Ci sono squadre, in questa stagione di competizioni UEFA per club, il cui destino è legato da uno strano filo rosso che poco ha a che vedere con il calcio giocato: la guerra. Sì perché in quella che dovrebbe essere una favola da condividere con i propri tifosi e la propria gente, la possibilità di affrontare compagini di rilievo e di sognare una coppa, quattro società d’Europa sono costrette dall’attualità che le circonda a giocare lontano dalla propria casa. In gergo si definiscono “refugee clubs“, club rifugiati, destinati a una vita in perenne trasferta.
Su e giù per l’Ucraina
La storia recente dello Shakhtar Donetsk è caratterizzata da una serie di peculiari migrazioni. Nella primavera del 2014 infatti, la regione del Donbass è diventata teatro di un duro conflitto armato tra Russia e Ucraina. L’area, tendenzialmente filo-russa, si è proclamata indipendente dall’Ucraina tramite l’istituzione della Repubblica Popolare di Donetsk nel maggio dello stesso anno. In seguito allo scoppio della guerra, la federazione calcistica ucraina ha intimato a varie squadre, tra cui lo Shakhtar appunto, di trovarsi una nuova, temporanea sistemazione, al fine di evitare ogni tipo di pericolo.
Una decisione che la principale società di Donetsk avrebbe dovuto prendere in ogni caso, dato che nell’estate 2014 la Donbass Arena, fino ad allora casa dei neroarancio, è stata perennemente danneggiata dai bombardamenti. Il club scelse quindi di spostarsi a Leopoli a partire dall’inizio della stagione 2014-2015, senza però essere accolto con particolare calore dai tifosi e dagli abitanti della nuova città. Nel 2017, vista la poca affluenza allo stadio e la generale freddezza intorno alla squadra, la dirigenza optò per una nuova sistemazione, questa volta stanziandosi nel Metalist Stadium di Kharkiv, a circa 250 chilometri da Donetsk.
La situazione precaria ha influito solo moderatamente sull’aspetto calcistico. Ci sono state cessioni importanti, ma tutto sommato in linea con la filosofia del club, e un paio di secondi posti in campionato dovuti però anche al ritorno ad alti livelli della Dinamo Kiev. Il tutto comunque accompagnato da ottime figure in Europa.
Quando sembrava trovata una certa stabilità, ci ha pensato la pandemia di Covid-19 a rimescolare le carte. La chiusura degli stadi ha infatti privato la squadra di Donetsk degli introiti derivanti dalla vendita dei biglietti, il che ha reso insostenibile il costo delle continue traversate verso Kharkiv. Le sedi societarie, i campi di allenamento e gli alloggi dei giocatori infatti, una volta lasciato il Donbass, sono stati rilocati nella capitale ucraina, Kiev. Ogni partita di campionato quindi per le casse del club aveva il peso di una trasferta. La dirigenza quindi, per l’inizio dell’annata 20-21, ha preso la decisione più logica, eppure comunque sorprendente per motivi puramente calcistici: spostarsi definitivamente all’Olympinskiy, il santuario degli acerrimi nemici della Dinamo Kiev. Un posto ostile in cui mettere radici, nonostante lo Shakhtar lo avesse già saltuariamente frequentato in occasione delle partite di Champions ed Europa League.
In questo continuo peregrinare, vittime sacrificali sono stati ovviamente i tifosi. Kiev guarda infatti all’Europa centro-settentrionale, a circa 10 ore di macchina da Donetsk, una distanza proibitiva da coprire con costanza anche per i più coraggiosi, per di più già vessati dalla guerra nella propria vita quotidiana. Fa impressione pensare che nel proprio stadio lo Shakhtar avesse una media spettatori che navigava intorno alle 45mila unità, mentre ora gli uomini attualmente allenati da De Zerbi affrontano le gare di campionato davanti a circa 6-7mila persone, per di più in un arena che può contenerne dieci volte di più.
