La finale di Champions League rappresenta, per attesa e talvolta anche cronologia, l’atto conclusivo di un’intera stagione calcistica. Liverpool e Real Madrid si sfideranno questo sabato allo Stade de France di Parigi, scelto dalla UEFA in sostituzione della Gazprom Arena di San Pietroburgo a causa del conflitto russo-ucraino. Nel calcio è sempre un po’ pretestuoso e presuntuoso parlare di giustizia, ma è indubbio che esista qualche forma di merito nel cammino di entrambe le squadre per continuità, gioco espresso e valori assoluti.
Non è la prima volta che queste due compagini si contendono lo scettro europeo. Nel 1981 fu il Liverpool a spuntarla grazie alla rete di un difensore, Alan Kennedy. In tempi ben più recenti, era il 2018, fu invece la volta del Real che si impose per 3-1. I precedenti sono soltanto uno dei tanti intrighi volti ad arricchire e caricare di significati una sfida che promette grande spettacolo.
Il gol in rovesciata di Gareth Bale nella finale di Champions League del 2018 vinta dal suo Real (Photo by Michael Regan/Getty Images – OneFootball)
Fremono i preparativi
Curiosamente, vista l’annata costellata di successi, entrambe le squadre arrivano a questa finale di Champions portandosi dietro un leggero alone di delusione per motivi completamente diversi. In casa Real, che ha trionfato in Liga con largo anticipo e ha potuto affrontare l’ultima giornata col Betis in piena serenità, a tenere banco è stato il caso Mbappè. Il fuoriclasse francese sembrava infatti a un passo dal firmare con i blancos per la prossima stagione, salvo poi fare dietrofront all’ultimo secondo. Per convincerlo è servita un’offerta monstre del PSG, che gli garantirà cifre da capogiro e pare anche voce in capitolo nell’area tecnico-gestionale.
Uno smacco non da poco per il presidente Florentino Perez, non un uomo abituato ai grandi rifiuti. Il Real Madrid ha infatti gestito le ultime sessioni di mercato proprio nell’ottica di mettersi in una posizione privilegiata per sferrare l’attacco al talento transalpino. Il piano sembrava aver funzionato, e invece si è tutto concluso con un nulla di fatto. Questo costringerà la dirigenza a modificare completamente le proprie strategie.
Storia diversa per il Liverpool, che l’amaro in bocca lo ha a causa del calcio giocato. Non c’è il rischio che la stagione degli uomini di Klopp si concluda senza titoli, vista la doppietta tra Coppa di Lega e FA Cup. Perdere il titolo in un finale da film però non è bello per nessuno, anche se non si è i superfavoriti. Soprattutto se l’urlo per il gol del vantaggio contro il Wolverhampton ti viene ricacciato in gola dalla clamorosa e praticamente contemporanea rimonta dei tuoi diretti avversari. Ingiusto parlare di rimpianti vista la cavalcata portata avanti da gennaio, quando il City era lontano oltre 10 punti. Possibile però che dopo il pari contro il Tottenham, unico e cruciale passo falso, Klopp e i suoi abbiano faticato a prendere sonno.
La storia siamo noi
Come sempre in questi casi alla motivazione dettata dalla partita in sé si aggiungono i significati che la sfida assume per ciascuna squadra. Quella tra Liverpool e Real non è una gara normale anche perché si tratta di due delle compagini con più storia all’interno della competizione, ed entrambe hanno degli obiettivi ben precisi da raggiungere.
Il Real è per distacco la formazione più vincente per ciò che riguarda la Champions League, prima Coppa dei Campioni. Ne ha portate a casa 13, di cui 6 soltanto nel ventunesimo secolo. L’ultima volta, così ha voluto il fato, è stata proprio quella contro i Reds di 4 anni fa. Ad allettare però non è soltanto la prospettiva di accrescere il bottino, ma di farlo in un periodo storico in cui tutti si sarebbero aspettati qualche difficoltà, tra transizione e ricostruzione dopo tanti trionfi. Del resto così è stato per i nemici storici del Barcellona.
