La carriera di Dani Parejo è stata per certi versi burrascosa, piena di soddisfazioni certo, ma anche di stop improvvisi e ripartenze inaspettate. Un paradosso per uno che in campo è così cerebrale, preciso, anche un po’ compassato. Al Villareal il centrocampista ormai trentaduenne sta vivendo quasi una seconda giovinezza. Emery lo ha trasformato nel direttore d’orchestra perfetto e perno principale del proprio gioco, in un asse inossidabile che parte da Pau Torres e arriva in avanti a Gerard Moreno. Un sistema che ha portato alla vittoria dell’Europa League e ai quarti di finale di Champions, destando stupore negli appassionati. Per Parejo, che in carriera ha raccolto meno di quanto meritava, l’occasione di potersi mettere in mostra su palcoscenici così importanti rappresenta quasi la correzione di un’ingiustizia.
Galactico, ma non abbastanza
La carriera del piccolo Daniel, detto Dani, ha avuto la sua prima svolta quando il ragazzo aveva 14 anni. Nato a Costada, nella comunità autonoma di Madrid, il Real lo puntò e riuscì a portarlo al servizio del proprio settore giovanile. Qui, tra gli altri, Parejo aveva un fan piuttosto importante che rispondeva al nome di Alfredo Di Stefano. Al leggendario attaccante dei blancos non erano sfuggite le doti tecniche e di gestione del pallone del centrocampista, che combinate con una gran forza fisica e una certa propensione al gol ne facevano un calciatore completo. C’erano insomma tutte le prospettive perché Parejo potesse affermarsi a Madrid.
Noi sappiamo che così non è andata. Negli anni a cavallo con il 2010 e oltre, per confrontare l’incredibile ascesa del Barcellona di Messi, il Real ha iniziato a investire somme sempre più ingenti per quelli che reputava top player. A farne le spese, talvolta, sono stati quindi i ragazzi del vivaio, specialmente se non disposti ad aspettare a lungo un’opportunità o ad occupare ruoli di ripiego. Nel 2008, mosso dalla volontà di sperimentare, e ovviamente di giocare, Parejo è partito alla volta dell’Inghilterra, destinazione QPR. I londinesi di Flavio Briatore giocavano la Championship, ma con l’obiettivo promozione dichiarato a inizio stagione. I sei mesi di Parejo in terra d’Albione furono tutto sommato buoni, anche se i ritmi e il gioco rapido e fisico della lega inglese non sembravano fare proprio per lui che è calciatore fin troppo spagnolo.
Il Real comunque lo richiamò dal prestito prima del tempo, complice una situazione infortuni complessa, concedendogli anche qualche spezzone fino a fine stagione. In estate si aprirono le porte di un altro prestito, questa volta senza bisogno neanche di cambiare appartamento. Alla dirigenza del Real bussò il Getafe, con cui i rapporti erano ottimi per via dell’affare Granero. Nel suo primo anno con gli Azulones Parejo totalizzò 7 gol e 5 assist, contribuendo a una storica (seconda in assoluto) qualificazione alla neonata Europa League. Impiegato spesso da mezzala, ma con sprazzi anche da trequartista, era difficile non riconoscerne il grande tiro e la qualità millimetrica nei passaggi. Quel Getafe era poi una squadra di grande qualità dalla cintola in su, con calciatori con cui veniva naturale dialogare come Albin, Pedro Leon e Soldado.
Nell’annata successiva le cose andarono meno bene, con la squadra che si ritrovò schizofrenicamente a rischiare la retrocessione, ma Parejo si affermò da titolare in pianta stabile chiudendo con 3 gol e 5 assist in più di 40 presenze. In qualsiasi altro contesto spazio-tempo si sarebbe parlato di lui come di uno dei più importanti talenti del momento, ma in Spagna in quel periodo si producevano calciatori con ritmo da catena di montaggio. Il mediano del Getafe non sfuggì comunque agli occhi della dirigenza del Valencia, che decise di acquistarlo per una cifra intorno ai 6 milioni.
La storia (in)finita
Diventare una bandiera, se cresci da tutt’altra parte, non rientra probabilmente nei piani di vita di un calciatore. Specialmente se il tuo inizio con la nuova squadra ha contorni molto bruschi. Nella sua prima annata valenciana Parejo collezionò soltanto 16 presenze in Liga, coperto in quasi tutti i ruoli del centrocampo da calciatori reputati più pronti, in particolare Banega e Tino Costa. Ironicamente l’allenatore di quella squadra era Emery, di cui è oggi il messaggero in campo, ma con cui al tempo il feeling non scattò.
Fu soltanto col terzo allenatore della inizialmente travagliata annata successiva, Ernesto Valverde, che le cose cambiarono. Parejo iniziò a giocare con più continuità, utilizzato di volta in volta dove poteva tornare più utile, giocando partite sia da mediano che da mezzala (e più di rado da trequartista). Con il suo maggiore impiego coincise anche una svolta per il gioco e i risultati della squadra, a tal punto da portare i valenciani al quarto posto in classifica.