Neanche in queste situazioni il calcio smette di avere una funzione sociale. Per i migranti del Donbass che hanno dovuto abbandonare la propria terra, spostandosi in altre zone dell’Ucraina e nella capitale in particolare, lo Shakhtar è diventato un simbolo di unione con ciò che si è lasciato alle spalle. Il legame visibile con le proprie origini. In tanti, magari non particolarmente tifosi in passato, si sono quindi affezionati e appassionati alle sorti della squadra della propria città nel momento in cui da quella città sono stati costretti ad allontanarsi. In loro la società di Rinat Akhmetov ha trovato un primo bacino d’utenza cui rivolgersi nella speranza di creare una nuova base di tifo anche a Kiev.
Il club, con varie iniziative, si preoccupa anche di chi è rimasto nel Donbass, in cui la competizione sportiva è ormai ridotta al solo livello amatoriale. In particolare sono state istituite una serie di programmi e scuole calcio per permettere ai giovani calciatori più meritevoli di mettersi in mostra ed eventualmente meritare uno stage nell’academy della società. La dirigenza reputa infatti la rappresentanza all’interno della rosa fondamentale, come dimostrano il vice-capitano Stepanenko o ragazzi quali Trubin e Konoplya, tutti nativi dell’oblast di Donetsk.
Non è però tutto oro quel che luccica, e in realtà lo Shakhtar nelle sue principali figure dirigenziali e il blocco storico di tifosi locali non si trovano esattamente sulla stessa lunghezza d’onda. Il club, con varie dichiarazioni pubbliche da parte dei suoi affiliati e del presidente stesso, si è sempre posizionato a favore di un’Ucraina pacifica e unita. Sentimento non condiviso dalla maggioranza della Repubblica Popolare di Donetsk, e di conseguenza neanche dalla tifoseria organizzata, protagonista di varie iniziative e raccolte fondi per dare sostegno ai separatisti. In molti a Donetsk si sono ormai rassegnati all’addio del calcio di un certo livello, almeno per un po’.
Una favola a metà
Lo Zorya Luhansk ha iniziato ad affacciarsi con buona costanza alle competizioni europee soltanto negli ultimi anni. Nella scorsa annata si è reso protagonista di una clamorosa vittoria contro il ben più blasonato Leicester, in Europa League. Soltanto qualche settimana fa ha tenuto botta per 70 minuti contro la Roma di Mourinho, con cui condivide il girone di Europa Conference League. Verrebbe quasi da parlare di Cenerentola, di una nuova favola calcistica, se non fosse che lo Zorya di queste recenti fortune non ha potuto godere di fronte alla propria gente.
La situazione è simile a quella dello Shakhtar. Luhansk è parte dell’omonimo oblast nel sud-est dell’Ucraina, territorio attualmente teatro di guerra con la Russia. Con lo scoppio del conflitto anche in questa zona si è proclamata l’indipendenza, con un referendum scaturito nella nascita della Repubblica Popolare di Luhansk, anche questa di matrice filo-russa. Lo Zorya, per tutelare la sicurezza propria e degli avversari, si è dovuto quindi cercare una nuova casa.
Dal 2014, come recentemente testato da un manipolo di romanisti forse inizialmente confusi, lo Zorya gioca quindi alla Slavutich Arena di Zaporizzja. Non proprio una passeggiata di salute, stando a Google Maps, ma i rapporti amichevoli tra la società di Luhansk e i locali del Metallurg hanno favorito la transizione. L’ex-allenatore dello Zorya e principale artefice della sua ascesa negli ultimi anni Yuriy Vernydub proveniva infatti proprio dalla squadra di Zaporizzja, che aveva lasciato senza alcuno screzio. Se questo nome non vi è totalmente nuovo, provate a controllare chi siede sulla panchina dello Sheriff Tirarspol che sta facendo impazzire l’Europa.
Anche la tifoseria organizzata del Metallurg, forse esaltata dal poter assistere ad incontri di alto livello nella propria città, ha accolto lo Zorya con entusiasmo, e non è raro che qualche loro rappresentante presenti allo stadio in occasione delle partite casalinghe dei rossoneri. Del resto qualcuno deve pur sopperire alla mancanza degli aficionados storici, per cui il desiderio di seguire la propria squadra del cuore si scontra con le distanze proibitive e le misure anti-terrorismo del governo ucraino. C’è comunque, seppur in numero ridotto, un numero di ultras che prova a farsi sentire e a non mancare mai.
