A Rio De Janeiro il Canada di Sinclair conquista il terzo posto, sedendosi un gradino sotto una Svezia d’argento. In questa trentaduesima edizione delle Olimpiadi le canadesi compiono un’ impresa folle, e contro ogni pronostico vincono ai rigori sulle svedesi e rimescolano le carte per un sorpasso che rimarrà nella storia.
Le ore precedenti al fischio di inizio sono state piuttosto movimentate, e il motivo è di per sé curioso. Da calendario il match si sarebbe dovuto giocare alle 11 del mattino, in un clima locale dove il nostro Giuliacci ci consiglierebbe saggiamente di bere molto e stare in casa. Il Comitato Olimpico, in seguito a preoccupazioni da parte delle due squadre finaliste circa una risposta psicofisica negativa da parte delle atlete, concede il posticipo alle ore 21 senza troppi problemi.
Si tratta di una scelta che avrebbero potuto prendere in piena coscienza già dalla definizione del calendario, ma – stando a quanto raccolto dal The Guardian– ci sarebbero stati dei condizionamenti in merito. Alcune emittenti statunitensi, infatti, avrebbero richiesto un orario congeniale per poter trasmettere la finale in esclusiva sulle proprie reti, certi che la loro nazionale sarebbe arrivata fino in fondo. Un fatto che rivela una gufata simile al tatuarsi “It’s coming home” prima di una finale di un Europeo a caso.
“We got our asses kicked”, come disse Megan Rapinoe in seguito alla sconfitta contro la Svezia.
Le Olimpiadi delle generazioni
Quella a cui abbiamo assistito è stata senza alcun dubbio un’edizione spettacolare, una di quelle dove il risultato non è mai davvero in cassaforte fino all’ultimo minuto di recupero. Una di quelle dove si perdono i confini dei pronostici, dove il cuore e le gambe sembrano prendere il sopravvento su tecnica e organizzazione; una di quelle dove abbiamo osservato il crollo della corona sulla testa della Regina e visto come l’orgoglio e lo spirito di rivalsa valgano molto più di una banale etichetta da outsider.
Il livello generale dunque si è confermato molto alto, questo anche grazie alla possibilità per ogni squadra di convocare giocatrici senza limiti d’età come invece avviene per il torneo maschile. I diversi gradi di esperienza presenti in ogni partita sono stati la chiave del successo di questa edizione. Alcuni media hanno sottolineato più volte come queste siano state le Olimpiadi delle leggende a confronto, parlando delle squadre in modo personalistico, identificandole con giocatrici-simbolo. Un fatto inevitabile considerando che in ogni selezione era presente almeno una calciatrice rappresentante la storia vivente del calcio femminile internazionale. Tuttavia, le giovani sono state la vera sorpresa e la vera medaglia di queste Olimpiadi, la conferma che qualcosa sta cambiando a livello internazionale e lo sta facendo per il verso giusto, crescendo giocatrici professioniste in grado di dare una linfa mai sperimentata prima dal movimento.
Dalla fase a gironi ai quarti: menzione speciale per l’Olanda
La fase a gironi si è rivelata estremamente insidiosa. L’unica squadra a chiudere a punteggio pieno è stata proprio la finalista Svezia, che dopo aver battuto gli Stati Uniti 3-0 nella gara d’apertura sembrava essere inarrestabile e grande favorita verso l’oro. Chiudono gli altri due gironi in testa alla classifica la Gran Bretagna e l’Olanda, dando l’impressione che il calcio europeo potesse ripetere l’impresa di Rio 2016 con la Germania.
I quarti di finale ci hanno regalato partite spettacolari, incontrando la grande delusione dei Paesi Bassi, eliminati ai calci di rigore dagli Stati Uniti. Nonostante il rancore per avere eliminato le Azzurre ai Mondiali 2019 fosse ancora vivo, una speranza verso l’avanzamento delle olandesi in semifinale c’è stato. Le Orange trascinate da una straripante Vivianne Miedema hanno espresso – a modestissimo parere della giuria – il miglior calcio visto in queste Olimpiadi. Vederle eliminate ai rigori dopo una serie di sfortunati eventi, in una partita che nell’immaginario iniziale poteva essere la predetta finale, lascia un velo di amarezza alle spalle.
But life goes on, e se per un momento ci siamo sentiti crescere i tulipani sulle spalle, poi siamo tornati ai nostri magnifici spaghetti.
Il Canada elimina ai rigori il Brasile di Marta che fino a quel momento aveva disputato un buon torneo nonostante qualche difficoltà. Le verdeoro salutano Tokyo per un soffio e le canadesi conquistano un complicato e sofferto pass verso la semifinale con gli Stati Uniti. In contemporanea una tenace Australia prepara gentilmente i bagagli alle avversarie della Gran Bretagna, eliminandole ai supplementari in un match talmente fisico e combattuto da farci credere per un momento che potesse trattarsi di taekwondo.
In che modo le semifinali ci hanno suggerito l’esito di queste Olimpiadi
Le semifinali conformatesi sono dunque state Canada-Stati Uniti, Svezia-Australia.
I quarti di finale hanno decretato la natura del tutto imprevedibile di questa competizione, ed è con questa consapevolezza che le squadre hanno preparato le partite ad alta guardia. Le cose sono andate così: nessuno, vedendo il match con gli Stati Uniti, si sarebbe mai aspettato un Canada finalista. Le ragazze di Bev Priestman hanno operato un grandissimo lavoro di contenimento in fase difensiva, concedendo qualche errore di troppo alle americane che non sono però mai riuscite a finalizzare. Possiamo dire con una certe sicurezza che si è trattato di una di quelle partite vinte per quel mix di demerito altrui e spiccata attitudine alla resilienza. Scopriremo solo in sede finale, che sarà proprio questo l’ingrediente che porterà le canadesi a vestire l’oro.
Vince sudando sette camicie anche la Svezia, decisamente non abituata a dover faticare per dover conquistare una vittoria. L’Australia di Sam Kerr ha tentato qualsiasi soluzione disperata per cercare di portare la partita ai tempi supplementari, certe che le loro arma migliore fosse il lancio del cuore oltre l’ostacolo. Per la prima volta abbiamo visto le svedesi in seria difficoltà contro una squadra che pur allungandosi molto tra reparti e lasciando spazio per ripartenze, riusciva a ricompattarsi nel giro di qualche svarione ed esercitare pressione di squadra allo sfinimento. Scoprire questa falla all’interno del sistema svedese è stata la chiave per poter fantasticare su probabili risultati nell’ultimo giro di boa.
Pur vantando un sistema di gioco più organizzato e giocatrici capaci di interpretare al meglio questo modus operandi, la Svezia ha ceduto il passo all’inesauribile fonte di energia che è il Canada. Un primo segnale di quello che sarebbe stato l’abbiamo potuto cogliere proprio in semifinale contro le Matildas australiane, una squadra dalle caratteristiche molto simili alle neo-campionesse olimpiche.
La parola resilienza ha caratterizzato ridondantemente le nostre vite negli ultimi due anni pandemici, ergendosi a virtù alla quale aspirare per poter riprendere in mano la nostra vita. Il caso ha voluto che la squadra a vincere l’edizione 2020 dei giochi Olimpici, lo abbia fatto proprio sotto il segno di questa virtù, dimostrandoci come, uniti verso un obiettivo comune, si possano superare momenti psicofisici difficili, anche quando il nostro avversario sembra essere un ostacolo invalicabile.
Necessaria una deroga alla nazionale Canadese per tatuarsi la parola resilienza sul braccio destro, magari esonerando però tutto il resto della popolazione mondiale da qui in avanti.