Il 2013-2014 rappresenta uno spartiacque molto significativo per la storia recente del club, e a suo modo anche per Parejo, che sarà destinato a diventarne il volto più rappresentativo. Per la prima volta dagli anni 90 il Valencia, ancora una volta con un allenatore cambiato in corsa, fallisce la qualificazione a una competizione europea. Allo stesso tempo la squadra si rese protagonista di una splendida cavalcata in Europa League, frenata soltanto dal Siviglia. Per Dani Parejo quella sconfitta sarebbe stata vendicata soltanto anni dopo e dopo un’altra grande delusione. A livello individuale ci sono state anche delle gioie però, come la prima presenza da capitano, indossando la fascia nello scontro con il Valladolid. Un riconoscimento giusto a un calciatore che era ormai leader tecnico ed emotivo per compagni e tifosi.
L’anno successivo fu forse uno dei più felici nella carriera di Dani Parejo. Sicuramente il più prolifico, con un bottino di 11 gol e anche 8 assist, per non farsi mancare niente. La coppia di mezzali con Andrè Gomes costruita da Nuno Espirito Santo funzionava a meraviglia. I due si completavano, capaci di palleggiare in modo fitto e di inserirsi con tempismo in area di rigore. A Parejo il tecnico portoghese lasciò anche la fascia di capitano, elevandolo così a uomo simbolo in maniera definitiva. Il Valencia chiuse la stagione al quarto posto, ma i problemi economici della società si facevano sempre più insistenti. In soccorso al club era arrivato nel frattempo l’imprenditore Peter Lim, ma la squadra stava sprofondando in un pericoloso limbo.
La stagione 2015-2016 fu, a tutti gli effetti, disastrosa. Sulla panchina del Valencia si succedettero 4 allenatori senza nessun particolare successo. I numeri di Parejo furono nuovamente eccellenti, 11 gol e 6 assist per lui, ma qualcosa sembrò essersi rotto anche con i tifosi. A gennaio il centrocampista chiese, non accontentato, la cessione. Dopo una serie di prestazioni sottotono sue e della squadra Gary Neville decise di togliergli i gradi da capitano, cedendoli a Paco Alcacer.
Le cose si complicarono ulteriormente l’anno dopo, quando dopo un altro inizio travagliatissimo e con gli ennesimi cambi in panchina. Da fine settembre fino alla volta del nuovo anno l’arduo compito di risollevare la squadra toccò a Cesare Prandelli, che col senno di poi fallì in modo piuttosto fragoroso nella missione. Poco prima del suo addio un caso scosse l’ambiente già travolto dalle macerie, quando su Instagram comparvero alcuni video di Parejo in discoteca mentre da ubriaco insultava l’allenatore con alcuni amici. Solo 10 giorni dopo il tecnico italiano diede il suo addio alla squadra, ma la situazione di Parejo con tifosi e società sembrava irrimediabilmente incrinata. In realtà nel girone di ritorno tornò a sfoderare buone prestazioni da regista davanti alla difesa e a vestire anche spesso la fascia da capitano, senza che però smettesse di aleggiare su di lui lo spettro del calciomercato.
L’ennesimo plot twist di questa storia è, per una volta, positivo. Sulla panchina del Valencia nel giugno 2017 si accomoda Marcelino. Nell’ordinatissimo 4-4-2 del tecnico Parejo si trovava a meraviglia, potendo gestire il ritmo del gioco a proprio piacimento coperto da un sistema difensivo a dir poco roccioso. In un battito di ciglia il centrocampista era diventato nuovamente capitano a tutti gli effetti e aveva recuperato il tormentato, ma pieno d’amore, rapporto con la tifoseria. Alla fine di quella stagione il Valencia arrivò quarto, con Parejo di nuovo in grado di far segnare sul tabellino numeri di tutto rispetto, 8 gol e 10 assist, alla seconda annata consecutiva in doppia cifra per passaggi vincenti.
Nuovamente competitivo, il Valencia di Marcelino dimostrò di poter dire la sua anche quando impegnato su più fronti. La campagna in Champions fu negativa, ma il terzo posto nel girone permise al Valencia l’approdo alle fasi finali di Europa League. Qui, di nuovo, i pipistrelli dovettero fermarsi in semifinale, questa volta al cospetto dell’Arsenal. Per Parejo un’altra delusione cocente che sembrava prendere i contorni di una maledizione.
Poco male però, perchè di lì a poco il ragazzo di Costada potè alzare per la prima volta un trofeo con la squadra con cui era diventato grande. Il 25 maggio contro il Barcellona, al Benito Villamarin di Siviglia, il Valencia si impose nonostante i pronostici grazie ai gol di Gameiro e Rodrigo, conquistando la Copa del Rey. Una gioia enorme per i tifosi, finalmente di nuovo spettatori di un trofeo. Una gioia enorme per il capitano, da anni dato per partente e oramai all’ottava stagione da giocatore del Valencia. Per il calcio di oggi, quasi un’eternità.
