La sala è piena. Sono presenti i leader delle grandi potenze mondiali, degli Stati Uniti, del Regno Unito e della Germania. Tra loro anche i protagonisti dell’ultima grande guerra del Novecento. Il primo maxi-conflitto in Europa dalla fine della tragica Seconda Guerra Mondiale, da quando l’intero pianeta aveva deciso di mettersi alle spalle trent’anni di violenze e atrocità, alla ricerca di un nuovo equilibro. Di una pace forzata, di una quiete fatta di cristallo, pronta a esplodere al minimo tocco sferrato con chirurgica pressione.
Ora, in quella sala a Dayton, Ohio, si tenta di ricostruire nuovamente quella pace precaria. Dopo cinque anni di conflitti si prova a ricreare un equilibrio in un’area tradizionalmente instabile come quella dei Balcani. Lì, insieme a quei grandi leader mondiali ci sono Slobodan Milosevic, Franjo Tudman e Alija Izetbegovic, i rappresentanti rispettivamente di Jugoslavia, Croazia e Bosnia ed Erzegovina. Il trattato che si accingono a firmare segna la fine alla guerra in Bosnia, fissando le frontiere tra i paesi slavi e definendo la struttura interna del neostato bosniaco.
L’accordo di Dayton, firmato nel novembre 1995, sembra il punto d’arrivo di un conflitto che da anni imperversa in Jugoslavia. In realtà la storia avrebbe detto il contrario, si sarebbe continuato a combattere ferocemente in altre aree dei Balcani come il Kosovo e la Macedonia, ma in quel momento sembra che finalmente si sia trovata una soluzione per ripristinare l’equilibrio in quella zona del globo che si era surriscaldata ben oltre il limite di sicurezza.
Le mani si stringono, le labbra si distendono in sorrisi rassicuranti. La soddisfazione è palpabile e per un attimo si pensa di poter archiviare, con delle semplici penne che scorrono su dei fogli, l’ultimo tragico periodo della storia europea. La violenza nei Balcani non si ferma nel novembre 1995, ma Dayton segna sicuramente uno spartiacque fondamentale nella storia della dissoluzione della Jugoslavia, nella capitolazione di uno stato che ormai non rappresenta più nessuno nei suoi ultimi anni di vita.
Jugoslavija
La situazione della Jugoslavia all’alba dell’ultimo decennio del XX secolo è a dir poco tesa. Il mondo sta mutando pelle in maniera profonda, la polarizzazione del globo in due blocchi contrapposti, che ha connotato tutta la storia del Novecento dal dopoguerra in poi, sta venendo meno, con la dissoluzione dell’URSS e la caduta del muro di Berlino che danno un duro colpo al vecchio ordine. In questo contesto, la Jugoslavia si presenta come uno stato appartenente al passato, a quell’antico ordinamento che sta progressivamente crollando. Un paese enorme, con all’interno una mescolanza impressionante in cui le differenze etniche, religiose e culturali delle diverse anime che lo compongono iniziano a emergere con preoccupante vigore.
La morte di Tito, storico leader della Jugoslavia e artefice della costruzione del paese, segna una forte fase di passaggio nella storia dei Balcani. La sua scomparsa avviene il 4 maggio 1980 e per qualche anno la Jugoslavia riesce a rimanere abbastanza compatta, dando l’impressione di poter sopportare l’urto di quella transizione. Con l’avvicinarsi degli anni ’90, però, crescono anche gli elementi di tensione e la situazione inizia a degenerare.
Le diverse anime che compongono lo stato slavo cominciano ad agitarsi, sollecitate da un imperante nazionalismo che finalmente trova sfogo ad anni di distanza dalla fine della morsa di Tito. La componente serba rimane dominante all’interno dello stato, ma inizia ad aumentare l’insofferenza della Slovenia, culturalmente molto vicina all’Europa centrale, e della Croazia, che invoca maggiore autonomia e dà fiato al crescente movimento anti-comunista e nazionalista che porta al governo del paese l’ex generale di Tito, Franjo Tudman.
