Perché amiamo il calcio? Perché al calcio piace scrivere storie, creare personaggi e consegnarli all’eternità. Daniele De Rossi è uno di questi: capopopolo della Roma giallorossa ed eroe della Nazionale italiana, icona romantica trapiantata nel calcio moderno al quale ormai ci siamo nostalgicamente arresi.
Nella vita quello che conta è coronare i propri sogni.
Un mantra che lo ha accompagnato per tutta una carriera lunga quasi vent’anni. Riviviamola, capitolo per capitolo.
Capitan Futuro
Daniele De Rossi ha marchiato a fuoco la storia della Roma: 616 presenze, 63 gol e 56 assist. Ma il suo cognome gridava e veniva gridato per Trigoria anche prima del suo approdo nel club. Suo padre Alberto De Rossi giocò dal 1974 al 1977 nelle giovanili giallorosse, non riuscendo però a conquistarsi una chance con i grandi. Dopo aver solcato i campi di C1 e C2, nel 1997 torna a Roma per farsi carico del ruolo di responsabile del settore giovanile della squadra che lo ha cresciuto. Qualche anno più tardi sarà proprio lui a spingere per aggregare alla Primavera il figlio, ai tempi attaccante dell’Ostiamare.
Ovviamente le voci sono incessanti: merita veramente quella maglia oppure è lì solo per la raccomandazione di suo padre? Se il tempo darà ragione al talento di Daniele, parte del merito va riconosciuta a Mauro Bencivenga, che lo fece arretrare dall’attacco al centrocampo, dove diventerà uno dei più forti della sua generazione (la stessa, tanto per citarne due, di Andrea Pirlo e Gennaro Gattuso).
Fabio Capello lo nota e il 9 aprile 2001 lo convoca per la prima volta in prima squadra. In quel Fiorentina-Roma 3-1 Daniele non mette piede in campo, ma è solo questione di tempo perché l’estate successiva viene promosso definitivamente in prima squadra. L’atmosfera del suo primo spogliatoio giallorosso è un qualcosa di magico: ci sono il Re Leone Batistuta, Marco Delvecchio, Francesco Totti, un giovanissimo Antonio Cassano, ma soprattutto c’è lo Scudetto cucito sulla maglia da gioco. Fa il suo esordio assoluto il 30 ottobre 2001: la cornice è quella dello Stadio Olimpico, il match è un Roma-Anderlecht di Champions League. Venti minuti al posto di Ivan Tomić, tanto basta per fare lo step che suo padre non era mai riuscito a fare. Quel giorno è l’inizio di tutto. I tifosi non hanno dubbi: lui è Capitan Futuro.
Il legame con i romanisti cresce col passare delle stagioni. Certo, a nessuno sarebbe dispiaciuto qualche successo in più per legittimare questa unione (2 Coppa Italia e 1 Supercoppa Italiana potrebbero effettivamente sembrare poco per la caratura del giocatore), ma è proprio per questo che l’amore della Sud per De Rossi è incalcolabile. È uno di loro, un “romano de Roma“, romanista fino al midollo, che porta in campo i sogni di una tifoseria intera. E quando nel 2009 vince il titolo di Miglior Giocatore Italiano AIC e le sirene inglesi iniziano a farsi sentire, lui scaccia tutti i fantasmi in un colpo:
Questa è casa mia, andare via per me sarebbe un dramma. Sono di proprietà dei tifosi della Roma. E a fine carriera mi troverete lì tra loro, col panino e la birra, a tifare i miei amici.
Il popolo romanista ha avuto la fortuna di veder giocare insieme Totti e De Rossi. Ovvio, però, che il Pupone è in grado di generare un cono d’ombra non da poco e uscirne è difficile anche per uno come De Rossi. Si sono voluti bene come fratelli, sempre in sintonia, ma dall’esterno il rapporto sembrava sbilanciato: da una parte il capitano, dall’altra il vice; da una parte l’ottavo re di Roma, dall’altra il suo braccio destro. Come fosse un epiteto fisso coniato da Omero per i suoi eroi, il soprannome Capitan Futuro ha accompagnato Daniele forse più di quanto lui stesso si sarebbe mai aspettato. Ma nessuno è eterno. Il 28 maggio 2017 è il giorno in cui Totti abdica, sveste corona, scarpini e gli cede lo scettro sotto forma di fascia da capitano. L’aveva indossata già un sacco di volte, ma ora sarebbe stato diverso, chiamato a farlo da unica certezza di un’Olimpico orfano che sperava “de mori’ prima“.
La sua prima stagione da leader indiscusso passerà agli annali. La Roma di Eusebio Di Francesco non brilla in Serie A (dove comunque arriva al 3° posto) ma si regala un favola in Champions League: prima vince il girone di ferro obbligando il Chelsea di Antonio Conte al secondo posto e l’Atletico Madrid del Cholo Simeone all’eliminazione, poi supera lo Shakthar Donetsk e prenota un appuntamento con la storia. La doppia sfida dei quarti di finale col Barcellona rimarrà per sempre nella memoria comune dei romanisti, con il 4-1 del Camp Nou rimontato a domicilio grazie a Dzeko, un rigore di De Rossi e l’incornata di Manolas. Il sogno si infrange contro il Liverpool, ma la Lupa ha venduto carissima la pelle e nessuno può dire il contrario.
L’ultima stagione è stata segnata da controversie e dallo scambio di stoccate con la società per il mancato rinnovo. Anni di servizio e amore incondizionato non si cancellano così facilmente. Il 26 maggio 2019 gioca la sua ultima partita contro il Parma e dice addio alla Roma. A fine gara non si nasconde:
Il mio unico rimpianto è quello di poter donare alla Roma una sola carriera.
