Il 6 novembre del 1887 nasceva una delle squadre più vincenti nella storia del calcio, nonché una delle più affascinanti: una delle due anime di Glasgow, il Celtic.
Se sei qui a leggere questo articolo, probabilmente sarai già consapevole che il calcio è qualcosa che va ben oltre i novanta minuti di una partita. O i tanto decantati “ventidue uomini che rincorrono un pallone“. Per carità: tutto parte da quello, dal gioco vero e proprio, e non potrebbe essere altrimenti. Ma, come ogni quadro che si rispetti, anche il calcio ha bisogno di una cornice. E a comporla sono il tifo e le rivalità, il folklore e le tradizioni, la storia e i suoi aneddoti. Ogni club nasce e si mantiene in vita grazie a queste caratteristiche, che in alcuni casi possono dimostrarsi fortemente marcate ed evidenti.
Il Celtic, squadra scozzese di Glasgow, ne è un esempio eclatante. Come spesso accade nelle Isole Britanniche, la linea che separa il semplice tifo dal vero e proprio fanatismo è molto sottile. Tifare significa annullarsi nel proprio club, sentirsi parte di un’unica, intensa, identità comune. Con i propri valori, teorie e credenze, con particolari punti di vista, spesso anche in ambiti che non hanno niente a che fare con lo sport.
Il calcio diventa mezzo di integrazione e fraternizzazione. Ma anche di disgregazione, se poi, alla fine della storia, compare il Rangers (l’altra squadra di Glasgow) di turno che la pensa all’opposto di te su tutto. Certamente non il massimo se si vuole mantenere pace ed ordine in una città.
La nascita dei “Bould Bhoys”
Ma qual è quindi la mentalità dei tifosi biancoverdi? E perché comporta una rivalità così accesa con i supporters dei Rangers?
Per scoprirlo bisogna fare un tuffo nel passato, fino al 6 novembre del 1887, esattamente 133 anni fa. Glasgow era all’epoca interessata da un forte incremento della popolazione, che la portò presto a superare un milione di abitanti. Si trattava di gente originaria dei centri minori, che sperava di ottenere maggiore fortuna in città. Ma non solo: in particolare si andava diffondendo il fenomeno dell’immigrazione di cittadini irlandesi. Soprattutto l’area orientale di Glasgow vide la crescita di sobborghi quasi interamente dedicati a questi ultimi.
Con loro (e per loro) comparve una figura fondamentale per la fondazione del Celtic: Fratello Walfrid, al secolo Andrew Kerins. Come lascia intendere il nome, Andrew era un frate marista, nato a Ballymote, un villaggio irlandese. Svolgeva la sua opera presso la Chiesa Cattolica di Santa Maria, sulla East Rose Street (oggi rinominata Forbes Street). Da subito si rese conto della necessità impellente di supportare i nuovi arrivati, irlandesi e quasi tutti cattolici come lui. Nacque così l’associazione benefica “The poor children’s dinner table”, che, oltre ad offrire pasti caldi, iniziò ad occuparsi dell’educazione dei più giovani. E, poiché la loro crescita passa necessariamente dall’interazione sociale con i propri coetanei, Fratello Walfrid pensò a qualche attività che potesse aiutarli a legare. La sua scelta ricadde sul calcio, seguendo l’esempio dell’Hibernian di Edimburgo, fondato una trentina di anni prima nelle medesime circostanze.
Questa squadra di ragazzi, nata per seguire un nobile progetto originario, la carità per i più poveri, altri non era se non il nostro Celtic. Che, quindi, affonda le proprie radici in una comunità permeata da due aspetti fondamentali: l’origine irlandese e la fede cattolica. L’identità comune di cui parlavamo.
Non a caso, lo stesso nome scelto per il club si deve al retaggio storico-culturale celtico di queste popolazioni. E uno dei simboli più importanti, il quadrifoglio (presente anche nell’attuale stemma) è un chiaro riferimento allo Shamrock irlandese.
Ci sarebbe voluto del tempo, però, prima di vedere effettivamente in azione “the Bould Bhoys”, come vennero presto etichettati (questo nomignolo, traducibile con l’espressione “I ragazzi audaci” prevede due lettere evidentemente fuori luogo: la U in “Bold” e la H in “Boys”, entrambi residui dell’accento e della parlata irlandesi).
La prima partita, un’amichevole, fu giocata il 28 maggio 1888 contro i concittadini del Rangers, del quartiere di Ibrox, e venne vinta per 5-2.
