Mi chiamo Diego. Giro per la città, per Napoli. Ma che sta succedendo oggi? Che state combinando? Tutto questo azzurro per le strade. Hanno colorato tutto di rosso, hanno acceso candele. Dai Quartieri Spagnoli a Fuorigrotta. Pare tutto grigio però. Anche allo stadio c’è un sacco di gente, ma solo fuori, tutto attorno. E per la prima volta le case vicine allo stadio non vibrano per un gol del Napoli. Piangono pure loro.
Diego
È solo calcio, dicono. Che poi io di calcio capisco poco o niente. Mi piace, amo leggerne gli aneddoti più belli. Ma a me piace l’arte, la letteratura, la musica. Mica come mio padre, lui sì, è un tifoso di calcio. E proprio Diego mi ha chiamato. Sono nato a fine luglio del 1984. A pochi giorni dalla presentazione allo stadio del nuovo acquisto di Ferlaino. Evidentemente mio padre trovò ispirazione.
E come me tanti altri. Sta quel Diego, il figlio di Ciro, partito con un treno dalla stazione di Napoli verso la Germania. Sta quell’Armando, il figlio di Carlo, che pure lui lavora in pizzeria accanto al padre. E quell’altro Diego, con i genitori emigrati dall’altra parte del mondo, in cerca di speranza. Gente umile. Non necessariamente accompagnati dalla retorica del napoletano povero e indifeso.
Mio padre, per esempio, è un professore. E c’è anche l’amico mio, l’altro Armando, quello il padre è imprenditore. ‘O scudetto del 1987 ha fatto storia. In quegli anni siamo più di 500. Bambini nati con l’impronta di Diego. Oppure Armando. O tutti e due. O addirittura Diego Armando e pure il cognome tutto insieme e senza virgole. Tutti uniti, negli anni, da una bandiera. Quello non è amore. È un atto di fiducia. Quando battezzi una cosa importante con un nome la riconosci come tale. E il nome deve essere altrettanto importante. Sono storie che si incrociano nei momenti decisivi della vita. Storie.
Oggi tutti a portare un pezzo del proprio racconto, della propria opinione, ad una storia che è già grande così come è. Nessuno la può cambiare. Ognuno ad aggiungere la propria pagina ad un romanzo che è bellissimo, il migliore di sempre, ma già di per sé è complicato. Ha tante sfaccettature, tanti personaggi, tanti antagonisti, un solo protagonista, un eroe strappato e maciullato dai suoi stessi errori. Errori che ha pagato a caro prezzo. Ma se togli gli errori, restano le magie, le meraviglie. Perché se all’uomo togli il privato e lasci lo sportivo resta il più forte calciatore mai nato. Se all’argentino togli Napoli, resta un partenopeo ostinato e convinto. Se ad una promessa togli gli incidenti, restano gli eventi e i risultati.
Armando
Come quella volta che scelse Napoli per rilanciarsi dopo i mezzi fallimenti di Barcellona. Che già quella storia, la trattativa, meriterebbe un libro a parte. Ferlaino è riuscito a portarlo in Italia pure senza soldi. Con l’arte di arrangiarsi, la busta di un contratto senza il contratto e un miracolo vero. Certo Napoli e la Campania in quegli anni avevano grandi prospettive di crescita e il campionato italiano era di gran lunga il migliore al mondo. Ma Napoli non era certo un top club. Qualche secondo e terzo posto nella sua storia, un paio di Coppe Italia vinte. Dopo 15 anni di presidenza, Ferlaino disse a sé stesso: “O vinco o smetto”. Per fortuna decise di vincere.
Ribaltando tutte le gerarchie calcistiche. Ribaltando l’Italia da Nord a Sud. Alzando altissima la bandiera di una città e di un popolo che faticava ad emergere, a farsi riconoscere, ad affermare le proprie bellezze. Napoli divenne campione per la prima volta nella sua storia, si prese la terza Coppa Italia della sua vita sportiva, centrò altri due secondi posti e portò in Italia la Coppa Uefa.
Un cammino dorato, in una città bellissima. Un cammino dorato in un’ambiente caldissimo che, col passare delle stagioni, divenne afoso, irrespirabile. Un eroe che si schiaccia nei suoi vizi settimanali, si ripulisce e la domenica torna a brillare. Un tempo circolare che sa di gloria, ma puzza d’altro.
Come quella busta in arrivo da Marsiglia. Ancora buste che volano nel destino del Napoli. Nel 1984 fu d’oro, nel 1989 fu strappata all’arrivo. Dentro c’era l’assegno in bianco di Tapie, presidente dell’Olympique, che aveva già l’accordo con il calciatore. La prigione azzurra si stringeva attorno all’eroe. Ma può davvero essere un carcere una gabbia senza sbarre? Può davvero essere un limite invalicabile un ostacolo facilmente superabile per uno abituato a non rispettare le regole?