E vi ricordate di quella sua promessa? Il settore ospiti, il panino, la birra? L’ha mantenuta. Parrucca bionda, neo sul naso e occhialoni per non farsi notare. Può anche non sembrare lui, ma il cuore che ha portato in Curva Sud in occasione del derby di gennaio 2020 è lo stesso che ha battuto per vent’anni sotto la maglia giallorossa.
Il De Rossi xeineze
Il mio cuore è per la Roma, però fin da quando ero piccolino mi piaceva il Boca: forse per Maradona o forse per i tifosi appassionati. Un grande club nel quale è giusto credere, e il fatto che sia stato fondato da italiani mi fa sentire a casa. Poi c’è lo stadio, La Bombonera che che mi ha fatto innamorare. Mi piacerebbe andare in America e salire quelle scalette con i giocatori del Boca. Sarebbe un immenso piacere.
Dopo il doloroso distacco dalla Roma De Rossi decide di rimettersi in gioco. Sul piatto c’è l’offerta della Fiorentina, ma dall’Argentina arriva una chiamata irrifiutabile: il Boca Juniors. È il suo sogno nel cassetto, simpatizza gli Xeinezes da una vita e l’idea di giocare in azul y oro gli fa venire i brividi. Ma ha senso prendere e partire, a 36 anni, mettendo un oceano tra lui e la sua famiglia? Considerando che quella sarebbe stata l’ultima chiamata per salire sul treno dei sogni, per togliersi quello sfizio, la scelta di De Rossi di firmare per il Boca è più che comprensibile. E tutto sommato anche i tifosi della Capitale lo sostengono: per alcuni è tutta colpa della dirigenza, Daniele è libero di fare quello che crede; per altri l’importante è che si unisca ad una squadra che non affronterà mai la Roma.
L’esperienza argentina dura veramente poco, 164 giorni dalla sottoscrizione del contratto alla rescissione consensuale. Solo 7 presenze tra Primera División, Copa Argentina e Copa Libertadores, ma di cartoline il centrocampista italiano ne ha collezionate diverse. Come quella del suo esordio, il 13 agosto 2019 all’Estadio Único Ciudad de La Plata contro l’Almagro (nella stessa sera trova il suo primo e unico gol per il Boca). Oppure come quella della sua prima volta a La Bombonera, solo sei giorni più tardi. Finalmente sale quei gradini, i canti dei tifosi lo avvolgono e i cameraman fanno a spallate per assicurarsi la visuale migliore e cogliere ogni singola smorfia sul suo volto. Nessun titolo, nessun impresa e nemmeno una stagione per intero. Nulla da guardare qui, solo un uomo che realizza un suo sogno.
Di recente De Rossi ha fatto sapere che la sua strada e quella del Boca Juniors sono destinate ad incontrarsi di nuovo: con gli scarpini appesi al chiodo, tornerà a Buenos Aires per diventare l’allenatore della squadra argentina. È solo questione di tempo.
Redenzione azzurra
Daniele De Rossi non è stato una leggenda solo per la Roma, ma anche per la Nazionale italiana. Campione d’Europa U21 nel 2004 e poi Campione del Mondo nel 2006. E con che coraggio, poi, si è presentato sul dischetto durante la lotteria dei rigori in finale contro la Francia. Destro secco e “Sì! Sotto l’incrocio!” di Fabio Caressa. Sarebbe stato ingiusto dopo tutti questi successi chiudere la parentesi azzurra con l’istantanea di Italia-Svezia: all’andata era stato proprio lui a deviare sfortunatamente in rete il tiro di Johansson; al ritorno litiga col CT Ventura che voleva mandare in campo lui e non un attaccante nonostante la situazione di svantaggio, assiste all’apocalisse del calcio italiano e annuncia il suo ritiro.
Coverciano lo riaccoglie calorosamente a marzo 2021, giusto in tempo per entrare a far parte dello staff che seguirà la nazionale a Euro 2020. È lì per imparare da Roberto Mancini, l’uomo che ha saputo risollevare l’Italia grazie a uno stile di gioco moderno scaccia-stereotipi. Nell’organico ci sono anche Gianluca Vialli e Lele Oriali, di sicuro l’esperienza non manca. De Rossi diventa il fratello maggiore dei convocati, un maestro per uno dei reparti mediani più completi degli ultimi anni: Jorginho, Verratti, Barella, Cristante, Pessina e Locatelli. Proprio il giocatore del Sassuolo viene spesso pizzicato dalle telecamere mentre gli chiede consigli e cerca di soffiargli qualche segreto. De Rossi è ufficialmente passato dall’altra parte della cattedra.
L’avvicinamento all’Europeo non è dei migliori a causa della positività al Coronavirus. È un limbo che dura oltre un mese nel quale De Rossi non ha neanche la fortuna di rimanere asintomatico, anzi viene addirittura ricoverato per polmonite acuta all’ospedale specializzato Spallanzani. Scampato il pericolo, vive dall’interno l’emozionante avventura che riporta gli azzurri sul tetto d’Europa dopo 53 anni. Da Roma a Londra, dalla Turchia all’Inghilterra. Un trionfo da impazzire.
🤣 Daniele De Rossi loving life in the Italy dressing room! 🇮🇹👏@azzurri | #EURO2020 pic.twitter.com/KUEvdUqVmu
— UEFA EURO 2020 (@EURO2020) July 12, 2021
La scivolata sui tavolini nello spogliatoio a Wembley e le foto con la coppa in mano sono il giusto epilogo per chi ha dato tutto se stesso alla causa azzurra, per chi ha saputo trasformare lacrime di disperazione in lacrime di gioia. Una storia degna di essere chiamata icona.