La tensione esplode definitivamente con l’inizio degli anni 90, quando sopraggiungono anche seri problemi economici a surriscaldare un clima già rovente. Il primo paese a muoversi è la Slovenia, forte dei suoi rapporti con l’Europa occidentale, poi elezioni libere vengono indette anche in Croazia, dove vince appunto Tudman. Le elezioni dei due paesi non vengono però riconosciute dal governo di Belgrado, presieduto dal capo dei socialisti serbi: Slobodan Milosevic.
Si arriva così allo scontro, risolto in maniera veloce con la Slovenia, che raggiunge l’indipendenza nel 1991, più lungo invece con Croazia e Bosnia. L’accordo di Dayton, nel 1995, mette fine a cinque anni di conflitti nei Balcani, con la Jugoslavia che ne esce fortemente ridimensionata, senza più Slovenia, Croazia e Bosnia ed Erzegovina al suo interno. La dissoluzione dello stato slavo proseguirà negli anni successivi, con i conflitti in Kosovo e Macedonia che segneranno l’epilogo definitivo della Jugoslavia.
Maksmir
In questo contesto, rovente e pronto ad esplodere, si colloca il protagonista di questa storia. È il 13 maggio 1990, la tensione in Jugoslavia è alle stelle. Appena una settimana prima, Franjo Tudman ha vinto le prime elezioni libere della storia della Croazia, portando al potere il suo partito di destra, in forte opposizione verso il governo centrale di Milosevic. Ora, allo stadio Maksmir di Zagabria, stanno per affrontarsi la Dinamo e la Stella Rossa, in uno dei match più sentiti dalle due tifoserie.
Il calcio fa poco più che da contorno in quest’occasione. Si sfidano le prime due della classe, ma la Stella Rossa ha già vinto il campionato e quel match ha un valore sportivo pressoché nullo. Diverso, invece, il peso politico della gara. Dinamo Zagabria-Stella Rossa diventa lo scontro più generale tra Croazia e Serbia, tra le due anime più forti e in contrapposizione della Jugoslavia. Tra il potere di Milosevic e l’opposizione di Tudman.
Il match è anche l’occasione per lo scontro, frontale, tra la tifoseria croata, i Bad Blue Boys, e i Delijie, gli eroi, gli ultras della Stella Rossa capitanati da Zeljko Raznatovic, una figura a dir poco oscura. Negli anni ’70 ha fatto parte della polizia segreta jugoslava, poi si è mosso nel mondo della criminalità, diventando noto col nome di Arkan e mettendo su un personale corpo di milizia, le Tigri di Arkan. La sua mano violenta caratterizza in maniera pesante il gruppo di tifosi serbi.
Le due tifoserie iniziano a darsi battaglia sin dalle prime luci dell’alba, seminando caos e disordini per la città. Incendi, scontri armati, una vera e propria guerriglia per le strade di Zagabria e all’interno del Maksmir: a nessuno interessa nulla della partita, quel match è una semplice valvola di sfogo per tutta la tensione accumulata.
Mladića
In quella cornice da dramma apocalittico, c’è comunque una partita da giocare. Ci sono due delle squadre più interessanti del panorama europeo pronte a fronteggiarsi. La Stella Rossa da una parte, guidata dalle stelle Dejan Savicevic e Robert Prosinecki, e la Dinamo Zagabria, capitanata da un giovanissimo Zvonimir Boban.
Boban è un personaggio decisamente peculiare e rappresentativo all’interno di questo panorama. Nato nella cittadina di Imoschi, vicino al confine con la Bosnia, un territorio nettamente diviso tra chi sogna una Croazia indipendente e chi rimane fedele al governo di Belgrado. Ma il giovane Zvone non ha alcun dubbio: per lui la Croazia deve essere libera e ben presto lui stesso si afferma come un simbolo della lotta per l’indipendenza.
Da giovanissimo, Boban esordisce nella massima serie jugoslava quando ha appena 16 anni. Diventa un titolarissimo della Dinamo Zagabria e appena tre anni dopo riceve la fascia da capitano della squadra, da cingere al braccio e portare con orgoglio.
