Diciassette anni fa appendeva gli scarpini al chiodo El Pibe Carlos Valderrama, leggenda indiscussa degli anni ’90. L’occasione giusta per raccontare la triste storia della parabola dei Cafeteros, l’iconica Colombia.
Non immaginava che era più facile cominciare una guerra che finirla.
Chissà quante volte i colombiani si saranno soffermati su questa frase. Chissà quanti sospiri di sconforto, quante volte avranno annuito, riconoscendo la verità insita in quelle poche parole. A scriverle era stato, negli anni ’60, il personaggio di spicco della letteratura e della cultura colombiana, Gabriel García Márquez. Colui che aveva consegnato il Paese alla fama mondiale e uno dei pochi ad averlo fatto per qualcosa di buono.
Sì, perché alcuni anni dopo la Colombia sarebbe finita nuovamente sotto i riflettori, ma questa volta per questioni diametralmente opposte. Lo sviluppo incontrollato della criminalità organizzata le aveva assegnato un primato non invidiabile tra le nazioni più sanguinose dell’intero pianeta. La storia è nota a tutti ed è stata riproposta anche di recente tramite acclamate serie tv: il narcotraffico, i cartelli della droga, la figura di Pablo Escobar.
Sul Re della cocaina se ne sono dette tante, forse anche troppe. Si narra che avesse così tanti soldi da aver messo fuoco a due milioni di dollari per riscaldare sua figlia infreddolita. Che vuoi che fossero per uno che, a quanto pare, ne guadagnava 42.000 al minuto? Spesso è stato riconosciuto impropriamente come un benefattore, un Robin Hood contemporaneo. Una figura carismatica capace di rubare ai ricchi e regalare ai poveri, dimenticati invece dalla politica. Ovviamente tutto faceva parte di un piano volto ad accrescere le sue basi di consenso e a legittimare gli interessi illeciti del cartello. Nel 1982 era persino riuscito a farsi eleggere nella Camera dei rappresentanti sfruttando i voti dei proletari, riconoscenti per la sua magnanimità. Una cosa non va però dimenticata: in America Latina ogni demagogia che si rispetti deve inevitabilmente passare anche dal calcio.
Il narcofútbol in Colombia
Accattivarsi la benevolenza della “sua gente” era uno dei principali obiettivi del primo Pablo. Per questo, col suo patrimonio in costante crescita finanziò la realizzazione di importanti opere pubbliche nelle periferie della sua Medellín. Passeggiando per i quartieri della città probabilmente troverete qualcuno che vi indicherà un ospedale o una scuola, dicendovi che a costruirla è stato Pablo Escobar. Per molti rimane ancora oggi una figura da venerare e ringraziare come un padre adottivo, ma non si può di certo biasimarli. Uno degli interventi più frequenti fu la costruzione di impianti sportivi, in particolare di calcio. Ne costruì una settantina, garantendo alla popolazione un luogo di ritrovo e di divertimento, ma soprattutto un posto sicuro per i bambini. Questo sarebbe stato uno dei fattori determinanti per la nascita della generazione d’oro del calcio colombiano.
L’azione di Pablo non si fermò però al calcio amatoriale. In quegli anni divenne evidente a tutti i narcotrafficanti che lo sport professionistico fosse uno strumento di riciclaggio ideale. I biglietti venivano acquistati sempre in contanti e questo permetteva di dichiarare meno denaro di quello effettivamente incassato. Oppure si poteva vendere un giocatore ad un’altra squadra e comunicare di aver ricevuto una cifra maggiore per il suo cartellino. Nacque così il fenomeno del narcofútbol. I signori della droga fecero a gara per accaparrarsi i club migliori: José Gonzalo Rodríguez Gacha (“El Mexicano”) divenne il proprietario del Millonarios; il rivale “El Señor” Miguel Rodríguez Orejuela acquistò l’America de Cali, città in cui aveva fondato l’omonimo cartello con il fratello Gilberto.
Il caso Atlético Nacional
Pablo non voleva essere da meno e decise di investire sui due club più importanti della città di Medellìn, l’Atlético Nacional e l’Independiente. Il primo, in particolare, divenne l’emblema della nuova stagione apparentemente paradisiaca inaugurata dal narcofútbol. Il patrimonio di El Patrón si fece sentire sin da subito. Per la prima volta, il club era in grado di soddisfare le richieste dei giovani talenti, evitando quindi che fuggissero all’estero. Il Nacional riuscì a costruire un’intera squadra di campioni, tutti originari del territorio cittadino, con molti che provenivano proprio dai quartieri poveri soccorsi e restaurati da Pablo. Questo portò a un’amicizia malcelata tra il boss e i suoi calciatori, che riconoscevano in lui il loro salvatore.