L’uomo chiave degli spagnoli, non è una novità, è Karim Benzema. Anche lui, per anni forse dato per scontato e un po’ nascosto dall’ombra di Cristiano Ronaldo, questa è una sfida speciale. Dovesse alzare la coppa dalle grandi orecchie dopo l’annata di cui è stato protagonista rischierebbe di diventare davvero il pretendente numero uno al Pallone d’oro.
Dal canto suo il Liverpool ha un rapporto molto particolare con la Champions, unico per certi versi. Ne ha vinte 6 a pari merito con il Bayern Monaco, il che li posiziona (causa finali totali) immediatamente giù dal podio del palmares. Vincendo aggancerebbe il Milan a 7, conquistandosi una temporanea medaglia di bronzo.
Ai Reds sono indissolubilmente legati alcuni dei momenti più significativi nella storia della competizione, nel bene e nel male. Si pensi alla tragica notte dell’Heysel, in cui la coppa la portò a casa la Juventus senza che importasse davvero a nessuno. Si pensi alla mirabolante impresa di Istanbul in cui contro il Milan gli inglesi si resero protagonisti di una rimonta mai vista, almeno in una finale di Champions, dallo 0-3. Allenatore dei rossoneri, manco a dirlo, Carlo Ancelotti.
In patria il Liverpool ha avuto un rendimento piuttosto altalenante da quando all’inizio degli anni 90 è stata fondata la Premier League. Ne ha vinta infatti una soltanto, un non troppo invidiabile score condiviso con Leicester e Blackburn. Questo ha ovviamente dato adito a numerosi e piuttosto simpatici sberleffi da parte dei tifosi avversari. Ciò che ha dell’incredibile però è che nello stesso lasso di tempo il club del Merseyside è arrivato in finale di Champions ben 4 volte, vincendone 2. Come se l’aria di coppa fosse particolarmente gradita ad Anfield.
Ancora tu?
Del precedente più recente, la finale di Kiev del 2018, abbiamo accennato nel primo paragrafo. Qualcuno ricorderà come non si sia trattato esattamente di una gara priva di polemiche. Nel post-partita a farla da padrone fu infatti il fallo di Sergio Ramos che causò l’infortunio alla spalla di Salah. Per l’egiziano, costretto a finire anzitempo quella gara, la voglia di rivalsa sarà parecchio alta. Ramos invece ha salutato il Real la scorsa estate in direzione Parigi.
Non l’unica cosa cambiata da allora per entrambe le squadre. Il Liverpool aveva iniziato un ciclo che lo avrebbe portato alla vittoria l’anno successivo, e il nucleo centrale di quella squadra è rimasto più o meno lo stesso. Robertson, Salah, Manè e Van Dijk sono ancora uomini chiave per Klopp. Henderson gioca meno, ma è una presenza importante e sempre pronto all’uso. Alexander-Arnold, ai tempi giovanissimo e già molto talentuoso, è cresciuto fino a diventare un top europeo nel suo ruolo. Nel frattempo sono stati puntellati alcuni punti deboli.
Al fianco del gigante olandese Van Dijk in difesa non c’è più Lovren, ma il ben più solido Joel Matip. Protagonista assoluto e in negativo di quella sfortunata finale fu il portiere, Loris Karius, che con una papera difficile da scordare regalò il gol del vantaggio a Benzema. In quella stessa estate il Liverpool prese provvedimenti acquistando il portiere che aveva eliminato in semifinale, Alisson, ancora adesso prode guardiano della porta biancorossa.
In avanti a farla da padrone è l’imprevedibilità, con la vecchia guardia coadiuvata dal senso del gol e i movimenti di Diogo Jota o dagli uno contro uno fulminanti di Luis Diaz. L’ex Porto, arrivato a gennaio, è stato forse l’acquisto più azzeccato della sessione nell’intero panorama europeo. Un’arma in più aggiunta a un pacchetto già devastante.
Anche il centrocampo è stato rivoltato completamente dagli acquisti di Fabinho e Thiago Alcantara. Giocatori di spessore ed esperienza, capaci di un gioco più votato alle geometrie e alla gestione del pallone rispetto a Milner e Wijnaldum. In realtà il brasiliano è a rischio per la finale a causa di un infortunio, ma la speranza è quella di poterlo rimettere in piedi.