“Per la maglia della Jugoslavia ho sempre dato il massimo, ma per quella della Croazia potrei morire
Zvonimir Boban è uno che non si nasconde, che sin da giovanissimo ha le idee chiare e vuole esprimerle con forza. E proprio lui, che il 13 maggio 1990 ha appena 19 anni, oltre che leader della Dinamo Zagabria diventa un vero e proprio simbolo del nazionalismo croato nell’inferno del Maksmir.
Nogomet
Il clima rovente a Zagabria viene esasperato anche dall’atteggiamento della polizia, che, sottoposta ovviamente all’indirizzo del governo centrale, prende le parti dei serbi nello scontro, soffocando con maggiore vigore la veemenza dei tifosi croati. La situazione diventa esasperante quando, durante il match, alcuni supporters della Dinamo invadono il campo, arrivando allo scontro aperto con la polizia, accusata di fare il gioco degli aggressori serbi,
Sul rettangolo di gioco esplode il caos, i poliziotti si avventano sui tifosi, la guerriglia impazza tra colpi di manganello, lanci di pietre, botte da orbi. A un certo punto, il giovane capitano della Dinamo vede alcuni poliziotti che si accaniscono col manganello su alcune persone a terra e in uno scatto d’ira si avventa su uno di loro, sferrandogli una ginocchiata che gli frattura la mascella.
Il calcio di Boban al poliziotto diventa il simbolo della lotta della Croazia contro la Serbia. Si fa fotografia del conflitto che, da lì a poco, sarebbe esploso con una violenza naturalmente molto più profonda e con dei risvolti tragici e spietati.
La partita naturalmente viene sospesa e mai più giocata. Gli scontri si prolungano fino alla notte, con un bilancio finale di 132 arresti e 138 persone ferite. La battaglia del Maksmir assurge a esempio cinico della tensione sempre più crescente in Jugoslavia e Zvonimir Boban si consacra come uno dei volti più noti della lotta croata per l’indipendenza. Il calciatore, che l’anno dopo avrebbe lasciato la propria patria per venire a giocare in Italia, deve affrontare tutte le conseguenze del proprio gesto, tra cui una squalifica di nove mesi che lo costringe a saltare i Mondiali del 1990. Avrà, però, occasione di rifarsi, e non più con la maglia della Jugoslavia, ma con quella della sua amata Croazia.
Hrvatska
Nel giugno 1998 sono passati ben otto anni dalla guerriglia del Maksimir. Il mondo è cambiato completamente, al posto della Jugoslavia ora ci sono i diversi stati che popolano i Balcani, anche se i conflitti continuano ad animare quella zona dell’Europa. Zvonimir Boban è diventato uno dei centrocampisti più forti al mondo, una vera e propria colonna del Milan, con cui ha vinto una Champions League e tre scudetti.
A otto anni da quella squalifica che gli è costata i Mondiali in Italia, Zvone è pronto stavolta a partecipare alla nuova edizione della kermesse calcistica, che si tiene in Francia. L’emozione di scendere in campo in un Mondiale con la maglia della sua Croazia è immediatamente palpabile, è il coronamento della lotta di una vita intera. Un sogno che prende forma.
La Croazia è una delle cenerentole del Mondiale di Francia 1998. Al suo primo ballo, la Nazionale balcanica può contare già su una rosa di altissimo livello, che oltre a Boban annovera il bomber Davor Suker e altri giocatori di caratura importante come Stanic e Vlaovic.
Gli slavi vengono inseriti nel girone H ed esordiscono rifilando un bel 3-1 alla Giamaica, per poi battere 1-0 il Giappone e capitolare solo all’ultimo turno contro l’Argentina di Batistuta. Una sconfitta indolore, perché i croati si piazzano al secondo posto e strappano il pass per gli ottavi di finale.
A Bordeaux, nel primo match a eliminazione diretta della propria storia in un Mondiale, la Croazia supera di misura la Romania di Hagi grazie a un rigore di Suker nel recupero del primo tempo. La grande impresa arriva però nei quarti a Lione, dove gli slavi liquidano la Germania campione d’Europa con le firme di Jarni, Vlaovic e Suker.