Da una parte il buen retiro francese, in mezzo un presidente “carceriere“, dall’altra parte il popolo partenopeo che sarebbe rimasto senza re. Da una parte una sacrosanta scelta personale di lasciarsi alle spalle le pressioni eccessive e un ambiente ormai malato. Dall’altra una sofferta scelta di comunità: tornare a vincere lo scudetto. E così fu. Ancora una volta gli allori del campo, prima della rovina. Di mezzo ci va un Mondiale 1990 in Italia con il “derby” Italia-Argentina al San Paolo di Napoli finito ai rigori e gli “hijo de putas” urlati in faccia ai fischi dell’Olimpico per la finale con la Germania. Che forse è la rottura definitiva, il crepuscolo.
La stagione successiva sarà quella dell’inizio del declino. Dalle temperature ossessive ed eccessive delle questioni private al gelo di Mosca e di una notte di Coppa Campioni da comprimario. Fino al test antidoping nella pancia del San Paolo dopo un Napoli-Bari. La fuga. In dribbling.
Maradona
Come quei quattro minuti di storia, il 22 giugno 1986 allo stadio Azteca di Città del Messico. Un concentrato del calciatore più forte di tutti i tempi in 240 secondi o poco più. Prima la furbizia, la scorciatoia della Mano de Dios, ruberia non scaltrezza né malizia che punì Shilton e “vendicò le Falkland”. Poi il genio, la perla del Mondiale sudamericano, il suo Mondiale, una delle prestazioni sportive più incredibili del Novecento messo assieme, il gol che restituisce all’umanità quello che lui stesso aveva levato in termini di equità solo quattro minuti prima, una corrida che solo Dio sa. E non è un caso, non può essere un caso, che sia stata letteralmente creata in una delle capitali più alte al mondo: 2240 metri sul livello del mare, così vicina al cielo, sotto i piedi le rovine di una capitale azteca.
Victor Hugo Morales, professione radiocronista, uruguaiano mica argentino, quattro minuti prima aveva esultato con un pizzico di amarezza: “Con l’alma, ma con la mano. Con la mano sì, che volete che vi dica“. Quattro minuti dopo, invece, la racconta così, facendone poesia.
La va a tocar para Diego, ahí la tiene Maradona, lo marcan dos, pisa la pelota Maradona, arranca por la derecha el genio del fútbol mundial, y deja el tendal y va a tocar para Burruchaga ¡Siempre Maradona! ¡Genio, Genio! ¡Genio! ¡Ta-ta-ta-ta-ta-ta! ¡Goooooool, Gooooool! ¡Quiero llorar! ¡Dios Santo, viva el fútbol! ¡Golaaaaaaazooooooo! ¡Diegooooooool! ¡Maradona!
Es para llorar, perdónenme. Maradona, en una corrida memorable, en la jugada de todos los tiempos. Barrilete cósmico, ¿de qué planeta viniste? ¡Para dejar en el camino a tanto inglés! ¡Para que el país sea un puño apretado, gritando por Argentina! Argentina 2 – Inglaterra 0. Diegol, Diegol, Diego Armando Maradona. Gracias Dios, por el fútbol, por Maradona, por estas lágrimas, por este Argentina 2 – Inglaterra 0.
Mica una cosa casuale. Ci aveva provato anche sei anni prima a Wembley, in amichevole, sempre contro gli inglesi. Fuori di un pelo il tocco finale. A Città del Messico una nuova memorabile azione: può darla a Burruchaga, ma va dritto per dritto. Solo, come è sempre stato. Trovare la strada senza aiuti può renderti divino, ma può anche ammazzarti alla lunga. Noi siamo Burruchaga che aspetta quel pallone, guardando l’eroe, impotenti, senza possibilità di partecipare. Lui fa da solo.
Come sempre è stato, dalle macerie di Villa Fiorita, un posto senza acqua, futuro, senza nulla in cui tutti i bambini però avevano lo stesso sogno, alle disgrazie degli ultimi tempi a La Plata. L’unico a realizzare il sogno di tutti: c’è solitudine anche in questo. “Mai ho voluto essere esempio per nessuno. Possiamo essere esempio sportivo, ma null’altro oltre questo” il pensiero stranamente lucido di un uomo ormai oltre i 50 anni. Quanta vita, quante vite. E quanto forte poteva essere senza la cocaina.
Noi Burruchaga. Lui l’eroe. Che se ne è andato ancora in dribbling. Da solo. Fino in fondo. Consapevole di quello che avrebbe fatto nella vita, di quello che ha realmente fatto, di quello che poteva essere se non avesse fatto altre cose, delle colpe e dei rimorsi che si portava dentro. Solo.
Almeno fino a quando non tornerà a colorarsi dell’azzurro vero anche lo stadio di Napoli. A Fuorigrotta. Almeno fino a quando il popolo non tornerà a celebrare il suo eroe nell’Arena Maradona.