È il giugno 1997 e all’aeroporto di Lisbona c’è un uomo in completo nero, camicia bianca, scarpe di cuoio. Prova a guadagnare aria tormentando la cravatta, cercando di allargarne il nodo, ché lì dentro fa un gran caldo. Nell’attesa di un volo dal Brasile, si sventola col cartello che ha in mano, due nomi scritti sopra. Ciò con cui sta cercando di respirare meglio recita:
Celso das Neves (Cajú),
Anderson Luis de Souza (Deco)
Quando i due ragazzotti – da poco calciatori professionisti – atterrano, una frettolosa accoglienza verbale li scorta verso l’uscita dall’aeroporto, mentre le rotelle delle pesanti valigie rumoreggiano sul pavimento zigrinato. All’apertura delle porte automatiche, la scena che si para dinnanzi ai loro occhi è proprio quella che avevano sognato.
Gli ultras del Benfica sono assiepati là fuori, intonano cori, trasmettono energia. Deco e Cajú si danno di gomito scambiandosi sguardi increduli, gli zigomi che si fanno altissimi.
Ma com’è che nessuno li calcola di striscio?
Maledette aspettative
Perché tutta quella gente non è lì per loro. I tifosi stanno infatti aspettando un altro arrivo, quello di Paulo Nunes, attaccante proveniente dal Grêmio che in quegli anni tanto aveva vinto sotto la guida di Luiz Felipe Scolari. Per Deco e Cajú c’è quindi giusto il tempo di capire che quelle vibrazioni emanate dalla marea rossa non sono destinate a loro, prima di salire in macchina.
Nessuno li conosce, nessuno li aspetta.
Oddio, non proprio “nessuno”. Quando montano, tra l’eccitato e il guardingo, sulla Renault 19 con autista messa loro a disposizione, i ragazzi cominciano a scrutare dai finestrini la strada che dovrebbe portarli da lì all’Estádio Da Luz. Eppure continuano a costeggiare il Tago verso nord per una ventina di kilometri, invece che lasciarselo alle spalle. Davanti ai loro occhi si susseguono le direzioni per Alverca, mentre quelle per Lisbona rimangono sull’altro lato della strada. Realizzano quel che sta accadendo quando posteggiano nei pressi dell’impianto sportivo da settemila posti, così distanti dal paradiso promesso del Da Luz.
Ad attenderli ci sono proprio i dirigenti l’Alverca, club satellite del Benfica in Segunda Liga, e una sensazione di amaro in bocca dura da buttare giù per due rampanti 19enni provenienti dal Corinthians, gigante del calcio brasiliano. Certo, se i trascorsi che li legavano erano simili, i rispettivi futuri prenderanno tutt’altre strade. Mentre Cajú continuerà a vestire la maglia dell’Alverca per un bel po’ di tempo, Deco scalerà vette altissime, facendo innamorare un po’ tutti della sua tecnica squisita e intelligente, del suo modo smaliziato di vedere e pensare calcio, del suo passo felpato e ciondolante.
Nonostante l’immediata percezione di discesa verso un inatteso purgatorio, Deco fa fuoco e fiamme nella sua stagione in riva al Tago. Il club conquista infatti la prima promozione in sei decenni di esistenza – trascorsi facendo la spola fra il semi-professionismo e la serie cadetta – grazie alle 12 reti e agli 11 assist del brasiliano. Se l’impatto professionale di Deco col Vecchio Continente è di quelli secondari ma positivi, non si può dire lo stesso del lato più strettamente personale.
Lacrime di nostalgia e di solitudine bagnano i primi mesi lusitani del ragazzo con la faccia dai tratti già di per sé malinconici – le sopracciglia folte e gli occhi piccoli, gli angoli della bocca leggermente calanti – che non sa a chi rivolgersi per cercare un aiuto.
In salita o in ascesa?