Inizialmente, in modo comprensibile, lo scoppio del conflitto ha creato seria preoccupazione nei giocatori, soprattutto quelli stranieri. Alla fine del campionato 2013/14 alcuni di loro hanno chiesto la cessione, timorosi anche per l’incolumità delle proprie famiglie. Adesso che lo Zorya ha in qualche modo trovato una sistemazione stabile invece, la percezione è che i calciatori stessi sentano la responsabilità della lontananza, e che il legame tra squadra e tifosi si sia persino accentuato.
Indubbiamente questi anni di calcio internazionale, in particolare le discrete figure in Europa League, hanno aiutato a riaccendere un entusiasmo che poteva spegnersi per via della separazione forzata dal proprio club, e allo stesso modo hanno permesso alla società di respirare. I diritti televisivi e i ricavi del botteghino derivanti anche da spettatori neutrali, nonché dalle tifoserie in trasferta, permettono infatti al presidente Heller di rientrare dalle ingenti spese dovute agli affitti di sedi e alloggi per i giocatori.
Un investimento cui lo Zorya, in un futuro più o meno prossimo, spera di non dover più fare fronte, sognando invece di utilizzare gli stessi fondi per regalare qualche nome importante all’allenatore Vyktor Skrypnyk, uno dei più importanti nella storia del calcio ucraino. Nel mentre però, all’Avanhard Arena di Luhansk il tempo è fermo al 27 aprile 2014. Lo Zorya quel giorno vinse 1-0 per l’ultima volta davanti al suo pubblico. La firma la lasciò uno che sarebbe diventato grande per davvero, Ruslan Malinovskiy.
La città che non c’è
Il Nagorno-Karabakh è dalla prima metà degli anni 90 una regione di conflitto, contesa tra Azerbaijan e Armenia. Sul finire del 2020 ha visto il riemergere di una vera e propria lotta armata, che al cessate il fuoco ha sorriso principalmente al fronte azero. In sua rappresentanza esiste una sola squadra di calcio, il Qarabag, la cui storia ha subìto una svolta importante nell’ultimo decennio. Allenato da Gurban Gurbanov, ha vinto 7 degli ultimi 8 campionati azeri. Nel 2017 ha giocato per la prima volta in Champions League e ad oggi detiene il record di presenze per una squadra azera in competizioni UEFA. Un’impresa che ha dell’incredibile, soprattutto se si pensa che la città in cui tutto ebbe origine non esiste più.
Agdam, la vera casa del Qarabag, fu distrutta dall’esercito armeno nel 1993, e detiene il triste record di città fantasma più grande d’Europa. Oggi il Qarabag gioca a Baku, capitale dell’Azerbaijan, ma ha un valore simbolico inestimabile per la sua gente e in un certo senso per l’intera nazione. Per gli azeri rappresenta la rinascita e la rivendicazione di un territorio per cui si è combattuto duramente. Per i tifosi invece il discorso è un po’ più complesso.
Lo scoppio del primo conflitto infatti portò ad una vera e propria diaspora, e questo ha reso difficile la riorganizzazione della tifoseria, in parte sparsa nei grandi centri del paese, ma principalmente ridistribuita nei campi per rifugiati costruiti al confine della zona di guerra. Il club, già in origine molto attivo nel sociale e impegnato in tempi di guerra, in questi anni ha fatto molto per venire in aiuto dei propri sostenitori.
L’accesso alle partite è spesso gratuito e fino a poco tempo fa la società organizzava degli autobus per agevolare lo spostamento fino a Baku. Inoltre, grazie agli introiti derivanti dalle partecipazioni alle coppe europee, il Qarabag è stato in grado di mettere in atto vari progetti umanitari in supporto di coloro il cui status è ufficialmente quello di Internally Displaced Persons (in italiano “sfollati interni”).