Il 1989 fu l’anno della definitiva consacrazione per l’Atlético Nacional. La squadra vantava ormai numerose stelle, a partire dal pittoresco portiere René Higuita, autore di grandiose prodezze con le mani e non solo. La sua qualità nelle uscite fuori dall’area e nel contribuire all’impostazione del gioco lo rendevano un degno precursore dei moderni specialisti Alisson ed Ederson. Senza dimenticare la follia di alcune sue storiche parate, come quella “dello scorpione“, passata giustamente alla storia. La difesa era ormai diventata proprietà privata del giovanissimo Andrés Escobar, baluardo di professionalità e serietà, nonché di grande lucidità, tecnica e tempismo. Il suo soprannome era “El Caballero de la cancha” (“Il gentiluomo del campo”) e per lui si prospettava un futuro roseo. Se qualcuno se lo stesse chiedendo, non vantava alcun legame di parentela con El Patrón. Membri importanti della squadra erano poi sicuramente Luis Fernando Herrera, Leonel Álvarez e il capitano Alexis García.
Sul tetto del Sudamerica e (quasi) del mondo
Sotto la guida del carismatico allenatore Francisco “Pacho” Maturana, la squadra si tolse numerose soddisfazioni. Divenne infatti la prima squadra colombiana a vincere la Copa Libertadores, massima competizione continentale per club. Los Verdolagas raggiunsero l’obiettivo contro i paraguaiani dell’Olimpia di Asunción. La finale si decise soltanto ai calci di rigore, dopo un 2-0 per parte nelle gare di andata e ritorno.
La vittoria permise alla squadra di Pablo di partecipare alla Coppa Intercontinentale, organizzata in quegli anni a Tokyo. Di fronte si trovarono l’invincibile Milan di Sacchi, campione d’Europa in carica. Nonostante questo, i rossoneri si scontrarono con la solidità difensiva dei colombiani. I moduli e lo stile di gioco erano molto simili e questo portò le due squadre ad annullarsi per tutta la durata del match. Soltanto un episodio sbloccò questa lunga fase di impasse: una punizione di Evani sullo scadere. La coppa andò al Milan, ma l’Atletico Nacional balzò comunque agli onori della cronaca per la brillante prestazione. In particolare, il giovane Andrés Escobar finì sul taccuino di Arrigo. Chissà, magari sarebbe servito in futuro.
Disordini sociali
La presenza dei narcotrafficanti nel calcio contribuì però ad insanguinare anche l’ultimo baluardo ancora vergine nel panorama colombiano. Avvennero diversi episodi di violenza, come il barbaro assassinio dell’arbitro Álvaro Ortega, reo di aver annullato un gol all’Independiente nella sconfitta contro l’America de Cali. In seguito a questo episodio, la federazione prese la drastica decisione di annullare l’intero campionato. Nel frattempo, Pablo Escobar rischiava di andare incontro ad un processo di estradizione da parte degli USA per l’esportazione di cocaina. L’immunità parlamentare era scaduta dopo il forzato abbandono della scena politica. I sostenitori della sua cacciata venivano di volta in volta neutralizzati: il governo era costantemente sotto l’attacco di una logorante strategia del terrore.
Fu questo uno dei periodi in cui si fece più ricorso alla celeberrima formula “Plato o plomo“: i ministri vennero corrotti ad uno ad uno, sotto minaccia di morte, per approvare la modifica della Costituzione. Il giorno del voto, la maggior parte dell’Assemblea Costituente si dichiarò difatti favorevole all’emendamento. Con l’abolizione dell’estradizione, il governo perdeva la sua arma più grande contro il narcotraffico. Pablo decise allora di consegnarsi, avendo guadagnato la possibilità di essere rinchiuso ne “La Catedral“, una struttura per tossicodipendenti di Medellìn che lui stesso aveva convertito in prigione.
Ho deciso di consegnarmi alla giustizia. Con la mia resa, vorrei riconoscere a tutti i membri dell’Assemblea Costituente il loro nobile contributo a favore della pace nazionale.
