insomma, la religione in Argentina è il fondamento della vita e della cultura, per cui parlare di “Mano di Dio” lì ha un peso molto diverso rispetto a farlo in Italia o nel resto d’Europa, dove la religione viene laicizzata con molta più semplicità. Lì quell’accezione ha uno scarso valore simbolico, ma fortemente realistico. Dio non è figurato, ma è incarnato. In Maradona e nel suo gesto. È un po’ come quando nella Bibbia il Signore si rivela e parla agli uomini. Lo fa tramite un mezzo, come nella famosa scena del Monte Sinai, quando Dio si presenta a Mosé mediante il rovo ardente. Qui la rivelazione avviene tramite quel colpo di mano, quel volo di Maradona che tocca il cielo, si fonde col divino e punisce l’Inghilterra.
La lettura “divina” di quel gesto ha sollevato Maradona dall’aver, semplicemente, commesso una scorrettezza incredibile. In una cultura diversa, probabilmente, quel tocco di mano sarebbe stato giudicato in modo differente, magari celebrato egualmente, ma allo stesso tempo condannato in maniera latente. In Argentina non avviene alcuna condanna, perché il calciatore viene sollevato dalla colpa, pulito dal peccato dalla mano divina. E da fuori non possiamo non farci trascinare da questa ostinata convinzione, dalla celebrazione cieca della rivelazione divina. E così, culturalmente, la Mano de Dios è quanto di più argentino ci sia ed è forse il gesto che, più di tutti, suggella quell’unione simbiotica tra l’Argentina e Maradona.
Dal Messico all’Italia: la consacrazione di Maradona
Dopo quell’Argentina-Inghilterra, match talmente famoso che è diventato molto più noto persino della finale, l’Albiceleste supera il Belgio in semifinale e la Germania nell’atto conclusivo laureandosi campione del mondo. Maradona segna un’altra doppietta ai Diavoli Rossi, mentre resta a secco nella finalissima di Città del Messico, ingabbiato dalla fisicità e dagli scrupoli dei tedeschi, ma comunque decisivo in assistenza ai compagni.
Come detto, la finale passa un po’ in secondo piano nella narrazione di questo incredibile Mondiale, ma è una partita degna di nota. Gli argentini vanno avanti dopo poco più di 20 minuti con Brown e nella ripresa raddoppiano con Valdano. A un quarto d’ora dalla fine, i tedeschi in sei minuti pareggiano i conti con Rummenigge e Völler. Gli sforzi dei teutonici vengono però resi vani tre minuti dopo, quando Burruchaga viene lanciato in campo aperto proprio da Maradona e nel duello individuale supera il portiere avversario Schumacher e segna il gol che, di fatto, regala il titolo mondiale all’Argentina.
A quattro anni di distanza da quel trionfo, Maradona e i suoi si trovano a difendere il primato mondiale in quella che, intanto, è diventata la patria adottiva del Pibe de oro. Nell’estate del 1986, Diego Armando Maradona vestiva da due anni la maglia del Napoli, ma non era riuscito ancora a portare i partenopei ad alcun successo di rilievo. La musica cambia, completamente, dopo la vittoria in Messico. Nella stagione 1986-1987 i campani vincono il primo scudetto della propria storia, guidati da un Maradona che in quel momento è, per distacco, il giocatore più forte del mondo. Dal 1986 al 1990, Maradona vince col Napoli due scudetti, una Coppa Italia e una Coppa UEFA.
Nell’estate del 1990, quando l’Italia si appresta a ospitare il Mondiale in casa e a vivere le proprie notti magiche, il Napoli di Maradona è campione d’Italia per la seconda volta nella propria storia e, nemmeno a dirlo, in Campania si fa il tifo per due Nazionali. Il destino vuole che però quelle due Nazionali arrivino a incontrarsi nel Mondiale e per giunta proprio a Napoli. In quello che è lo stadio di Maradona, che per l’occasione veste gli insoliti panni del nemico. Ma è impossibile considerare un avversario l’uomo che ha letteralmente regalato a una città intera le sue gioie più grandi, almeno calcisticamente parlando.
Il 3 luglio 1990 si disputa dunque la semifinale mondiale tra Argentina e Italia in un San Paolo paradossale. Si tratta forse dell’unico caso, o comunque uno dei pochi, in cui la selezione ospitante del Mondiale non gode interamente del supporto del proprio pubblico. Una situazione surreale, ma che ben esemplifica l’impatto di Maradona sui cuori dei tifosi. La sua capacità di suscitare solo sentimenti totalizzanti. Alla fine a spuntarla è proprio l’Argentina, che supera ai rigori l’Italia e approda in finale. A Roma si consuma però poi la beffa, con l’albiceleste che viene sconfitta dalla Germania nel remake della finale di quattro anni prima con un rigore a cinque minuti dal termine del match di Andreas Brehme.