Non è raro che il Nagorno-Karabakh trovi rappresentanza anche in membri della rosa. Rashad Sadygov, ritiratosi nel 2020 e storico capitano della squadra (nonché giocatore più presente nella storia dell’Azerbaijan) è nato a Baku, ma la madre è originaria di Agdam. A lei ha sempre dedicato le vittorie della squadra. Gara Garayev, miglior giocatore azero del 2020, è nato a Fuzuli, città costretta all’evacuazione dopo la conquista armena. La sua incredibile storia calcistica è iniziata in un campo per rifugiati vicino Baku, dove fu notato dal Qarabag mentre giocava a pallone.
Senza dubbio, la scalata del Qarabag fino ai vertici del calcio azero è stata meritata sul campo. Le ottime figure collezionate in Europa in questi anni del resto testimoniano la bontà del lavoro tecnico svolto, integrando il nucleo di calciatori azeri con delle buone reclute dall’estero. Ad orchestrare il tutto c’è però anche la mano del governo. La proprietà della squadra è infatti della società Azersun, legata a doppio filo al presidente azero Ilham Aliyev. Il Qarabag ha da sempre un valore extra-calcistico per la popolazione della sua regione d’origine, ma se l’obiettivo era farne un simbolo nazionale, il risultato sembra essere stato raggiunto. In Europa infatti, oggi l’immagine del club è associata alla bandiera dell’Azerbaijan.
In esilio verso sud
Chi dando un’occhiata ai risultati della Conference League ha notato l’Anorthosis, non può non essere tornato con la memoria alla stagione 2008/09, quando la squadra biancoblu si ritrovò nello stesso girone europeo dell’Inter. Quella era la prima volta per una squadra cipriota in Champions League, un traguardo assolutamente storico. Un traguardo però raggiunto lontano dalla propria casa, Famagosta. Non una novità, né una casualità, bensì una ricorrenza addirittura dal 1974.
Negli anni 70, su istigazione della dittatura militare greca, la parte ellenica dell’isola di Cipro tentò un colpo di stato. L’obiettivo era rovesciare il governo e successivamente unirsi alla Grecia. La Turchia, fiutato il pericolo per la popolazione di etnia turca, rispose con un’invasione armata. La risoluzione del conflitto portò ad una divisione dell’isola tra nord e sud, la parte nord faceva riferimento alla Turchia, quella meridionale alla Grecia. Poco dopo fu autoproclamata la Repubblica Turca di Cipro. A farne le spese, tra le altre, fu la città di Famagosta, interamente occupata dai turchi.
L’Anorthosis, già allora una società molto rappresentativa per il calcio cipriota, decise quindi di migrare verso sud, nella parte Greca dell’isola. La destinazione prescelta fu appunto Larnaca, scelta condivisa da buona parte della tifoseria costretta alla diaspora. Dopo 12 anni nella nuova città, il club di Famagosta iniziò a giocare in nuovo stadio, fatto costruire appositamente. Il nome datogli, Antonis Papadopoulos, è tutt’altro che casuale. Papadopoulos, ex-calciatore e sostenitore dell’Anorthosis, fu un combattente membro dell’EOKA, organizzazione paramilitare che si impegnò per l’indipendenza dal Regno Unito e la successiva Enosis, l’unficazione con la Grecia.
A Cipro la componente politica ha una forte influenza sul calcio. Molte tifoserie sono dichiaratamente schierate, e i club hanno una collocazione storicamente abbastanza precisa. L’Anorthosis, i cui richiami alla Grecia nei simboli e nei colori sono piuttosto evidenti, si associa prevalentemente ad un’ideologia di destra. In seguito allo scoppio della guerra civile greca post-seconda guerra mondiale gli atleti di sinistra facenti parte della società sono stati ostracizzati, e questo ha portato alla creazione di un nuovo club che potesse accoglierli, il Nea Salamis. Per anni gli scontri tra le due squadre sono stati particolarmente accesi, ma ciò che rimane oggi è la celebrazione di una città che sperano possa essere di nuovo, un giorno, teatro di una stracittadina.