Celtic-Rangers, semplicemente Old Firm
Nessuno dei giocatori in campo quel giorno, probabilmente, immaginava il ruolo predominante che quelle due compagini avrebbero rivestito nello scenario calcistico scozzese. Anche perché parliamo di un’epoca in cui il football viveva gli albori della propria storia e non rappresentava ancora una priorità per la popolazione.
Il confronto tra le due squadre di Glasgow, Celtic e Rangers, avrebbe ricevuto presto l’appellativo “Old Firm”, ossia “Vecchia Azienda” (o “affare”, che dir si voglia). Probabilmente il soprannome deriva da una vignetta satirica, comparsa sui giornali alla vigilia della finale di Coppa di Scozia del 1904. Ad essere rappresentato fu un uomo attempato, con addosso un cartello pubblicitario facente riferimento ai benefici economici che le due squadre ricavavano da questi continui duelli ad alta quota.
Un’altra interpretazione possibile è quella secondo cui i trofei scozzesi siano un “affare” esclusivamente riservato a Celtic e Rangers. E su questo non ci piove, i dati parlano chiaro. La somma dice 105 campionati (rispettivamente 51 e 54), 72 Coppe di Scozia (39-33) e 46 Coppe di Lega (19-27).
Un dominio ancora più eclatante se pensiamo che l’ultima squadra – diversa da Celtic e Rangers – a trionfare in campionato è stata l’Aberdeen, nel lontanissimo 1984-85. Quando sulla sua panchina sedeva un giovane allenatore di nome Alex Ferguson. “Ma questa – direbbe Federico Buffa – è un’altra storia“.
Diversi punti di vista fuori dal campo…
La rivalità tra le due squadre di Glasgow però, come detto, non si ferma alla pura competizione cittadina. Le tifoserie sono separate anche da visioni differenti in campo sociale, religioso e politico. Che hanno contribuito a creare una vera e propria faida.
Il Celtic, per quasi tutta la durata del ventesimo secolo, è stato supportato dagli abitanti meno abbienti della città, quel proletariato urbano creatosi in seguito alle immigrazioni irlandesi. Il Rangers, invece, ha storicamente rappresentato le classi egemoni, composte da nativi scozzesi. Questo, logicamente, ha avuto delle ripercussioni in sede di voto, con i Bhoys sostenitori del Partito Laburista e i Gers tendenti al conservatorismo.
Le differenze più marcate riguardano però la religione (cattolici i primi, protestanti i secondi) e soprattutto la dicotomia nazionalismo-unionismo. L’Irlanda è da sempre terra di movimenti indipendentisti, proteste e ribellioni (vedasi la storia dell’ “Irish Republican Army”, meglio conosciuto come IRA).
Sentimenti che, inevitabilmente, scorrono anche nel sangue di chi fu costretto ad emigrare. E che ora, con la madrepatria già da un secolo indipendente, pretende di ottenere lo stesso risultato in Scozia. Secondo questa gente, il dominio britannico è qualcosa da combattere, così come la Chiesa Anglicana, non riconosciuta dai cattolici. I tifosi dei Rangers, invece, sono sostenitori dell’unità della Gran Bretagna.
Ecco perché, durante le partite delle due squadre (e a maggior ragione nell’Old Firm) tra gli spalti difficilmente saranno visibili bandiere scozzesi. Al contrario, troverete da una parte quella irlandese e dall’altra l’Union Jack, simbolo indiscusso del Regno Unito.
Oggi l’antagonismo si sta riducendo e le acque sono ben più calme. A questo hanno concorso una minore aderenza religiosa, con matrimoni misti tra cattolici e protestanti, e una maggiore flessibilità sociale. Ciò non toglie, però, che in passato si siano compiuti atti di una violenza inaudita, con diversi morti negli scontri tra ultrà. E che a Glasgow la città fosse completamente spaccata in due. Tanto che nel 2010, curiosamente, la Tennent’s decise di sponsorizzare entrambe le squadre perché l’accordo con solo una di esse avrebbe pregiudicato metà delle sue vendite in città.
…e dentro
Che si siano giocati al Celtic Park o all’Ibrox Stadium, quindi, gli “Old Firms” hanno sempre costituito un appuntamento imperdibile per la popolazione scozzese. Nella storia se ne sono giocati ben 421, con 163 vittorie per i Rangers, 159 per il Celtic e 99 pareggi. Per questo, il fallimento dei Gers, avvenuto nel 2012 e che li ha costretti a ripartire dalla quarta serie, ha rappresentato una brutta battuta d’arresto per l’attesissimo spettacolo. Spettacolo che molto spesso, nella sua storia, si è dimostrato spiacevole e violento, in conformità al clima respirato sugli spalti.