Sullo spagnolo è interessante aprire una piccola parentesi. Lui e Ancelotti si stimano immensamente e non lo hanno mai nascosto. Carletto voleva farne il perno del suo Bayern Monaco. Thiago considera il tecnico emiliano un maestro. Quando il centrocampista nativo di San Pietro Vernotico è sbarcato a Liverpool Ancelotti, allora tecnico dell’Everton, dichiarò tra il serio e il faceto di avere il cuore spezzato. Probabilmente i due non immaginavano di ritrovarsi l’uno contro l’altro in una finale di Champions League. Chissà chi l’avrà vinta, di certo entrambi si conoscono bene.
Mai sottovalutare il cuore dei campioni
In questi anni il Real Madrid ha dovuto salutare, per un motivo o per l’altro, parecchi campioni. Cristiano Ronaldo su tutti ovviamente, ma anche il già citato Sergio Ramos, Varane, Isco, Keylor Navas. Un fuoriclasse come Marcelo è finito ai margini, praticamente arresosi al tempo che passa. A reggere ancora sono invece i tre moschettieri del centrocampo: Casemiro, Kroos e Modric. Il croato in particolare in questo 2022 si è reso protagonista di giocate e prestazioni che ne hanno ricordato la migliore versione, quella del Pallone d’oro o del mondiale 2018 in cui trascinò la Croazia fino alla finale.
Se questo è possibile, però, è perché il Real Madrid è stato bravo a ricostruire, affidandosi agli uomini giusti senza badare a spese, ma con criterio. Così succede che in difesa Mendy e Militao sono punti fermi a prescindere da qualche errore di troppo. Valverde è l’uomo che da equilibrio e mette a disposizione ogni volta una delle sue innumerevoli qualità in base al piano tattico. Rodrygo e Camavinga, illustri membri della generazione Z, svoltano dalla panchina partite tese e con posta in palio altissima.
A questo si aggiungono poi i tre calciatori che hanno avuto forse il rendimento migliore nel cammino partito dagli ottavi con il PSG e arrivato all’ultimo atto: Benzema, Courtois e Vinicius. Il centravanti è stato fino ad ora protagonista di una stagione devastante. Segna in tutti i modi, fa segnare gli altri, si sacrifica e non perde occasione di dimostrare la sua leadership. Questo è, come forse mai prima d’ora, il suo Real Madrid. Lui non si è fatto pregare e si è caricato volentieri ogni responsabilità.
Il portiere belga a Madrid ci è arrivato tra qualche papera e pure qualche mugugno. Per anni tra i top mondiali, sembrava aver imboccato una lievissima parabola discendente. Sarà la cura Ancelotti, ma in questa stagione invece ha tenuto l’asticella in alto, tornando ai livelli dell’Atletico Madrid o dei primi anni al Chelsea.
Vinicius è invece l’ago della bilancia di questa squadra. Pagato tantissimo, lo scorso anno non ha reso come (erroneamente) ci si aspettava. Sembrava fumoso, discontinuo e anche un po’ arrogante. Il video di Benzema che dice ai compagni di non passargli il pallone fece il giro del web. Da settembre è un calciatore trasformato. Si sacrifica, è concreto in zona gol, cerca l’assist per i compagni. Per una formazione abituata a non avere sempre il pallino del gioco, specialmente quando affronta compagini più o meno equivalenti per qualità, le sue sgroppate sono pure iniezioni di ossigeno.
Progresso e tradizione
Quando la sfida è di così alto rango l’opinione pubblica tende a divertirsi nel confrontare e opporre i due allenatori. A maggior ragione se i tecnici in questione sono figure così carismatiche e rappresentative a prescindere dalle formazioni che allenano. In modo un po’ ingenuo si rischia di sfociare nella battaglia ideologica, concentrandosi più sulle differenze che sulle analogie.
Di certo in questi anni, un po’ per colpe sue un po’ per pigrizia giornalistica, Ancelotti si è costruito uno status e un profilo preciso. A lui vengono affidate le squadre forti, le rose di campioni che ambiscono a diventare vincenti. Quando negli ultimi anni ha provato a cimentarsi con contesti diversi, come Napoli ed Everton, le cose non sono andate troppo bene.