Il destino decide allora di vestire i panni di un impiegato dell’Alverca. A Deco viene comunicato di un giovane agente portoghese, da poco nel mondo delle procure calcistiche, che ha chiesto di poterlo rappresentare. Pensai “vabbè, non ho nessuno, firmerò con lui”, dirà poi lo stesso giocatore che, spinto ugualmente da solitudine e opportunità, decide di incontrare questo tale. Quello fra Deco e Jorge Mendes è uno di quei matrimoni che a posteriori si possono definire stabili, felici e altamente fruttuosi, per entrambe le parti.
Non ero felice in Portogallo, volevo tornare in Brasile. Ma conoscerlo mi fece pensare che a quel punto valesse la pena rimanere.
E quindi Deco rimane, forte della fiducia incondizionata riposta in lui da Mendes, il futuro agente più potente del mondo. Che per lui vola in Brasile su un aereo scassato per risolvere un’intricata questione di diritti contrattuali. Lo scopo ultimo è portare Deco via dal Benfica perché il club, nonostante la stagione all’Alverca, non appare più interessato.
Il motivo è anche piuttosto facile da individuare: porta imponenti baffi, un marcato accento scozzese e il nome di Graeme Souness. Fa l’allenatore al Benfica, e la sua riluttanza al guardare ai giovani del campionato locale porta Mendes e Deco a spingere per l’addio, cosa che le Aquile non ostacolano.
Si concretizza così, nel lassismo del club, la cessione del giocatore al Salgueiros. La vicenda sarà a posteriori marchiata come un errore di portata storica. Per dirla con le parole di Toni Oliveira, scout ed ex DS del club:
Fu come vendere un lingotto d’oro al prezzo di una barra di ferro.
Deco, da apprendista stregone a Mago
Il Salgueiros è il piccolo club – di prima divisione – che Mendes individua come rampa di lancio per il suo assistito, promettendo al Presidente una veloce rivendita nel giro di sei mesi. In altre parole, il procuratore si pone coscientemente sotto una spada di Damocle mettendo in gioco la sua credibilità, ovvero la base della sua professione.
E, a dispetto di un infortunio muscolare e di così poco tempo a disposizione per mantenere la promessa, la veloce rivendita arriva. Giunge dopo che Deco, a dicembre, gioca una partita contro il Porto in cui riesce a muovere tutta la squadra da solo, come un grande burattinaio. Pochi giorni più tardi, Mendes può mantenere la sua promessa: Deco ha impressionato al punto tale da meritarsi la chiamata proprio dai Dragoni di Oporto.
In una recente discussione sui luoghi comuni, il mio lusitano amico Murilo ha tirato fuori un detto che prova a spiegarne alcuni sulle principali città portoghesi. «Lisboa diverte-se e o Porto trabalha» è l’estratto che serve ai nostri fini. Lisbona si diverte, si sciala, mentre Oporto lavora.
Se nella Capitale si possono permettere di scartare pietre preziose grezze, gioielli non finemente lavorati, a Oporto si è imparato a riconoscerle e a lavorarle, portandole al massimo splendore possibile. Da Paulo Futre, passando per Maniche, fino a toccare anche la panchina con José Mourinho, l’F.C. Porto ha mostrato una capacità di gestione del talento seconda a pochi, sicuramente non ai rivali di Lisbona. Nel caso di Deco, 13 partite col Salgueiros bastano alla dirigenza biancoblu per convincersi che nella capitale potrebbero aver preso un grosso abbaglio.
Coi Dragões, Deco costruisce la sua eroica epopea, nonostante per il primo triennio trionfi nelle sole Coppe. Se per qualcuno questo poteva significare un buon compromesso, per Deco no, la cosa era frustrante.
In tre anni non ero riuscito a vincere il titolo: stavo male, ero inconsolabile.
E allora, nel gennaio 2002, la panchina della squadra biancoblu cambia padrone. Machado viene cacciato e al suo posto viene ingaggiato tale José Mourinho da Setúbal, con un fugacissimo passato al Benfica e un’ottima impressione all’União Leiria. È la chiave giusta che gira nella toppa.