Il Mondiale del 1990 rende la cifra del rapporto tra Maradona e l’Italia e del connubio nato tra il Diez e la città di Napoli. Un legame stretto e speciale, che non rappresenta però un unicum nella storia dell’Argentina. Già, perché il paese sudamericano, ancora prima dello sbarco nella penisola di Maradona e del suo amore col Napoli, ha intessuto profondi legami con l’Italia. Ben visibili, ancora oggi, nella Capitale Buenos Aires e in una delle sue squadre più rappresentative.
La Boca: da Genova e Buenos Aires
Nella città di Buenos Aires sorge un quartiere che rappresenta una sorta di piccola Italia nel cuore della Capitale argentina. È un barrio che conta circa 47.000 abitanti ed è diventato, grazie alla sua peculiarità, una delle mete più amate dai turisti a Buenos Aires. Si tratta del quartiere La Boca, situato nella zona sud-est della città, e caratterizzato da una fortissima impronta ligure. Leggenda narra che il nome del barrio derivi proprio da quello del famoso borgo genovese di Boccadasse, uno dei luoghi più incantevoli e suggestivi della Liguria. La Boca riprende le tinte pastello di Boccadasse e in passato è stato un punto di ritrovo importante per gli immigrati italiani. In particolar modo genovesi, chiaramente. Tuttavia, pare che in realtà l’origine del nome del barrio derivi dalla sua posizione sull’imboccatura (Boca, per l’appunto) del fiume Riachuelo nel Rio de la Plata.
Anche se il nome non rimanda direttamente a Genova, l’impronta italiana è viva e la presenza genovese è stata forte nel quartiere e in generale in tutta Buenos Aires. Secondo alcune fonti storiche, tra il 1876 e il 1888 un gruppo di immigrati genovesi in Argentina ha dato vita a una rivoluzione, instaurando quella che è passata alla storia come la “Repubblica de la Boca”. Il quartiere è stato proclamato indipendente dall’Argentina, giurando fedeltà al re d’Italia Umberto I. L’esistenza della Repubblica in realtà rimane parecchio incerta, ma è sicuramente una storia che sottolinea il rapporto tra l’Argentina e l’Italia.
Il legame viene fuori invece in maniera più evidente, e sicuramente più testimoniata, attraverso il calcio. Una delle due squadre simbolo dell’Argentina, il Boca Juniors, è stata fondata proprio da un gruppo di immigrati genovesi. Da qui l’appellativo Xeneizes – ovvero genovesi – per riferirsi ai tifosi del Boca. Intrecci infiniti tra Italia e Argentina e consacrati proprio dal calcio.
Le oscurità di Maradona e dell’Argentina
Fino al 1990 la carriera di Maradona è una progressiva e irrefrenabile ascesa verso il cielo. Una salita verso la deificazione. Dall’anno successivo, tutto piano piano si fa molto più oscuro nella carriera e in generale nella vita del calciatore. Il 17 marzo 1991 da un controllo antidoping emerge la positività alla cocaina di Maradona. Il primo indizio di un caos che presto esploderà con fragore.
L’argentino si becca una squalifica di un anno e mezzo per doping e, una volta scontata, Maradona riprende a giocare al Siviglia, lasciando però la Spagna dopo appena un anno e facendo ritorno in patria. Mentre inizia a delinearsi il quadro degli evidenti problemi di tossicodipendenza del giocatore, un pugno allo stomaco che spezza il fiato al mondo intero, per Diego arriva l’insperata chiamata per il Mondiale americano del 1994. La grande occasione per riabilitarsi, per tornare grande. Diventerà un incubo.
Usa ’94 segna praticamente la fine del mito di Maradona. Al termine del match contro la Nigeria, valido per i gironi, l’argentino viene trovato positivo all’efedrina in seguito a un controllo antidoping. Esplode, chiaramente, il caos. Tra accuse alla Fifa, teorie del complotto e pubblico sdegno, Maradona abbandona il Mondiale e non vestirà mai più la maglia dell’Argentina. L’ultima immagine con quella gloriosa casacca lo ritrae accompagnato da un’infermiera, una foto tristemente iconica, il contrappasso di quel volo col pugno in alto contro l’Inghilterra. La caduta, fragorosa e dolorosissima, del Dios.
Col passare degli anni emerge con forza quello che è stato a lungo il lato oscuro del mito di Maradona. I problemi di tossicodipendenza hanno radici lontane, il calciatore ha iniziato a fare uso di cocaina quando era ancora al Barcellona e la sua dipendenza è diventata un tormento ingestibile durante gli anni di Napoli. Dopo il ritiro dal mondo del calcio, nel 1997, Diego ha continuato a lottare in maniera serrata contro i suoi demoni. La droga, l’alcol, gli eccessi di cibo. Nemici che lo hanno quasi messo al muro più volte. Lo hanno costretto a due bypass gastrici e a diversi periodi in cliniche di disintossicazione. Il dramma è diventato sempre più nitido col passare del tempo e ha finito per fare da triste contraltare alla magia che ha espresso in campo.