La conseguenza è stata l’etichetta di gestore, di tecnico che mette in campo gli uomini e poi se la vedono loro, e un po’ superficialmente di allenatore che nell’eterna diatriba tra risultatisti e giochisti di breriana memoria sta dalla parte della prima.
In realtà, in questa cavalcata in cui il Real ha infilzato una dietro l’altra PSG, Chelsea e City, l’uomo di Reggiolo ha meriti tanto quanto i suoi calciatori. Ha rivitalizzato o messo nelle migliori condizioni una serie di calciatori che nelle scorse annate hanno reso al di sotto delle proprie possibilità. Ha dato fiducia tirando fuori il meglio dai soldati semplici come Carvajal o Nacho. Ogni volta che ne ha avuto bisogno, ha indovinato i cambi giusti, dimostrando per l’ennesima volta di essere un fuoriclasse nella lettura delle partite.
Soprattutto, ha dato a questa squadra la mentalità necessaria per mettere a segno le straordinarie rimonte cui abbiamo assistito, tirandosi fuori in un attimo da momenti di difficoltà e persino disperazione. Se questo Real Madrid è stato capace di ribaltare in pochi minuti il dominio del PSG tra andata e ritorno, o di riacciuffare nel recupero una semifinale di Champions con il City di Guardiola per poi vincerla con comodità, molto lo deve al suo tecnico. Non è facile lavorare sulla testa dei calciatori, riuscire a canalizzare il peso della maglia madridista e la pressione della tifoseria più esigente al mondo in questo modo è una finezza per pochi.
Ci si dimentica, tra l’altro, come nei primi mesi di stagione Ancelotti sia stato messo in discussione, accusato di un rendimento non all’altezza e di una qualità di gioco poco esaltante. Anche da quelle difficoltà ha saputo tirare fuori questo gruppo tanto coriaceo quanto talentuoso. La soddisfazione per essere arrivati a questo punto è quindi enorme, ed è possibile che nascosto da qualche parte nei pensieri di Carlo ci sia anche l’opportunità di diventare l’allenatore con più Champions League vinte nella storia. Sarebbe la rivincita di una finale con il Liverpool che ha già perso da allenatore del Milan, e che invece un infortunio alle ginocchia gli ha negato con la maglia della Roma.
Silenziosamente costruire
Jurgen Klopp magari non lo dice, ma sa benissimo di essere uno dei tecnici più importanti della sua generazione. Lui che si fa chiamare normal one, ha fatto della capacità di far crescere in modo coerente le squadre che allena la chiave del proprio successo. In lui si identifica l’allenatore giusto cui affidare un progetto a medio-lungo termine. Ha iniziato con il Mainz, ha continuato con il Borussia Dortmund, arrivando con una squadra in partenza senza nomi altisonanti a contrastare il dominio del Bayern Monaco.
Non è un caso quindi che il Liverpool, in un periodo di incertezza ormai lungo qualche anno, abbia affidato proprio a lui la rinascita. Un tecnico giovane, propositivo, amante del bel gioco, in grado di costruire squadre che gli somigliano molto. Con un po’ di retorica si tende a contrapporlo ad altri tecnici, tra cui lo stesso Ancelotti, rei di essere in grado di far bene solo quando il materiale umano a disposizione è di primissima qualità.
A voler essere onesti, la società britannica di risorse a disposizione del suo tecnico ne ha messe parecchie. Non si può negare però che Klopp sia un tecnico dotato di due qualità fondamentali: l’empatia e la capacità di migliorare i propri giocatori. Quello che ha portato i Reds dall’ottavo posto raggiunto il primo anno alla vittoria della finale di Champions League nel 2019 e la competitività messa in mostra su più fronti in queste stagioni è stato un percorso. Ci sono stati investimenti importanti, ci sono stati ostacoli, c’è stata una crescita continua. Sin da subito però Klopp ha parlato chiaro, ha fatto gruppo, è entrato nel cuore dei tifosi e li ha resi orgogliosi degli uomini che li rappresentavano in campo.