I metodi, l’attenzione al dettaglio e il carisma rendono la mentalità di Mourinho contagiosa per i suoi giocatori, che danzano spediti verso il titolo sin dall’inizio della stagione seguente. Nel sistema tattico del futuro Special One, Deco rappresenta la punta del diamante schierato a centrocampo, il responsabile della gestione del ritmo e della manovra. È schierato lì, da 10, da fantasista e da legante con l’attacco, che comincia ad essere conosciuto e apprezzato in tutto il Continente. È da lì che respira il Porto con cui Mourinho, soddisfatta la fame di trionfi locali, prepara l’assalto all’Europa. Sarà una guerra-lampo.
Nel 2002/2003 il Porto conquista la Coppa UEFA anche grazie a una prestazione visionaria di Deco – l’assist ad Alenitchev è uno di quei gesti comfort che mi placherebbe anche dopo aver litigato con mezzo mondo. La Champions dell’anno successivo racconta invece una storia che intreccia caparbietà e fortuna, tra il gol all’ultimo minuto a Old Trafford e l’incrocio col Monaco all’ultimo atto.
La finale di Gelsenkirchen è una delle più inaspettate della storia recente della Champions League, un’ode alle gesta degli underdogs. Monaco-Porto finisce 0-3, Deco segna e viene nominato MVP della competizione mentre Mou, in uno degli scatti che compongono la mistica dello Special One, osserva quasi accigliato i suoi che alzano la coppa al cielo.
Il riconoscimento dalla UEFA quale Centrocampista dell’Anno rappresenta l’ingresso in società, il battesimo ufficiale nel mondo dei grandi giocatori per Deco, che a Oporto hanno investito come O Mago.
Ma, conquistata la Champions, per lui è il momento di concentrare l’attenzione sugli Europei. A Oporto Deco, oltre a diventare grande, è infatti diventato cittadino portoghese, potendo far leva sulla sua ascendenza. Sulla questione di convocarlo per il torneo, l’opinione pubblica si è però divisa in fazioni. Un personaggio carismatico e ingombrante come Luís Figo – tra l’altro compagno di Nazionale – si esprime così nella conferenza stampa precedente l’esordio:
se sei cinese, beh, devi giocare per la Cina
La sconfitta in finale contro il muro greco eretto da Rehaggel è il grosso bastone fra le ruote di una stagione altrimenti perfetta.
Saper voltare pagina
Il dispiacere di Deco viene alleggerito nel giro di qualche giorno da Frank Rijkaard e il Barcelona. L’opera di convincimento da parte di Mendes nei confronti del direttivo culé è di quelle da impresa diplomatica. L’agente bombarda per un anno intero i rappresentanti blaugrana, che alla fine si convincono a versare i soldi necessari al Porto, già ampiamente soddisfatto dalle offerte di Bayern Monaco e Chelsea.
L’insistenza dell’agente col Barça si spiega con la ricerca della massima soddisfazione del suo assistito. Deco è infatti cresciuto nel mito di Laudrup, Stoichkov e Romario, riempiendosi gli occhi con l’immagine del Camp Nou sempre grasso, stracolmo. E quindi, compiuto un sogno, non resta che farne di nuovi, sempre da protagonista.
Deco fu un successo del Barça. Ho sempre detto che ha insegnato a Xavi e Iniesta a competere. Talenti enormi, che hanno avuto la fortuna di avere al loro fianco il miglior Deco.
Parole e musica di Joan Laporta, presidente del Barcelona vincitore di quattro Liga, due Coppe del Re, tre Supercoppe spagnole, due UEFA Champions League, una Supercoppa UEFA e una Coppa del mondo per club FIFA. Uno che, insomma, negli anni si è abituato bene – molto bene – e che per il vincere ha un certo occhio. Puyol, Xavi, Iniesta, gli alfieri della – forse di sempre – migliore generazione del Barcelona e della Spagna, cominciano a prendere consapevolezza e a vincere non solo dal momento dell’arrivo di Deco, ma anche grazie all’arrivo di Deco. L’abbondanza di talento offensivo e il dogma societario del 4-3-3 lo dirottano a centrocampo, qualche metro indietro rispetto alla posizione dalla quale aveva ammaliato il continente sino ad allora.
