Troppo spesso, il successo sportivo è effimero. Basta un attimo. Siglare un goal, appoggiare gli spicchi nella retina, andare a muro contro lo schiacciatore. Scegliete voi l’istantanea, l’esito è puntualmente il medesimo: si alza un trofeo e talvolta ce ne si dimentica. Per fortuna, esistono le cosiddette eccezioni che confermano la regola. Brian Howard Clough può confermarlo.
L’eccezione tinta di Garibaldi Red per il nativo di Middlesbrough alla guida del Forest è una di quelle con la E maiuscola, un’avventura che marchia un impronta che si distingue nel decorso naturale della cronistoria non solo della squadra di Nottingham, ma anche dell’intero panorama calcistico inglese, europeo, globale. Un personaggio anticonformista se ce n’è uno, pervaso da ideali socialisti e da una strana empatia col mondo esterno. E non poteva che essere così.
Furente e fraterno con i suoi giocatori, furioso e carismatico con il resto del mondo, aveva iniziato la sua carriera in primis come tifoso del Derby County. Allacciati gli scarpini, indossa due volte il biancorosso: qualche anno nella sua Middlesbrough ed un triennio al Sunderland, siglando un numero di gol che si avvicina molto al computo delle gare in cui è sceso in campo. Giusto per far quadrare i conti, le partite sono state 274, prima del tragico infortunio che gli sventola un fazzoletto nel più beffardo dei convenevoli. Passerà in panchina, non potrà andar peggio – o meglio, dipende dai punti di vista – di così.
Prologo
Lo stage non prevede rosso in spogliatoio, se escludiamo dal quadro immaginario il sangue che inizia a ribollire nelle sue vene. La sua prima esperienza da allenatore, infatti, lo vede sulla panchina dell’Hartlepool United: se ve lo state chiedendo, il maggior successo raccolto da questa compagine della Contea di Durham è proprio l’aver dato i natali manageriali ad uno dei tecnici più memorabili che il mondo del pallone abbia mai conosciuto.
L’esperienza iniziale nei bassifondi del calcio inglese lo affina, con il grande salto che avviene due anni dopo. Brian Clough ha 32 anni quando la sua squadra del cuore lo chiama disperatamente per togliere le castagne dal fuoco. Sono 15 anni che il Derby County non disputa la First Division e l’anno precedente i bianconeri hanno raccolto un misero 17° posto in classifica. Ovviamente accetta ed inizia un connubio odi et amo con Peter Taylor, senza cui, molto probabilmente, oggi non ci sarebbero due statue dedicate a Clough, una a Derby e l’altra a Nottingham.
Nonostante le premesse trionfanti – narrativamente viste a posteriori -, la favola non perviene direttamente al primo capitolo. La definirei più come una bella storia in medias res, visto che la promozione giunge alla seconda stagione del duo in panchina: il Crystal Palace è staccato di 7 lunghezze ed il Derby ritrova finalmente il Paradiso del calcio inglese.
Il rollercoaster, però, è ben lungi dall’essere fermato: arriva un sorprendente 4° posto alla prima annata in First Division, puntualmente deluso dalla nona posizione del 1970/1971. Il cambio gomme per gli ultimi giri del Gran Premio lo si è atteso con spasmodica impazienza ed un pizzico di curiosità: in bacheca brillava solo una FA Cup, quel titolo lo si era vinto solo sotto le coperte, facendo viaggiare l’immaginazione.
Ma Brian è Willy Wonka in una città operaia invasa dal cioccolato e la bagarre per il trionfo finale vede una volata a quattro: (ovviamente) Derby County, Manchester City, Liverpool e Leeds, beffato nella stagione precedente dall’Arsenal. Gli Sky Blues vengono estromessi dalla corsa, perché al termine della loro ultima gara Derby e Liverpool devono ancora scontrarsi: una delle due supererà necessariamente la squadra di Manchester. 1-0 per i bianconeri, che ora attendono il loro destino nella maniera più briancloughesca possibile: il tecnico va alle Isole Scilly, Taylor porta i giocatori a Maiorca. Non vogliono che lo stress prevalga, il loro compito è finito.
Non credo ai miracoli, ma uno è occorso questa notte.
Come potete facilmente intuire, il miracolo equivale alla prima vittoria del titolo di First Division nella storia del club. Il Leeds si infrange davanti al Wolverhampton, mentre i Gunners campioni in carica fermano nuovamente il Liverpool sullo 0-0. L’anno successivo, il Derby County tenta il tutto per tutto in campo europeo: cadono gli jugoslavi del Željezničar, il Benfica di Eusebio ed i cechi dello Spartak Trnava, ma non la torinese che da quei britannici aveva ereditato i colori sociali. La Juventus infrange i sogni degli uomini di Clough&Taylor in semifinale di Coppa Campioni, facendo infuriare l’avversario in panchina. “Maledetti bastardi”, urla in conferenza stampa. Qualcuno cerca di calmarlo: ci riuscirà da solo, qualche anno dopo.