Il primo caso riguarda un evento fortuito che portò alla morte del portiere del Celtic, John Thomson. John, in quel 5 settembre del 1931, aveva solo ventidue anni. Era stato scoperto dallo scout Steve Callaghan, che lo aveva strappato a una lunga vita da minatore. Nonostante sua madre fosse molto riottosa, vista la durezza che intravedeva in quello sport, John si convinse a giocare a calcio. E lo faceva dannatamente bene, tanto da essere soprannominato “Principe dei portieri”.
Il suo pregio: buttarsi su ogni pallone che rappresentasse un pericolo per la propria porta. Il relativo risvolto della medaglia: John, durante i suoi interventi era incurante dei pericoli che lui stesso correva. E in quel 5 settembre la sua audacia si rivelò fatale quando, cercando di sottrargli la palla, batté violentemente la testa contro il ginocchio di Sam English, attaccante dei Rangers. Non ci fu nulla da fare.
Più recentemente, invece, hanno avuto luogo due contrasti importanti tra giocatori e tifoserie avversarie.
Il primo episodio, risalente agli anni ’90, riguarda Paul Gascoigne, calciatore controverso che militò nei Rangers tra il 1995 e il 1998. Il quale ebbe la malsana idea di mimare, per pochi secondi, il suono di un flauto, per rispondere ai fischi avversari durante il suo riscaldamento. Un gesto scellerato che mandò su tutte le furie i supporter del Celtic. Ma perché?
Gascoigne si dichiarerà ignorante sull’argomento, sostenendo di aver scelto casualmente di rispondere in quel modo. Ma tutti ci videro un chiaro riferimento a “The Sash”, una ballata avente come tema la vittoria del re Guglielmo d’Orange nella Guerra Guglielmita contro il Regno d’Irlanda. Vittoria ancora oggi ricordata tramite le parate soprannominate “Orange walk”. Paul venne così multato e mise anche a rischio la sua incolumità: in seguito ha affermato di aver ricevuto numerose minacce di morte da membri dell’IRA.
Protagonista indiscusso del nuovo millennio è stato invece Artur Boruc, portiere del Celtic dal 2005 al 2010, successivamente passato anche dalla Fiorentina. Cinque anni intensi in cui ha provocato i tifosi dei Rangers in diverse occasioni, facendo di tutto per ostentare la sua fede cattolica durante l’Old Firm. Tanto da essere soprannominato “portiere santo”. Tre i gesti principalmente contestati: un segno della croce effettuato sotto la curva avversaria, il mimo di un’autobenedizione e lo sfoggio di una maglietta in ricordo di Giovanni Paolo II.
“The Paradise”, Celtic Park
Il più importante tra i teatri che hanno visto in scena i “Bould Bhoys” è stato sicuramente lo stadio di casa, il Celtic Park. Costruito addirittura nel 1892, sorge nel quartiere di Parkhead, a poche centinaia di metri dalla chiesa di Fratello Walfrid. Il suo soprannome, scelto ovviamente dai tifosi del Celtic, è “The Paradise”, Il Paradiso. La sua capienza è di 61.000 spettatori, dato che lo rende uno degli impianti più capienti dell’intero Regno Unito. Da notare che la North Stand (Curva Nord) conta da sola più posti di molti stadi del campionato scozzese.
All’interno di questa curva, in particolare, trovano spazio le frange più appassionate della tifoseria, ossia il gruppo dei Green Brigade. Una fazione di ultrà diventati famosi in tutta l’Europa per le loro prese di posizione contro ogni tipo di discriminazione. Si definiscono infatti “antifascisti e antirazzisti”. E lo hanno dimostrato in due occasioni abbastanza recenti.
Prima è arrivata l’esposizione, durante un doppio confronto europeo con la Lazio, di striscioni contro il fascismo, a causa del legame che corre tra la tifoseria della squadra romana e l’estrema destra. Poi, il supporto al movimento “Black Lives Matter“, con una manifestazione pacifica in cui hanno affiancato ai nomi tradizionali di diverse strade di Glasgow quelli di importanti leader e attivisti di colore.
Una curiosità riguarda l’inno della squadra: è lo stesso degli inglesi del Liverpool! A scaldare “The Paradise” e la sua gente (almeno, prima del Covid) sono infatti le note di “You’ll Never Walk Alone”, diffuso in Gran Bretagna dal gruppo dei Gerry and the Pacemakers. Questa analogia ha portato a numerose discussioni su quale delle due squadre avesse scelto per prima la canzone. Le prove hanno dato ragione agli inglesi, ma ciò non ha fatto demordere i tifosi del Celtic, troppo legati ormai al proprio inno per sceglierne uno nuovo.