Alla sua prima partecipazione a un Mondiale, la Croazia è in semifinale e non vuole smettere di sognare. A Saint-Denis, però, Boban e compagni devono fronteggiare la Francia padrona di casa. Il primo tempo scorre senza sussulti, coi galletti che attaccano e i croati che si difendono. Ad inizio ripresa, poi, il solito Suker sblocca il match, portando in vantaggio la Croazia e facendo letteralmente trasognare i tifosi. Poco dopo, però, arriva il brusco risveglio, con colpevole protagonista proprio il tanto amato eroe nazionale.
Francuska
Appena un minuto dopo il vantaggio di Suker, Boban perde un pallone velenosissimo sulla propria trequarti, se lo fa soffiare da Thuram che triangola con Djorkaeff e sigla la rete del pareggio. Lo stesso difensore, più tardi, segna anche il gol del definitivo 2-1, che porta la Francia in finale e condanna la Croazia all’eliminazione.
Il destino di Boban è di quelli veramente crudeli. Lui, l’eroe della patria, il volto dell’indipendenza croata, uno dei giocatori più forti e amati dai tifosi, si macchia di quell’erroraccio che, di fatto, porta il match sui binari favorevoli alla Francia.
La corsa della Croazia si ferma in semifinale, ma gli slavi hanno ancora tempo per scrivere la storia. Nella finale per il terzo posto che si gioca a Parigi, gli uomini allenati da Miroslav Blazevic superano 2-1 l’Olanda e chiudono sul gradino più basso del podio la loro avventura francese. È un risultato storico, perché mai nessuna esordiente era riuscita a fare meglio: battuto il Portogallo di Eusebio, arrivato quarto nel 1966 in Inghilterra.
Heroj
Dal calcio al Maksmir a quel pallone perso a Saint-Denis, la parabola di Zvonimr Boban si consuma e veleggia quella della Croazia, di cui nel bene e nel male è stato simbolo. Un esempio di violenza, di reazione, di orgoglio, di appartenenza, anche di fragilità e di caduta. Sempre protagonista, in ogni momento. D’altronde, lo stesso Boban ha ammesso che per la Croazia sarebbe potuto morire, cosa che figurativamente del resto ha fatto.
Col tempo, Zvonimir Boban è diventato uno dei volti più rappresentativi dei primi anni di vita della Croazia. Dalla lotta per l’indipendenza a quella per l’affermazione. Il suo peso è stato anche gonfiato a dismisura, soprattutto per quanto riguarda quel calcio al poliziotto al Maksmir. La storia ha consegnato la sfida tra Stella Rossa e Dinamo Zagabria come la scintilla che ha scatenato il conflitto in Jugoslavia, ma la realtà è ben diversa. I fatti del Maksmir rientrano semplicemente all’interno di una tensione che sarebbe esplosa comunque. Sono solo una tappa del percorso che ha portato alle guerre di Jugoslavia, non la causa scatenante.
Forse anche il ruolo nella sconfitta con la Francia di Boban è stato gonfiato eccessivamente. D’altronde, la Croazia prima del gol di Thuram era sì avanti di un gol, ma con un tempo intero da giocare e i transalpini hanno dimostrato per tutto il match la propria superiorità. Inoltre, dopo l’1-1 comunque la Croazia non è riuscita a reagire e ha subito il secondo gol.
Le letture esagerate di due passaggi chiave della carriera di Boban sono però anche la dimostrazione del suo enorme peso nel processo di costruzione dell’identità croata. Mostrano quanto il calciatore ex Milan sia stato importante per la sua nazione, quanto sia dovuto diventare, nel bene e nel male, un modello universale. Un eroe nazionale. E alla fine il destino di tutti gli eroi è proprio questo: quello di essere largamente incompresi. D’altronde, lo stesso Boban ha offerto una lettura iperbolica di sé stesso, dichiarando di poter morire per la sua Croazia.
Una promessa, in fin dei conti, figurativamente mantenuta, visto che per la sua ansia di giustizia ha dovuto saltare i Mondiali del 1990 e poi, nel 1998, ha condannato la sua squadra all’eliminazione dopo aver contribuito a portarla alla gloria. Tutto ciò che Boban ha fatto è stato mirato a inseguire il suo sogno di una Croazia indipendente, che alla fine altro non è che lo specchio della sua realizzazione identitaria personale.