Il calciomercato come «regno dell’insecuritas totale», nonché principio ed essenza del calcio dell’epoca: così parlò Maurizio Mosca, controversa figura giornalistica ben lontana dalla miopia. Sentori e timori, poi il cammino verso un calcio odierno economicamente drammatico, insostenibile e, generalmente parlando, irragionevole.
Il calcio (giocato) è un semplice intermezzo fra una sessione di calciomercato e l’altra. Il punto di non ritorno è Gareth Bale al Real Madrid, la barriera fra realtà e irrealtà. Sono cento milioni di euro, ma soprattutto cento milioni di motivi in ballo in questa operazione storica. È politica, affermazione e legittimazione di sé: i blancos dimostravano e ricordavano al mondo intero di essere i re del mondo per storia e capacità d’investimento. In quel momento, il podio dei trasferimenti più costosi di sempre era una triade del tutto madrilena – il gallese, Cristiano Ronaldo e Zinédine Zidane.
Da quel momento i prezzi subiscono un’impennata senza precedenti e il calcio si allontana ancora un po’ di più dai suoi principi. Al tifoso serve un respiro profondo e un secondo per rilassare le spalle ed accettare l’ennesimo cambiamento polarizzante, l’ennesima alienazione da un club e da dei calciatori sempre più di difficile immedesimazione. Sterile il tentativo di riconciliare tifosi e bilanci con la Superlega, il grido disperato di un sistema che non si regge più in piedi.
Dunque qual è il processo logico che porta una dirigenza a investire cento milioni o più su un singolo calciatore? È legittimazione identitaria, ambizione fisiologica o necessità?
Colpi politici, riconoscimento di sé stessi
Dicevamo di Gareth Bale al Real Madrid, il primo pezzo (e un gol) da cento milioni di euro, l’inizio della fine. Per il club di Florentino Pérez non era soltanto qualcosa dal naturale avvenire, ma anche di politico: noi siamo il Real Madrid, il club più vincente e ricco di sempre. Investire una cifra del genere all’epoca era atta a porre un distanziamento fra le merengues e le altre squadre, scoraggiate dal dover competere con chi poteva permettersi operazioni del genere. Un trasferimento che trascende il valore tecnico del calciatore per assumere le forme di una dichiarazione d’intenti, un vero e proprio manifesto politico.
Un discorso simile vale anche per il trasferimento di Eden Hazard. A un anno dall’addio di Cristiano Ronaldo, il Real Madrid doveva dimostrare di essere più grande di qualsiasi giocatore – soprattutto di uno dei più grandi di sempre. Il belga rappresentava un erede credibile della maglia numero sette, al contrario di Mariano Dìaz; fresco vincitore dell’Europa League e superstar del Chelsea, quindi ciliegina sulla torta di una sessione di mercato di più di trecento milioni spesi. È il prezzo della nobiltà che il Real Madrid, evidentemente, è disposto a pagare.
Comunque sia, non esistono spese da cento milioni solo per solidificare il proprio status calcistico, ma anche per spezzare le identità altrui. In questo senso, un acquisto-cataclisma è stato quello di Neymar al PSG: addirittura duecento i milioni (di clausola) versati nelle casse blaugrana per prelevare il terzo incomodo del duopolio Messi-CR7.
Un’imposizione feroce dalla realizzazione tenebrosamente machiavellica; il brasiliano era la rock-star che meglio sposava l’identità parigina, in costante bilico fra il glamour e la pacchianeria, in perenne ricerca di qualcosa che li legittimasse definitivamente. L’operazione Neymar è il miglior riassunto dell’indolenza-alterigia recente del Paris Saint-Germain, tanto necessaria al club parigino per assumere una forma quanto evitabile per il radioso avvenire dell’asso della Seleção.
Per Al-Khelaïfi l’obiettivo era raggiunto ancora prima di scendere in campo: il suo all-star team aveva dimostrato al mondo intero di poter destabilizzare anche un gigante del calibro del Barcellona, e la pretesa di sedersi definitivamente nel tavolo dei più grandi club d’Europa era semplicemente naturale.
Necessità rivoluzionarie
Delegittimato dal Paris Saint-Germain, il Barcellona è costretto a rispondere a tono per non smarrire la propria caratura. Un danno tecnico-emotivo che inaridisce soprattutto l’umore dei tifosi, ambiziosi e pretenziosi di reagire a dovere: a un solo mese dall’addio di O’Ney, i blaugrana ufficializzano l’approdo di Ousmane Dembélé; nella sessione invernale seguente arriva Philippe Coutinho dal Liverpool; nell’estate del 2019 Antoine Griezmann. Inutile enunciare le parabole deludenti del trio pagato complessivamente più di quattrocento milioni di euro.
Il club de la Masia, avvelenato dalla gattopardite, ha pensato bene di rivoluzionare tutto affinché nulla cambi nella propria tradizione vincente. In realtà, i tre acquisti si riveleranno causa della drammatica situazione economica attuale, con il mancato rinnovo di Messi dipinto definitivo dell’operato fallimentare della società fino a quel momento. Un modus operandi in preda alla frenesia e follia – lo scippo di Neymar è stata una perdita sul campo quanto nella stabilità economica del Barcellona.
Rimaniamo in Spagna e torniamo al Real Madrid costretto a rincorrere la propria identità da monarca assoluto. A qualche chilometro dalla propria reggia, il Bernabeu, sorge il Wanda Metropolitano, casa dell’Atletico Madrid. Per i colchoneros, sognatori quanto utopici, il destino è tragico: in tre anni subiscono due sconfitte consecutive nelle finali di Champions League contro il Real. Una gerarchia chiarissima, una tradizione più che eloquente. Serve qualcosa per infrangerla: un colpo da cento milioni. Ecco allora João Félix, il ragazzo innocente con le scarpe di velluto, futura stella del calcio mondiale.