Non ho mai incontrato uno spirito collettivo più forte di quello che abbiamo costruito al Derby County.
Are you sure, Brian?
Tra la parentesi Derby County ed il rosso acceso che lega i suoi occhi e la maglia destinata a dominare l’Europa, Brian Clough vive due anni tendenti al surreale. Dimessosi dalla guida dei bianconeri dopo aver spezzato il filo sottile che lo legava a Sam Longson, proprietario e presidente del club, giunge la chiamata del Brighton. Ma come, la Third Division?
Dicevo, surreale: immaginate un allenatore di prima fascia, dal carattere fumantino – ottimo eufemismo -, che dopo aver vinto un titolo al primo piano del calcio britannico, decide di ripartire dalla terza categoria professionistica. Accetta, vince, convince, ma dopo 8 mesi se ne va: il Leeds avversario di mille battaglie ha dovuto salutare Mr. Don Revie, chiamato alla guida dei Tre Leoni dopo la vittoria del suo secondo campionato alla guida dei Peacocks. Brian dice sì, ma è l’inizio di un canto dell’Inferno dantesco. Peraltro, senza la sua Beatrice, quel Peter Taylor con cui i rapporti si erano incrinati dopo l’addio al Derby.
Non c’è da stupirsi che David Peace abbia romanzato la storia di quei 44 giorni del tecnico inglese alla guida de Il Maledetto United, libro dal quale Tom Hooper ha tratto una pellicola di pregevole fattura. Tra le due parti le cose non funzionano. E allora Clough fa l’ennesima scelta folle.
“That team”
Secondo un sondaggio del 2008, la rivalità tra Derby County e Nottingham Forest è tra le 10 più sentite dell’intero panorama calcistico britannico. Considerando che a queste latitudini si trova un manto erboso e due porte ad ogni agglomeramento urbano, è una statistica che parla sa sola. 9 tifosi su 10 di entrambe le squadre, sostanzialmente, definiscono il Derby County o il Nottingham Forest, a seconda dell’intervistato, come il più acerrimo dei nemici.
Al di là delle circa 20 miglia che separano l’ormai demolito Baseball Ground di Derby – dove i bianconeri hanno giocato fino al trasferimento a Pride Park nel 1997 – ed il redivivo City Ground, sulla sponda rossa del fiume Trent – che guarda Meadow Lane, casa degli altri rivali del Notts County -, l’odio sportivo tra queste due compagini proviene proprio da quell’allenatore che non credeva ai miracoli. Ciò non significa che non li facesse accadere.
La scelta folle, dovreste averlo intuito, riguarda sedersi sulla panchina del Nottingham Forest. Riparte dalla Second Division e, come al solito, ha bisogno di carburare: la stagione 1975/1976 regala un sesto posto, 12 posizioni più in alto rispetto al 18° tassello della sua prima annata al Derby, ma pur sempre senza promozione. L’anno dopo, arriva il grande salto, con la squadra che si inizia a plasmare elemento dopo elemento: figure del calibro di Viv Anderson (primo calciatore di colore a vestire la maglia della Nazionale inglese), Frank Clark, Larry Lloyd, John McGovern, Martin O’Neill e John Robertson, che faranno impazzire un’intera città, sono qui fin dalla serie cadetta.
Il Forest torna in First Division dopo alcune annate di oblio, ed alla tifoseria dei Garibaldi Reds basterebbe questo per apprezzare e lodare il lavoro di Clough. Non pensano minimamente a ciò che sarebbe accaduto nei mesi successivi; alcuni avevano completamente rimosso dall’anticamera del cervello il trionfo dell’Ipswich nel 1962, vincitore della First Division nella stagione da neopromossa. Taylor, che si è riappacificato con il carismatico del duo, lo convince a portare in squadra Peter Shilton e Kenny Burns: per il primo nessun dubbio tra i pali, il secondo lo si schiera difensore centrale. A Birmingham aveva sempre fatto la punta, ma a Nottingham farà il centrale: la follia ripaga.
Inutile dire chi vincerà la First Division 1977/1978, da neopromossa, a +7 dal Liverpool campione in carica. Altrettanto superfluo sottolineare chi si sia preso la scena, tra interviste imperdibili e sfuriate goliardiche – non sempre – nello spogliatoio. Buffo constatare quanto il suo verbo fosse potente nel diffondersi in ogni parte del mondo, come testimoniano le parole del pugile più forte di sempre, ovviamente con toni ben più che scherzosi:
Ne ho sentito parlare in America e persino in Indonesia, questo tizio parla troppo. C’è solo un Muhammad Ali. Voglio che tu sappia che tu non prenderai il mio lavoro. Sono io quello che parla. Clough, ne ho avuto abbastanza, smettila!