L’ascesa della generazione d’oro
Nonostante il clima da guerra civile, il calcio colombiano proseguiva la sua crescita esponenziale. Il successo dei club si era ormai trasferito anche alla nazionale. Il commissario tecnico era sempre lui, Francisco Maturana, che aveva costruito la squadra intorno all’ossatura del suo Atlético Nacional. Ai campioni del 1989 si era aggiunto un giovane attaccante, Faustino Asprilla, che presto sarebbe passato al Parma e sarebbe diventato uno dei migliori interpreti del ruolo al mondo. Una prima punta a cui non mancava nulla tecnicamente, ma limitato da un carattere sopra le righe.
Il personaggio più appariscente però era un altro: “El Pibe” Carlos Valderrama. Calciatore girovago, era il più conosciuto a livello internazionale visti gli anni passati in Europa. La sua chioma poi è forse la più iconica nella storia del calcio: durante le partite diventava praticamente impossibile perderla di vista. Ma non era l’unico tratto distintivo del “Gullit Biondo”: tecnica sopraffina e visione di gioco sopra la norma lo rendevano un regista perfetto, capace di agire dietro le punte e di smarcarle al momento giusto con lanci millimetrici. Con il benestare di Asprilla & Co.
Con una squadra così, sognare non era più proibito. Nel 1990 la Colombia era tornata a qualificarsi alla fase finale del Mondiale in Italia, a ventotto anni dalla prima apparizione. Il torneo era andato meglio del previsto: solo la sorpresa Camerun aveva bloccato l’armata di Maturana negli ottavi di finale. Ma è dopo quel mondiale che la squadra raggiunse il suo massimo splendore: tra il 1990 e il 1994 arrivarono una serie di risultati positivi, anche contro diverse rappresentative ben più blasonate. Il divario tra le reti segnate e quelle subite cresceva a dismisura, il gioco era maturato e diveniva sempre più coinvolgente. I Cafeteros erano ormai pronti al grande salto.
L’apice: Argentina-Colombia
Gli stadi erano tornati a riempirsi. In un periodo così difficile, i tifosi colombiani vedevano nella nazionale un’ancora di salvezza, l’unica via di sbocco per i propri sogni spenti ormai da troppo tempo. Quelle personalità apparentemente così forti ed eccentriche generavano fiducia in tutti. Gli stessi calciatori sentivano sulle proprie spalle il peso e la necessità di riscattare l’immagine negativa della nazione. Tutto ciò che riguardava la Colombia veniva automaticamente accostato ai crimini di Escobar. Da questa etichetta non era esente nemmeno la nazionale: ovunque andassero, i calciatori venivano sommersi da fischi ed etichettati come spacciatori.
Accadde anche il 5 settembre 1993 all’Estadio Monumental di Buenos Aires. Quel giorno si giocava Argentina-Colombia, gara decisiva per la qualificazione ai mondiali degli Stati Uniti. La vincente avrebbe guadagnato un posto nella fase a gironi, la perdente avrebbe disputato lo spareggio interzona. Per l’Albiceleste, vicecampione del mondo in carica, vincere rappresentava un obbligo, soprattutto se il teatro della sfida era lo stesso in cui Daniel Passarella aveva alzato la prima coppa del Mondo quindici anni prima. Ma la Colombia di quegli anni faceva veramente paura; i tifosi sugli spalti lo sapevano e fischiavano i Cafeteros per intimorirli e confonderli. Qualcuno all’aeroporto era persino riuscito nell’impresa di tirare i riccioli a Valderrama. Per il pilastro della difesa argentina Oscar Ruggeri non c’era però nulla da temere:
Ho giocato due finali dei Mondiali, e non ho visto la Colombia dall’altra parte. Ho vinto due volta la Copa América, ed anche in quel caso la Colombia non c’era.
La partita
Come ci ha insegnato la storia del calcio e non solo, la spavalderia è però un errore che si paga a caro prezzo e il povero Ruggeri non può certamente dire di aver evitato la condanna. In realtà i primi minuti sembrano arridere proprio all’Albiceleste, mentre la banda di Maturana è ancora confusa dal clima di tensione del Monumental. Al 41′ si consuma però la svolta: completamente libero di agire a centrocampo, El Pibe Valderrama serve deliziosamente Freddy Rincón sulla destra, che si allunga il pallone fino a raggiungere l’area di rigore. Arrivato a tu per tu con Goycochea, aggira il portiere e deposita il pallone in rete. La Colombia è in vantaggio all’intervallo.