L’acquisto del portoghese da parte dei rojiblancos è la conferma definitiva del nuovo corso Atlético. Con una Liga da sempre contesa fra le due superpotenze Barcellona e Real Madrid, il Cholo Simeone si è inserito da vero underdog issando ai vertici l’Atlético, da un decennio aggrappato a loro, di tanto in tanto anche conquistadores della vetta.
Investire una cifra del genere è anche un risarcimento simbolico nei confronti di una piazza scottata: concedere di sognare dopo una delusione non è obbligatorio ma a volte è necessario per rasserenare gli animi.
Anatomia di un club: le ambizioni
La politica e le rivoluzioni possiedono un nucleo comune, le ambizioni. Termometro del livello competitivo del club, carburante delle stagioni che si susseguono, il processo di normalizzazione di un sogno che diviene semplice obiettivo. Il colpo da cento milioni si traduce soprattutto in volontà assoluta: adesso vinciamo noi, qui e adesso.
Tuttavia non è così semplice. Quasi mai nella storia del calcio vi è stato un singolo colpo che abbia permesso al club di vincere tutto e subito. Cristiano Ronaldo ha indossato per ben due volte l’abito da «supereroe», dal Real Madrid per novantaquattro milioni alla Juventus per cento milioni. Con i blancos conquista la décima soltanto cinque anni dopo il suo arrivo; a Torino non riesce mai a superare i quarti di finale di Champions League. Il dibattito pubblico si divide e si chiede tutt’oggi se l’acquisto del portoghese sia stato valido.
Il punto è che l’approdo del portoghese alla Juventus era un all-in inevitabile, o meglio, fisiologico. Agnelli lo definisce «la ciliegina su una torta estremamente buona costruita negli anni». Potremmo quasi percepirlo come un regalo di Natale a sé stesso, una sorta di auto-compiacenza per il percorso svolto nel tempo. La verità è che la Juve non poteva muoversi in alcun altro modo. Da Conte ad Allegri, i bianconeri hanno saputo migliorarsi di anno in anno con operazioni oculate come quella di Carlitos Tévez e della seconda giovinezza di Andrea Pirlo.
Se la Juventus desiderava davvero vincere la Champions League, non poteva più permettersi di operare nello stesso modo del passato, anche se questo significasse schiantarsi contro il cielo. Il numero sette è stato per tre anni l’immagine definitiva della Juventus post-calciopoli, risorta dalla Serie B e arrivata a disputare due finali della coppa più ambita del calcio.
Il trasferimento di Ronaldo alla Juventus era semplicemente qualcosa che apparteneva al corso degli eventi del mondo, di fisiologicamente necessario per il ciclo vitale della Juventus. Un qualcosa di inevitabile per entrambi le parti, al di là del risultato: una chiusura di un ciclo straordinario per la famiglia Agnelli, un’ultima dimostrazione di onnipotenza per la leggenda portoghese.
Un tassello imprescindibile dell’effetto domino che ha portato la Juventus a Cristiano Ronaldo è senza ombra di dubbio l’operazione Paul Pogba: per cento milioni di euro il figliol prodigo torna a casa Manchester. Assieme a Zlatan Ibrahimović e José Mourinho i tifosi dell’Old Trafford riassaporano le notti gloriose del passato e il «tripletino» all’alba è di buon auspicio; ma il deludente rendimento del centrocampista francese e operazioni di mercato scellerate troncano le ambizioni dei Red Devils, imprigionati tuttora nel purgatorio della mediocrità.
Nonostante l’amore giurato, le operazioni che hanno coinvolto il centrocampista francese sono quanto mai uniche dal momento che lo United è pronto a perderlo nuovamente a parametro zero. Un epilogo comico dal sottofondo pietoso, emblema del recentismo degli orfani di Sir Alex Ferguson.
Se una Manchester soffre, l’altra è bagnata dal chiarore della Blue Moon: i fu noisy neighbors del City sono una realtà più che affermata, e assieme al Chelsea sono il simbolo del nuovo volto del calcio inglese, la Premier League. Non a caso, le finaliste della Champions League 2020/21 sono proprio loro.
Il duello sul campo premia i blues, ma lo scontro si protrae anche nella vera arena del calcio odierno, il calciomercato. I citizens sono ammaliati da Jack Grealish, i londoners dal ritorno in pompa magna di Romelu Lukaku. Con il tempo (ancora) prematuro per sentenziare sui due trasferimenti, i motivi-causa degli stessi sono evidenti: perseguire nel proprio dominio anglo-europeo. Il City prosegue nell’inserimento graduale dei migliori talenti al mondo, con il mantenimento di un’età media sostenibile per il futuro; Tuchel, nonostante un Kai Havertz più che positivo nelle vesti da punta, aspira a un numero nove di caratura internazionale – quale è Erling Håland, il nuovo attaccante di Guardiola, operazione da più di cento milioni.
Dal colpo politico-mediatico, la necessità di rivoluzionare e di tenere gli animi domi e il proseguimento degli obiettivi. Investire cento milioni su un solo calciatore porta con sé cento milioni di motivi, di speranze e di obiettivi; ma a volte è soltanto un’etichetta gravosa sulle spalle del calciatore e un sospiro di sollievo per chi non vede l’ora di puntare il dito nei confronti degli «spendaccioni». La verità è che non esistono innocenti e malvagi, ma soltanto degli atteggiamenti degni del miglior Giolitti e un sistema calcistico economicamente drammatico, insostenibile e, generalmente parlando, irragionevole.