Le peculiarità del Celtic Park non riguardano, però, solo il suo interno. Uscendo dallo stadio ci sono due caratteristiche, infatti, che balzano subito all’occhio. La prima è l’imponente muratura in mattoni rossi in corrispondenza dell’ingresso alla tribuna principale. Un regalo che il club decise di farsi per festeggiare il suo centenario.
Più recenti sono invece le quattro statue in onore dei personaggi più importanti nella storia del Celtic: Fratello Walfrid (in qualità di fondatore), Jimmy Johnstone (miglior giocatore di sempre), Jock Stein (miglior allenatore) e Billy McNeill (miglior capitano). In particolare, gli ultimi due sono raffigurati entrambi con una coppa in mano, che dalla forma sembrerebbe proprio una Coppa dei Campioni…
Coppa dei Campioni e “treble” del 1967
Anche il Celtic, infatti, può vantare una Coppa dei Campioni nella propria bacheca: quella del 1967, vinta in finale contro l’Inter. Stiamo parlando di una delle prime edizioni del più importante torneo continentale. Non a caso, il Celtic fu la prima squadra britannica a trionfare: fino ad allora ci erano riusciti solo gli spagnoli del Real Madrid, i portoghesi del Benfica e gli italiani di Milan e Inter.
Nessuno di loro, però, l’aveva fatto vincendo nella stessa stagione anche il campionato e la coppa nazionali. Quindi, quello del Celtic fu anche il primo “treble” della storia del calcio. O, per essere precisi, “quadruple”, visto che il suo dominio si era esteso anche sulla Scottish League Cup.
Presto, il Celtic avrebbe perso l’esclusiva sia sulle vittorie britanniche, sia sul “triplete”. Ma conserva ancora oggi intatti due primati legati a quella Coppa. Sono infatti tuttora l’unica squadra scozzese ad aver vinto la Coppa dei Campioni (immaginate cosa significhi tutto ciò dalle parti di Glasgow…) e, soprattutto, l’unica in assoluto ad averlo fatto con una rosa completamente costituita da giocatori prodotti dal vivaio. Tutti gli eroi del 1967 erano infatti cresciuti calcisticamente nel Celtic e nessuno di loro era nato oltre le 30 miglia di distanza da Parkhead. Identità comune.
La finale, giocata il 25 maggio del 1967 allo Stadio nazionale di Jamor, a Lisbona, vide i biancoverdi imporsi per 2-1. Gli interisti di Helenio Herrera partivano sicuramente con i favori del pronostico, viste le due Coppe consecutive vinte pochissimi anni prima. Previsione che sembrò avverarsi quando l’arbitro, al sesto minuto, assegnò un rigore – segnato poi da Sandro Mazzola – per un fallo su Cappellini.
Nel secondo tempo, però, i nerazzurri subirono un calo, stremati dall’afa pomeridiana e soprattutto dallo stile degli scozzesi. Un gioco rapido e offensivo, molto simile al Total Football che Ajax ed Olanda avrebbero portato ai massimi livelli. E completamente opposto al catenaccio di Herrera, che aveva chiuso la squadra in difesa dopo l’1-0.
I gol di Gemmell e Chalmers ribaltarono il risultato, consentendo al capitano Billy McNeill di sollevare la Coppa nel cielo di Lisbona. Un gesto rappresentato nella sua statua al Celtic Park e consegnato quindi all’eternità. E come disse Jock Stein, allenatore di quella squadra:
Abbiamo vinto meritatamente, ce l’abbiamo fatta giocando a calcio. Un calcio puro, bello e fantasioso.
Il ciclo dei “Lisbon Lions” di Stein li avrebbe portati a vincere in quegli anni anche dieci campionati scozzesi, di cui nove consecutivi. Oltre a raggiungere nuovamente la finale di Coppa dei Campioni nel 1970, perdendola contro il Feyenoord.
Un periodo glorioso, ben lontano dalle brevi comparsate europee che caratterizzano il presente della squadra, nonostante continui imperterrito il dominio in patria. Certo, concorrere, soprattutto economicamente, con le potenze di oggi è pressoché impossibile. Ma nessuna speranza, benché minima, deve essere abbandonata. Come insegnarono dodici giovanotti di Glasgow che, almeno per un pomeriggio, pensarono di essere dei leoni.