All’Argentina non è concesso neanche il tempo di scendere mentalmente in campo per il secondo tempo, che già arriva il raddoppio. Da centrocampo parte un lancio lungo e millimetrico di Rincón per Asprilla, che sta per entrare in area. “El Pulpo” addomestica la palla con le sue lunghe leve, supera con una finta Borrelli, se la porta sul destro e infila alle spalle di Goycochea, intento ad uscire. Al Monumental cala il silenzio: la Colombia è ormai padrona del match. La conferma arriva tra il 72′ e il 74′. Il primo a siglare la doppietta è Rincón, che su un cross di Álvarez colpisce al volo e sigla il 3-0 sfruttando un rimbalzo beffardo. Due minuti dopo è il turno di Asprilla: palla soffiata al non pervenuto Borrelli, lunga corsa in solitaria e pregevole parabola che scavalca il povero Goycochea.
Per l’Albiceleste la serata si è ormai trasformata in un incubo: nell’aria e nel silenzio del Monumental si respira un che di surreale. La squadra ha abbandonato psicologicamente il terreno di gioco già da tempo. Ne è testimone la rete del definitivo 0-5: Asprilla riceve dal solito Valderrama e, arrivato in area, mette in mezzo un passaggio filtrante. La difesa argentina è completamente inerme e non può far altro che guardare “El Tren” Adolfo Valencia fiondarsi sul pallone e spedirlo in rete. Argentina-Colombia 0-5. Una delle più grandi umiliazioni nella storia de La Selección, forse seconda solo a quella che avrebbe subito dalla Bolivia nel 2009 (6-1). Troppo grande la determinazione dei Cafeteros, troppo evidente la superiorità della banda di Maturana. Ne sono consapevoli gli stessi argentini che avevano fischiato a lungo ed invano quei “narcotraficantes” e che a fine gara dedicano loro una standing ovation. Chapeau.
L’inesorabile declino: il Mondiale 1994
Le immagini della roboante vittoria contro l’Argentina iniziarono a fare il giro del mondo. Tutti rimasero impressionati da come la Colombia avesse esercitato un autentico dominio sui vicecampioni del ’90. Quella prestazione, le idee di Maturana e le capacità degli uomini a sua disposizione le garantì un posto tra le candidate al titolo che si sarebbe assegnato negli Stati Uniti. Parola addirittura di Pelé:
La Colombia è la mia favorita per la vittoria del Mondiale.
La verità sarebbe stata però molto più amara. Dietro quel disegno perfetto iniziavano già a crearsi le prime crepe, che nessuno era ancora in grado di cogliere. Le conseguenze sarebbero state devastanti. La causa era sempre la stessa che aveva contribuito a portare la Colombia così in alto: il legame con il narcotraffico.
Leggendo le formazioni del match contro l’Argentina, a questo punto molti di voi noterebbero un’assenza importante e alquanto sospetta nei Cafeteros. A difendere la porta si trovava un certo Óscar Córdoba e non il nostro celebre René Higuita. Perché? Un infortunio lo aveva tenuto fuori? Una scelta di Maturana? Difficile in una serata così importante.
René non c’era perché si trovava in carcere e per lo stesso motivo avrebbe saltato i Mondiali del ’94. La condanna era arrivata ufficialmente per la mediazione da lui esercitata in un tentativo di sequestro. Ma l’opinione comune raccontava che fosse finito dietro le sbarre per la sua amicizia con Pablo Escobar. Il portiere era stato infatti intercettato dai giornalisti mentre si recava a trovare El Patrón presso La Catedral. Era scoppiato uno scandalo nazionale, perché quel legame poteva mettere di nuovo in discussione l’immagine della Colombia, ricostruita con tanta fatica attraverso il calcio.
Sono stato arrestato per sequestro di persona, ma mi hanno chiesto soltanto di Pablo.
In realtà Higuita non era l’unico che fece visita a Escobar durante la sua detenzione/villeggiatura. Anche il resto della Nazionale si recava spesso da lui, spesso su suo invito personale. La struttura era stata dotata di un campo da calcio e di una serie infinita di comfort, le guardie erano state corrotte e permettevano che Pablo gestisse i suoi traffici illeciti e accogliesse i suoi adepti. Il suo potere rimaneva incontrastato e per questo il governo colombiano, sostenuto dagli americani, non poteva restare a guardare. Venuto a conoscenza della nuova linea dura, El Patrón decise di evadere e scappare. Aveva inizio una nuova fase di guerra civile, che avrebbe condotto all’assassinio di Pablo Escobar il 2 dicembre 1993. Ma che non sarebbe affatto terminata con esso.