Risposta? “Voglio battermi con lui”. L’assurda normalità prevede che Clough lo pensi realmente, e non c’è nulla di più bello. O forse sì: si chiama Coppa dei Campioni, ed è la portata principale da aggiungere al menù nelle East Midlands. Scendono in campo con la solita leggerezza di sempre, consapevoli che niente e nessuno li possa fermare, se impongono il loro gioco. Il primo ostacolo è il Liverpool, che l’anno precedente aveva vinto il secondo trofeo della sua storia, facendo il bis dopo l’annata 1976/1977 – quando il Forest era ancora nel Purgatorio del calcio britannico. E che problema c’è? 2-0 sulla sponda del Trent, 0-0 ad Anfield. Li chiamavano “That team”: basta questo.
Poi, in fila, cadono sotto i colpi dell’armata di Clough i greci dell’AEK Atene (7-2 complessivo), gli svizzeri del Grasshoppers (5-2 complessivo), i tedeschi del Colonia in delle semifinali mozzafiato (4-3 tra andata e ritorno). In finale c’è il Malmö di Bob Houghton, che incontra i suoi connazionali dopo aver dato luce propria al calcio svedese. La gara è bloccata, serve un guizzo folle, come da tradizione per i successi di Brian Clough: ci pensa Trevor Francis, alla sua prima partita in rosso, primo acquisto britannico sopra il milione di sterline e dal futuro italiano con Atalanta e Sampdoria. That team are Champions of Europe.
L’anno successivo, neanche a farlo apposta (o forse sì), gli dei del calcio decidono che tra la seconda Coppa dei Campioni ed il Nottingham Forest ci sia nuovamente un inglese. Questa volta non siede in panchina, ma è la faretra ideale nella trequarti dell’Amburgo: Kevin Keegan, due volte Pallone d’Oro ed ex Liverpool. Guarda un po’ il destino.
L’esito, però, è ovviamente lo stesso. Un altro 1-0, perché non importa quale sia la filosofia calcistica alla base: “Get that fucking ball in!”, a Brian non importava altro. Per giunta, la rete decisiva è siglata da John Robertson, uno a cui Clough era solito riferirsi con l’appellativo “the little fat guy”: non servono traduzioni. Sollevare quel secondo trofeo dalle grandissime orecchie è un gioco da ragazzi. L’anticonformismo ha vinto ancora, ci si sta abituando. Per un uomo che non crede ai miracoli ma lavora per le favole, è una bella consuetudine.
Ho reso semplice ciò che un allenatore può trovare difficile. Non so se è un dono, a me viene naturale.
Tutta colpa tua, Brian Clough
Clough rimase nel club fino al 1993, ma è inutile dire che dopo il suo addio – burrascoso, giusto per non infrangere in mille pezzi le tradizioni -, nulla fu più come prima. Lo scorrere del tempo ed il vizio dell’alcool lo logorano, la squadra ne risente: la sua ultima annata equivale ad una retrocessione in Second Division. È un magnifico ed inaspettato cerchio che si guide.
Il Forest naviga in acque agitate da anni, senza un timoniere adatto a reggere il peso di questa barca, dal passato ingombrante, per usare un eufemismo. La masterclass di Brian Clough si legge nella bacheca trofei del club: più Coppe dei Campioni che First Division. Il ribelle che aveva rubato ai ricchi per portare in Paradiso i poveri, come il primo cittadino di Nottingham, Robin Hood, insegna.
Esatto, Robin Hood. Senza il passaggio di quell’allenatore così diverso dagli altri, Nottingham sarebbe rimasta una città ordinaria, con un fiume che la attraversa e con un eroe popolare da portarsi sulle spalle. Invece, nel 2005 è diventata la prima squadra della storia a disputare un campionato di terza divisione pur avendo una Coppa dei Campioni – due, in questo caso – che brilla nella sala trofei.
E quindi è colpa tua se hai dato i natali a centinaia di tecnici carismatici, Dr. Jekyll con i propri giocatori e Mr. Hyde con la stampa. È colpa tua se l’11 titolare della stagione 1978/1979 è tatuato sulla cute di Paul Tetley e chissà quanti altri tifosi. Brian, è colpa tua se oggi soffrono, perché pensano a quando sulla panchina del City Ground sedeva un ragazzo che si faceva voler bene dalla sua gente.