Isabel DeBre, reporter di Associated Press, ha recentemente descritto come i lavoratori migranti, relegati nella periferia di Doha, guardano e vivono le partite del Mondiale che loro stessi hanno “costruito”.
“Anche se tutto va male, la ragazza ti lascia, perdi il lavoro, c’è sempre un campionato che inizia a settembre”. Il grande potere del calcio sta tutta in questa citazione del romanzo di Nick Hornby Febbre a 90’. Per 90 minuti dimentichi tutto. Questo vale per noi che siamo nati nella parte fortunata del mondo, che dobbiamo convivere con problemi come il lavoro e l’amore, ma vale anche e soprattutto nelle favelas brasiliane quando gioca la Seleçao, o nelle baraccopoli e periferie di qualunque altra megalopoli, dove la gente per quei 90 minuti fugge da problemi ben più gravi, come povertà e criminalità. Ma fin dove è possibile arrivare esasperando questo concetto al massimo? È possibile, durante una partita di calcio, dimenticare qualunque, ma proprio qualunque cosa?
Isabel DeBre, reporter e corrispondente nei paesi del Golfo per Associated Press, ha descritto come i
lavoratori migranti di cui si è tanto parlato soprattutto negli ultimi mesi, stanno vivendo il Mondiale in Qatar. L’articolo si intitola: “Nei sobborghi di Doha, i lavoratori guardano i Mondiali che hanno costruito” e si apre così:
Lontano dagli hotel lussuosi e dai nuovi immensi stadi della Coppa del Mondo di Doha, mucchi di lavoratori provenienti dal Sud-Est Asiatico si sono riversati in uno stadio di cricket nei sabbiosi sobborghi della città per godersi il torneo che hanno aiutato a creare. A differenza che la fan zone ufficiale della FIFA nel pulitissimo lungomare di Doha, questa non ha birre da 14$ o turisti stranieri. Ci sono invece poche opzioni di cibo, al di là di snack indiani particolarmente fritti, qualche scarsa maglia da calcio e ancora meno donne.
All’interno dello stadio sono presenti lavoratori di qualunque settore e qualunque provenienza, alcuni dei quali intervistati dalla reporter, in fermento per l’enorme evento che sta entrando nel vivo (le scene descritte nell’articolo si svolgono durante Olanda-Ecuador, seconda giornata del girone A). Durante l’intervallo si esibisce anche una famosa cantante indiana, fra i flash degli economici cellulari dei fan, intenti a riprendere istanti che ricorderanno per sempre. Alcuni di loro addirittura vestono la maglia del Qatar. In fondo, nonostante tutto, il Qatar è la loro casa, sentirsi qatarioti è quello che desiderano e il calcio serve anche a questo, a far sentire chi è emarginato ugualmente meritevole di tifare la squadra della nazione in cui vive, al pari di chi lo emargina.
Ovviamente, come ci tiene a ricordare sia in apertura che in chiusura la DeBre, tutto ciò avviene a due passi dai dormitori dei lavoratori, ben lontano dal centro, “Il che significa anche che loro non prenderanno l’autobus per il centro di Doha, che ora è pieno di turisti stranieri intenti a guardare le partite e a festeggiare”.
Insomma, avete capito bene: i lavoratori che hanno costruito stadi e infrastrutture nel centro di Doha, in fin dei conti hanno, ben distanti dagli occhi del mondo, i loro spazi per godersi il Mondiale che si sta tenendo anche grazie a loro. Magari sono gli stessi che lavoravano sottopagati e in condizioni disumane e che poi, a poche settimane dall’inizio della competizione sono stati sfrattati dai loro umili appartamenti nei pressi del lussuoso centro di Doha e relegati in dormitori ai margini del deserto. Oppure non sono stati così sfortunati da vivere il dramma in prima persona, ma hanno perso colleghi, amici o semplicemente conosciuto qualcuno di quelli che per questo Mondiale hanno perso la vita, o ne hanno soltanto sentito parlare.
Oggi, nonostante il governo qatariota badi bene a tenerli il più lontano possibile da occhi indiscreti, conducono la loro vita come in qualunque sobborgo di qualunque altra città: in povertà, sì, ma con gli occhi fissi su un teleschermo. Perché i Mondiali si guardano. Perché per quei 90 minuti non c’è dramma che tenga. Perché in fondo se tutto il mondo freme per una partita, se un popolo intero gioisce o piange per un gol, i lavoratori qatarioti sanno che in quegli abbracci e in quelle lacrime c’è anche un po’ di loro stessi, malgrado loro stessi. Ed è questo l’enorme e persino spaventoso, per quanto è inspiegabile e irrazionale, potere del calcio: nell’attesa e nel compimento di quei 90 minuti, è capace di farti dimenticare qualunque cosa, anche di averti sfruttato.