Il sogno però non era destinato a durare, e il 2019-2020 iniziò con tutti i crismi del ridimensionamento. Tornato all’abitudine dei numerosi cambi in panchina, il Valencia non riuscì mai a schiodarsi dal nono posto, né a farsi notare particolarmente nelle coppe. Parejo giocò ancora una buona stagione, 10 gol e 6 assist, e nelle interviste andava dichiarando di voler chiudere la carriera al Mestalla. A non essere d’accordo, abbastanza clamorosamente, era però la società, ancora vessata da problemi economici e colpita ulteriormente dalle interruzioni e chiusure causate dal Covid.
Così il Valencia decise di far partire, nell’estate del 2020, Parejo e il compagno di mediana Coquelin alla volta del Villareal, il tutto a titolo gratuito. Una scelta impopolare per chiudere una storia travagliata, ma intensa e duratura come poche lo sono state negli ultimi 10 anni.
We all live in a yellow submarine
Difficilmente la parentesi di Parejo al Villareal raggiungerà i picchi di poesia e forza del suo lunghissimo tempo a Valencia. Di certo però il matrimonio tra il centrocampista iberico e la squadra di Fernando Roig sta funzionando particolarmente bene. Innanzitutto è curioso che qui Parejo abbia ritrovato Emery, con cui le cose 10 anni fa non avevano per niente funzionato. Indubbiamente il momento e la maturità di entrambi hanno aiutato.
Rispetto a prima Parejo è un giocatore meno propenso a cercare e trovare la via della porta, mentre invece ha mantenuto l’efficacia nel mandare in porta i compagni. Emery gioca spesso con il 4-4-2, un modulo in cui già in passato Parejo ha avuto modo di esaltarsi alla corte di Marcelino. Anche qui come in quel caso chi gli è accanto, Capoue o Coquelin solitamente, ha maggiore facilità di corsa e aggressività per liberarlo da grossi grattacapi difensivi. Parejo infatti, ora ancor di più che in passato, è indubbiamente un giocatore lento e non troppo dinamico. Compensa in parte con l’intelligenza e le letture, ma ha anche bisogno di essere coperto da un’organizzazione ben precisa. I suoi numeri per contrasti, duelli e recuperi sono di bassa lega per il ruolo che ricopre. Questo a testimonianza del minuzioso lavoro di Emery per non renderlo un minus.
Poi però c’è quello che succede quando il possesso non ce l’hanno gli altri, e quello è un piccolo miracolo che si ripete ogni 3 giorni circa. Hai sempre la percezione che sia sotto-ritmo e che in partite ad alta intensità possa collassare e invece puntualmente riesce a spuntarla. Come se la partita rallentasse e accelerasse semplicemente quando lo decide lui. Tocca tanto il pallone, lo gioca bene in avanti e con una precisione al millimetro nei passaggi. Gioca molti palloni progressivi, con una distanza coperta ben sopra la media, ed è complicatissimo togliergli la sfera dai piedi. Insomma, per usare un’espressione di spallettiana memoria, dargli il pallone è come metterlo in banca.
Perdonerete la ripetitività, ma della sua dote nel regalare assist è difficile trattenersi dal parlare. In questa stagione è già a quota 8, ma c’è un numero che credo esprima meglio il livello su cui ci troviamo. Nell’ultimo anno Dani Parejo ha tenuto una media di 0,27 assist per 90 minuti. Tra i centrocampisti nei cinque migliori campionati europei si colloca nel 98esimo percentile. In cima alla classifica c’è Luis Alberto, un calciatore con ben altre caratteristiche.
Se allarghiamo il discorso agli expected assists le cose cambiano poco. Le medie dicono 0,20 per 90 minuti, 97esimo percentile. Davanti a tutti Kevin De Bruyne, il migliore al mondo, che però di mestiere fa la mezzala offensiva. Parejo semplicemente vede il gioco a 360 gradi, sente i movimenti dei compagni e ha nel piede la sensibilità necessaria per servirli. Poi è anche un ottimo tiratore di calci piazzati, il che di certo aiuta.
Nell’impresa del Villareal che ha portato alla vittoria dell’Europa League l’anno scorso è stato assoluto protagonista, togliendosi anche un sassolino dalla scarpa dopo due finali solo sfiorate. Non è andato sotto neanche contro il Manchester United, che teoricamente avrebbe dovuto imprimere un’intensità da Premier League alla partita. Nel doppio scontro con la Juve di qualche settimana fa le cose sono andate in modo simile. All’andata Parejo ha pareggiato il gol di Vlahovic, mentre al ritorno ha aiutato a gestire una partita dominata dal Villareal.
La sua affermazione anche in Europa è una notizia meravigliosa per chi ne ha sempre riconosciuto il talento. In un calcio in cui a volte tecnica e visione di gioco sembrano ad appannaggio del gioco che fu Dani Parejo è un faro. Un calciatore che controlla il ritmo e non ne è mai sopraffatto. Come se avesse sempre il tempo tra le mani, e invece lo ha tra i piedi.