Sul lato tecnico, ha lanciato molti giovani, alcuni diventati titolari e altri giocatori di rotazione. Soprattutto ha trasformato calciatori già affermati e di indubbie qualità rendendoli multidimensionali. Thiago e Fabinho, già citati in precedenza, seppur affermatissimi erano abituati a un gioco più orizzontale, tattico, compassato. Ora controllano i ritmi, non si sono snaturati, ma sanno adottare le giuste contromisure quando la situazione in campo si inglesizza. Salah e Mané sono arrivati a Liverpool come attaccanti rapidissimi, abili nel dribbling, perennemente pericolosi, ma anche tendenti a commettere errori. Klopp li ha resi calciatori completi, macchine da gol e assist, contropiedisti e palleggiatori all’occorrenza.
L’allenatore di Stoccarda ha un rapporto per certi versi nervoso con la Champions. Ha vinto l’ultima finale giocata, ma ha perso le 2 precedenti. Il cammino del suo Liverpool è stato per certi versi più semplice del Real, tra Inter, Benfica e Villareal. Tutte squadre teoricamente inferiori. I Reds però hanno dimostrato la capacità di confrontarsi con situazioni differenti, spesso dominando il gioco all’andata per poi controllare gli sfoghi avversari nelle gare di ritorno. Soffrendo, ma non uscendone mai sopraffatti. In una gara singola sarà tutto da scoprire.
Il filo nascosto
Due figure differenti quindi, per carriera e anche per espressioni tattiche, ma unite anche da alcune caratteristiche e visioni comuni. In primis la leadership e l’autorevolezza che accompagna entrambi, che sia in campo, nello spogliatoio o in sala stampa. Ancelotti non è uomo di molte parole, ma sa toccare le corde giuste nei suoi calciatori, ha l’abilità di farli rendere al meglio sotto pressione, ha grande esperienza nel gestire uno spogliatoio di senatori. Klopp ha un carattere e anche un’immagine diversa: più giovanile, esuberante. Coccola i suoi calciatori, li difende e se serve li esalta. Entrambi, forse non un caso, hanno un ottimo senso dell’umorismo. Più sottile e pungente quello di Carlo, asciutto come tradizione tedesca vuole ma accompagnato da una grande espressività quello di Jurgen.
Ad unirli, nonostante qualcuno ne faccia tutta una questione di possesso e contropiede, è anche l’amore per una delle cose più essenziali del calcio: la fantasia. Klopp la stimola con la rete di movimenti che crea, la cerca nelle doti principali dei calciatori che compra, la chiede anche a chi per ruolo non dovrebbe averla. Certo, facile quando il tuo terzino destro ha i piedi di un numero 10, ma chissà se Alexander-Arnold sarebbe questo se non avesse incontrato il tedesco. Ancelotti non disdegna certo il gioco di rimessa, ma è innegabile il suo occhio per i calciatori di qualità, sempre lasciati liberi di farsi guidare dall’istinto. Pirlo e Modric hanno fatto girare le sue squadre, a Kakà e Ronaldinho tutto era concesso, James Rodriguez è il suo pupillo che non ha sfondato come avrebbe potuto.
Come i loro allenatori, anche le due squadre rappresentano all’apparenza qualcosa di molto diverso. Inglesi da una parte e spagnoli dall’altra, culturalmente incompatibili. Anche se poi qualcuno forse avrebbe da ridire. Sì perché a Liverpool prima di sentirsi inglesi o britannici si sentono scouse e il Liverpool rappresenta a pieno titolo questa appartenenza. Il Real invece è simbolo di una nazione, il primato nella sua capitale e persino il suo ordinamento politico. Operai i Reds, regali, come da nome, i Blancos.
Eppure esiste qualcosa che li tiene uniti, ed è il significato che hanno all’interno di questa competizione. Due club capaci di essere tra i più importanti in patria e di traslare questa forza a livello continentale. In grado di trascendere i decenni e di rinnovarsi costantemente. Di uscire dai propri confini, farsi e amare e odiare dai tifosi di tutto il mondo. Fucina di talenti e casa di tantissimi tra i migliori interpreti di questo sport. Inevitabile che con loro in campo, a giocarsi questa Champions, vada anche la storia.