Cosa che continuerà a fare, calandosi meravigliosamente in un contesto che vive un crescendo dai ritmi inavvicinabili da qualunque altra società, da qualunque altra squadra. La sua avventura in blaugrana termina solo quando è il momento di cedere il ruolo e il passo, sempre più frequentemente, a un certo Andrés Iniesta. Che al pari di Deco non può dire di giovarsi di un fisico statuario, ma al quale sopperisce con una velocità cerebrale e un dinamismo fuori scala, oltre a poter contare su sette anni in meno in sede d’anagrafe.
Dopo una stagione negativa, in cui il Barça arriva terzo Deco, assieme a Eto’o e Ronaldinho, è uno degli epurati dall’avvento di Guardiola (e del guardiolismo) sulla panchina della prima squadra blaugrana, uno dei passaggi cruciali del ventunesimo secolo calcistico. Un addio che si consuma senza drammi né polemiche, e che lo stesso Deco riconosce come fisiologico, normale, in un contesto iper-competitivo come quello dei top club.
Il catalogo dei desideri di Deco
Da top club a top club, Deco accetta l’offerta del Chelsea, sfuggendo un’altra volta alle mire di Mourinho che – dopo averlo cercato per portarlo proprio a Stamford Bridge quattro stagioni prima -, l’aveva messo nel mirino per la sua avventura interista. E invece no, Deco si accasa appunto in Premier League, un ambiente in cui dichiarerà di aver sempre desiderato giocare.
L’esperienza blues comincerà bene, con un gol dalla distanza all’esordio e grandi aspettative da parte dei tifosi. Ma continuerà solo per una cinquantina di partite, sui binari di ripetuti infortuni e problemi di spogliatoio, punteggiate però dalla conquista di una Premier, due Coppe d’Inghilterra e un Community Shield. Medaglie che a morderle aggiungono un retrogusto ferroso a un’esperienza più agra che dolce, che si conclude con un’altra quieta separazione.
Finita l’esperienza coi blues, Deco sente che all’Europa non ha da chiedere più niente. Salire alle stelle col Porto, vincere col Barcelona, giocare in Premier: check, check, check. Una vita calcistica fondata sull’ascesa e sul togliersi soddisfazioni, da terminare assecondando ancora una volta la propria volontà.
Giocare al Maracanã, accettando l’offerta della Fluminense, vincere pure in patria, da dove percepiva di essere venuto via troppo presto, alla quale voleva regalare un po’ di sé. Due Brasileirao e un tot di fibre muscolari maltrattate dopo, Deco dice grazie a tutti e annuncia il ritiro.
Un viaggio acquista significato soprattutto quando finisce
Il 25 Luglio 2014 il do Dragão si riempie nuovamente di calore, d’amore per Deco. Ha radunato le due squadre leggendarie della sua carriera – il Porto del 2004 e il Barça del 2006 – nello stadio che gli ha messo la corona in testa, nello stadio che lo omaggiava del coro:
Es el número diez
y finta con los dos pies,
es mejor que Pelé,
él es Deco, alé, alé
Nel luogo dove Deco si è fatto adulto e giocatore, dove ha imparato a manipolare il tempo e lo spazio piegandoli alla sua volontà tecnica per far passare un filtrante , per disorientare un avversario, dov’è diventato O Mago. Nel posto dove per la prima volta ha sentito il suo nome gridato da così tante persone da non poterci credere.
Chissà se in quel momento, realizzando che in migliaia avevano fatto la fila e comprato il biglietto pur di vederlo un’ultima volta calpestare il prato, si è ricordato di quando diciassette anni prima era arrivato in Portogallo. Di quando era arrivato all’aeroporto, ed era stato accolto frettolosamente. Di quando aveva visto una massa festante e c’era andato incontro, ma nessuno l’aveva considerato. Di quando si era pensato solo, di quando aveva realizzato che per lui non c’era nessuno.
E che, invece, ora sono tutti lì per lui.