La morte del dominatore assoluto del mercato della cocaina aveva creato un enorme vuoto di potere del quale molti volevano e potevano approfittare. Il clima di terrore crebbe notevolmente: non ci si poteva più fidare di nessuno. Per tutto il 1994, la Colombia continuò ad essere quindi una polveriera pronta ad esplodere. E nel mentre, la Nazionale si preparava a sbarcare negli Stati Uniti.
Colombia-Romania
Il sorteggio aveva assegnato ai Cafeteros i padroni di casa, la Romania e la Svizzera. Un girone tutt’altro che proibitivo per una delle rappresentative favorite per la vittoria finale. I calciatori sentivano dalla propria parte il sostegno e la fiducia della gente e dei media nazionali. Un’arma che si sarebbe presto rivelata a doppio taglio: la necessità di vincere e di rispettare i pronostici della vigilia costituiva una pressione non indifferente. Il contrario di quanto accadeva, ad esempio, nella compagine romena. La prima avversaria dei ragazzi di Maturana aveva sorvolato l’Atlantico con la dolciastra leggerezza di chi non ha nulla da perdere. Un privilegio per pochi.
Il 18 giugno 1994 al Rose Bowl di Pasadena, si consumò il primo disastro. Da una parte i colombiani misero in mostra un approccio molto meno coraggioso rispetto a quanto fatto vedere fino a quel momento. Dall’altra, l’unico vero campione della formazione romena, Gheorghe Hagi, fece capire sin da subito di essere in giornata. Al quindicesimo scatta centralmente e serve sulla sinistra Florin Răducioiu. L’attaccante penetra in area, confondendo i difensori Perea ed Herrera, e spedisce in rete. La Colombia si sveglia e prova in tutti i modi a riacciuffare il pareggio, ma la palla incredibilmente non vuole collaborare. La fortuna sembra arridere solo ad Hagi, che alla mezz’ora compie un gesto incredibile. A trentacinque metri di distanza e dalla fascia sinistra vede Córdoba fuori dai pali e lancia una parabola a metà tra un tiro e un cross che beffa completamente il portiere.
Poco prima dell’intervallo la Colombia riesce finalmente a segnare, grazie ad un colpo di testa di Valencia. Ma non servirà a nulla: dopo una seconda frazione nuovamente sfortunata e frustante, ancora Răducioiu chiuderà definitivamente il match, sfruttando una goffa uscita di Córdoba. Colombia-Romania 1-3.
Stati Uniti-Colombia
Bastò soltanto una sconfitta per rompere il giocattolo perfetto di Maturana. Quei novanta minuti avevano rimescolato tutte le carte in tavola. Se prima si respirava soltanto pressione, ora a far da padrone tra i Cafeteros era il terrore. La squadra non era preparata ad una partenza talmente negativa. A destabilizzare l’ambiente contribuirono soprattutto alcuni eventi sconvolgenti. Luis Fernando Herrera, rientrando in hotel, venne a sapere che suo fratello era stato ucciso subito dopo la partita per le strade di Medellìn. Il difensore fu convinto soltanto dal compagno di reparto e amico Andrés Escobar a resistere e non tornare a casa. Lo stesso Herrera, alcuni mesi prima del mondiale, aveva affrontato il rapimento del figlio, restituito alla famiglia solo dopo il pagamento di un ingente riscatto.
Non finiva qui: si dice che sulle televisioni a circuito chiuso dell’Hotel Fullerton siano state trasmesse immagini di minaccia per l’intera squadra, registrate da diversi narcotrafficanti. I cartelli della droga avevano scommesso enormi somme di denaro sulla Nazionale e sul passaggio del turno. Allo stesso Maturana venne indirizzata una lettera personale per imporgli di non far giocare più il centrocampista Gabriel Jaime Gomez. Questi era infatti considerato un raccomandato, essendo fratello del viceallenatore, ed era ritenuto il responsabile principale della sconfitta. Nonostante non fosse mai stato condizionato dalle pressioni esterne, il commissario tecnico decise per la prima volta di obbedire, per non mettere a repentaglio la vita della propria famiglia e di quella di Gomez.
Se gioca Gomez facciamo saltare la sua casa e quella del CT Maturana.