Anche nel suo lato oscuro, Maradona è il simbolo perfetto dell’Argentina. Un paese tormentato costantemente dai demoni. Dove la fede e la gioia fanno da contraltare al crimine e alla violenza. Il periodo più buio della storia argentina è sicuramente quello della dittatura, ma anche gli anni che hanno seguito il ripristino della democrazia sono stati alquanto controversi.
Come per Maradona, possiamo trovare un filo comune nei drammi dell’Argentina nella droga. Il colpo di stato di Videla ha inaugurato un lungo periodo di instabilità politica e di corruzione e ha, di fatto, spianato la strada all’ascesa del crimine. Che in Sudamerica è per lo più rappresentato dal narcotraffico. In realtà il narcotraffico è una realtà che precede il colpo di stato, anzi è stato tra i pretesti che hanno portato al rovesciamento di Isabel Peron e alla presa del potere da parte dei militari. La situazione poi è degenerata in quegli anni, favorita anche da fattori esterni, come la “guerra contro la droga” inaugurata dal presidente americano Nixon che ha portato i cartelli colombiani a cercare vie alternative per portare la cocaina in America. Percorsi trovati proprio in Argentina.
Per tutti gli anni ’80 dunque i cartelli colombiani hanno sfruttato l’Argentina per far uscire la droga dal Sudamerica, approfittando soprattutto dei porti, in particolare di quello di Mar del Plata. L’instabilità politica che ha seguito la fine della dittatura nel 1893 e il lento ritorno della democrazia ha spianato la strada al proliferare di quest’attività. La crisi economica crescente ha reso sempre più appetitosi questi guadagni illeciti. Le vie della droga negli anni ’90 si moltiplicano, allargandosi verso l’Europa e attirando nel paese anche la criminalità organizzata italiana e la Yakuza, che proprio attraverso l’Argentina stringono legami coi cartelli colombiani per organizzare il traffico della droga.
Gli anni ’90 sono un vero e proprio flagello per l’Argentina, con continui scandali legati al narcotraffico, arrivato ormai a coinvolgere anche le più alte sfere politiche, che puntualmente rimangono impunite. Una situazione che, alla fine, esplode con l’arrivo del nuovo secolo e la celebre crisi del 2001, in cui l’Argentina rischia pesantemente il default. Decenni di corruzione, instabilità politica e violenza portano letteralmente al crollo del paese, che dal 2001, toccato il fondo, inizia una lenta e faticosa risalita.
Maradona e l’Argentina, la potenza di un legame
Dalla caduta e rinascita dell’Argentina, giungiamo alla fine di questo racconto. Il 25 novembre 2020 si spegne Diego Armando Maradona. Se ne va a sessanta anni uno dei calciatori più amati di sempre, eppure al contempo una delle figure più controverse di questo sport. I giorni che seguono la sua dipartita sono segnati dal lutto in praticamente tutto il mondo. Ma soprattutto, ed è facile immaginarlo, a Napoli e in Argentina. Anche dopo la morte Maradona non riesce a mettere d’accordo tutti, rimane chi condanna la sua vita di eccessi e chi assolve le sue debolezze. Su una cosa però el Pibe de oro mette d’accordo tutti: il peso del suo retaggio.
Maradona è forse il calciatore più iconico di sempre. Sono diverse le opere d’arte che gli sono state dedicate, dal monumento nel museo del Boca Juniors al murales di Napoli. Diego ha travalicato i confini del calcio, è diventato un’icona culturale, un mito. Ciò che però maggiormente la sua vita ha dimostrato è stato quel legame viscerale con l’Argentina, tale da renderlo un manifesto del suo paese. Maradona ha vissuto una vita a tinte esagerate, se la sua carriera fosse una tela sarebbe riempita solo con tonalità forti e tra loro impattanti. Tutto è esagerazione nella vicenda di Maradona, dall’amore all’odio, dalle forze alle debolezze. Tutto ha una potenza enorme, distruttiva ma anche salvifica.
Allo stesso modo, tutto risulta così esagerato in Argentina. La fede, la violenza, la gioia, la cecità: tutto viene vissuto in maniera totalizzante, senza mezze misure. Senza tentare di trovare una conciliazione tra gli estremi, ma dividendo sempre, come ha fatto Maradona per tutta la sua carriera. Dio o peccatore, paradiso o inferno. Perché la terra non è fatta per spiriti così potenti.