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Nicola Lozupone

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Il significato etimologico di Napoli deriva dal greco Nea-Polis, ossia città nuova; la storia della città campana si basa sul cambiamento e la storia ha visto passare dai campi Flegrei i romani, i bizantini, i saraceni, i normanni e gli aragonesi. Grazie a questo la città ha più volte cambiato faccia ma mantenendo intatto il proprio pregresso, creando un’alchimia ben visibile nelle strade e nella cultura che questa città ci regala.

Dallo scorso marzo, ossia dal momento in cui il goal di Trajkovski ci ha estromesso per la seconda volta consecutiva dai Mondiali, si è tornato a parlare di come il movimento calcistico italiano sia arretrato e non più in grado di generare giocatori di prima fascia. Oltre alle lamentele non si sono viste grande soluzioni all’orizzonte, e, dato che non siamo un paese adatto a delle rivoluzioni in qualsiasi campo, allora forse converrebbe cercare nel breve periodo soluzioni ragionevoli che possano quanto meno ridare una certa credibilità tecnica al nostro calcio.

Quando si parla del calcio di questi ultimi anni, il racconto pende prevalentemente dalla parte della forza fisica dei calciatori moderni, una sorta di esaltazione della forza e del potere mediante gigantismo come avveniva nell’arte scultorea classica. Poco si parla, invece, di quanto il calcio moderno punti sull’intelligenza dei calciatori come arma per esaltarne le doti e nasconderne i limiti. Questo discorso ben si presta ad un giocatore come Hugo Ekitike, centravanti del Reims e oggetto dei desideri di mercato di club importanti in Europa.

Sono passati dieci anni dal 9 giugno 2012, un giorno in cui ogni tifoso della Sampdoria ricorda dov’era, cosa faceva ed anche che tempo c’era: sì, perché quel giorno di fine primavera il Nord Italia fu investito da un gigantesco temporale che dettava il passaggio definitivo dalla primavera all’estate e che, quindi, decise di fare da sfondo a quel Varese-Sampdoria che, in una notte, doveva stabilire chi tra varesini e blucerchiati avrebbe potuto festeggiare il ritorno in serie A.

Per chi è avvezzo ad un famoso cooking-show televisivo, la finale di Europa League è assimilabile ad un prestigiosissimo invention test: chi la vince, non solo alza al cielo una coppa che raccoglie la tradizione della vecchia coppa UEFA e riempie la bacheca, ma soprattutto guadagna un vantaggio di grandissimo rilievo, ossia accedere alla prova successiva, la Champions League, disponendo della prima fascia al sorteggio della fase a gironi, dunque maggiori possibilità di giocarsi un accesso tra le prime 16 d’Europa nel 2023.

Il calcio ha il merito, spesso e volentieri, di dare seconde opportunità a chi nel corso della sua carriera ha avuto battute d’arresto determinate da infortuni, pesanti sconfitte o, ancor peggio, comportamenti personali non propriamente professionali. Si sente spesso dire che ad ogni caduta corrisponde una risalita, di esempi ce ne sono tanti in giro, ma questa affermazione risulta particolarmente calzante quando tra le mille notizie che passano sulle timeline dei nostri social ne appare una che non può non attirare l’attenzione.

Il 5 febbraio all’Allianz Arena di Monaco di Baviera si sono affrontate Bayern Monaco e Lipsia, una partita tra le più belle e palpitanti di questa stagione, terminata 3-2 per la formazione bavarese in cui abbiamo visto due squadre affrontarsi a viso aperto e che hanno cercato di giocare la propria partita cercando di valorizzare i propri punti di forza, senza pensare eccessivamente a speculare su pregi e difetti dei propri avversari.

Era un 19 marzo 1996, Bordeaux e Milan si affrontavano per un quarto di finale di ritorno di Coppa UEFA in cui i rossoneri partivano da un doppio vantaggio conquistato a San Siro con le reti di Stefano Eranio e Roberto Baggio. Doveva essere una partita di ordinaria amministrazione, tanto più per una squadra allenata da Fabio Capello, ma nulla di ordinario avvenne quella sera a Parc Lescure.

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