La seconda gara non partì quindi sotto una buona stella. Gli Stati Uniti erano stati battuti diverse volte in amichevole e senza problemi, ma ora la storia era radicalmente cambiata. I colombiani avevano perso l’entusiasmo di un tempo e speravano solo che quell’incubo finisse presto. Prima del match nessuno parlava, la tensione era palpabile; qualcuno testimonia di aver visto persino Maturana aggirarsi piangendo negli spogliatoi. Ma non si poteva far altro che scendere in campo, nonostante la presenza di una spada di Damocle sopra le teste di ognuno di loro.
Al Rose Bowl sembra ripetersi esattamente quanto visto quattro giorni prima con la Romania. Ansia da prestazione, frustrazione e tanta, troppa, sfortuna. A subirne la dose maggiore è il malcapitato capitano Andrés Escobar al 35′. Palla persa dal centrocampo colombiano, con l’esterno John Harkes che da sinistra mette al centro un cross basso ed insidioso. El Caballero de la cancha si fionda giustamente in scivolata sul pallone, che sarebbe stato facilmente preda dell’avversario alle sue spalle. La visione è perfetta, ma il risultato è tragico. Óscar Córdoba non intuisce e segue la traiettoria del cross. Quando arriva la deviazione di Escobar, in porta non c’è nessuno a bloccare la palla, che scivola inesorabilmente in fondo alla rete. Autogol di Andrés Escobar, il primo della sua carriera.
L’epilogo: la tragedia
A chilometri di distanza, a Medellìn, proprio nel momento in cui la palla superava la linea di porta, un bambino iniziò ad agitarsi. Era il nipotino di Andrés che, con estrema lucidità, disse a sua madre: “Adesso uccideranno lo zio”. Un grido d’allarme, una paura dettata dalle nefaste immagini che circondavano la vita dei colombiani, anche dei più piccoli. Ma pur sempre una visione estremamente pessimistica e drastica. I familiari stessi non sapevano ancora nulla delle minacce subite dai calciatori.
Dopo quell’autogol le cose non migliorarono per i Cafeteros: quella partita venne persa per 2-1 e la vittoria contro la Svizzera si sarebbe rivelata completamente inutile. I ragazzi tornarono a testa bassa da una spedizione che avrebbe dovuto incoronarli campioni del mondo. Ma si trattava pur sempre di una eventualità facente parte del gioco. In una nazione normale la sconfitta avrebbe generato sconforto e delusione per un po’ di tempo, ma presto si sarebbe arrivati a voltare pagina. Smettendo di rimuginare sul passato e cercando invece di programmare il futuro. Lo stesso Andrés Escobar ne era convinto. Dopotutto il suo, di futuro, aveva in serbo grandi cose: il Milan aveva finalmente proposto un’offerta per portarselo in Europa, trovando in lui il sostituto naturale di Franco Baresi. Non sarebbe stato di certo uno sfortunato autogol a privarlo di quella possibilità:
La vita non finisce qui, dobbiamo andare avanti.
Purtroppo la Colombia del 1994 non era una nazione normale e Andrés non avrebbe mai coronato il sogno di giocare nel Milan. Nella serata del 2 luglio 1994 viene ucciso all’esterno di un locale della sua Medellìn. Nonostante i compagni e Maturana gli consigliassero di rimanere in casa, Andrés si fidava di quella che definiva “la sua gente”. Ma tra tante brave persone c’era anche qualcuno che voleva fargliela pagare per le scommesse perse in seguito all’eliminazione. Qualcuno che pensò bene di vendicarsi, rubando la vita di un ragazzo di soli 27 anni, “gentiluomo” dentro e fuori dal campo. Colpevole di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato.
La Colombia non deve consentire che i suoi migliori giocatori vengano espulsi dal campo di gioco della vita.
L’omicidio di Andrés Escobar segnò la fine del sogno colombiano. Con il calcio, i giocatori volevano dimostrare al mondo intero che nella loro nazione esistesse qualcosa di buono, di diverso dalla solita violenza e dal narcotraffico. Ma il 2 luglio 1994 riportò tutti alla triste realtà: neanche attraverso il calcio si poteva sfuggire da quel cancro malvagio. Un cancro che sarebbe stato curato soltanto con l’eliminazione dei cartelli e la fine di quell’epoca pregnante del sangue dei colombiani. Ma che, prima di essere estirpato del tutto, aveva deciso di portare con sé il più buono di tutti.