Era un ordinario Inter-Roma come tanti, in un gelido 5 gennaio 1997, entro le mura del Giuseppe Meazza in San Siro. Poi Youri Djorkaeff decise di prendersi la scena.
2+4
Ventiquattro, come il numero reso iconico dal compianto Kobe Bryant, come le ore che trascorrono, lente o veloci, per concorrere a completare una giornata. O come gli anni attesi dall’Italia per tornare sul tetto del mondo nel 2006. Ventiquattro, come l’ideale combinazione tra l’equilibrio e la dualità del 2 e la praticità e l’impulso del 4. Oppure come le candeline su cui idealmente oggi arriva a soffiare una prodezza rimasta nell’iconografia del nostro calcio e nell’immaginario collettivo – soprattutto calcistico – degli anni ‘90.
Era il 5 gennaio 1997, quando un francese, nativo di Lione ma di origini polacche, cosacche e armene, dotato di un fisico tutt’altro che dominante, ma esile e sgusciante, arrivò puntuale all’appuntamento con la storia. Vestiva il nerazzurro dell’Inter, sulle spalle la maglia numero 6 (2+4, appunto!): un numero insolito, generalmente associato a giocatori con un raggio d’azione molto più limitato e di sicuro meno fantasiosi.
Ma anche questa è un po’ la cifra stilistica di Youri Djorkaeff, un trequartista dotato di un talento sconfinato, eppure capace quasi di nascondersi, o di essere trattato incidentalmente dagli onori della cronaca, nonostante un palmarès che pochi nella storia possono vantare: un Mondiale, un Europeo e una Confederations Cup guardando solo agli allori conquistati con la Nazionale francese, una Coppa delle Coppe con il Paris Saint-Germain e una Coppa Uefa con l’Inter, a livello di club. Quel giorno di 24 anni fa, però, fu impossibile non prendersi titoli, riflettori, flash e replay mandati in loop dalle televisioni di tutto il mondo. Quel giorno, il giorno di Inter-Roma 3-1, Youri riuscì a tatuarsi nella mente dei tifosi e degli appassionati in maniera indelebile. E per farlo scelse di sfidare le leggi della fisica e della gravità.
Mr Flanagan
Ma facciamo un passo indietro. Nel 1997 internet non era ancora la fuoriserie che siamo abituati a conoscere. Ci si collegava alla rete attraverso macinini che facevano più rumore di una macchinetta del caffè. I siti erano pochi, le iniziative sul web pressoché pionieristiche. Aprire una pagina dal solo browser esistente (Internet Explorer, per la precisione) era un’impresa. Per navigare si occupava la linea del telefono, i computer si impallavano spesso e volentieri e anche i video erano tutto fuorché fruibili. Eppure, quella giocata fece ugualmente il giro del mondo.
Location d’eccezione: lo stadio San Siro. L’Inter era allenata in panchina da un signore, Roy Hodgson, capace di passare alla storia – almeno in Italia – più per una famosa imitazione (quel “Mr Flanagan“ reso celebre da Giacomo del trio nella trasmissione “Mai Dire Gol”) e per la scelta improvvida di costringere Moratti a cedere Roberto Carlos al Real Madrid, che per gli effettivi risultati raggiunti. Ma tant’è, erano stagioni in cui la competizione era altissima e anche le medio-piccole potevano contare su elementi e rose che al giorno d’oggi ben figurerebbero in zona Champions. Si pensi alla Sampdoria che alla fine di quella stagione arrivò sesta con Veron, Montella e Mancini, o all’Udinese di Bierhoff, Amoroso e Poggi, o ancora al Vicenza ottavo, ma capace di imporsi in finale di Coppa Italia.
L’Inter pre-Fenomeno
L’Inter, dicevamo, era ancora nell’epoca pre-Fenomeno, con Ronaldo che arriverà l’anno dopo, ma la squadra cominciava ad assumere le sembianze di quel gruppo che la stagione successiva sarebbe riuscito con Simoni in panchina a imporsi in Coppa Uefa – in una finale tutta italiana contro la Lazio, la partita del celebre doppio passo di Ronie contro Nesta – e a contendere lo scudetto alla Juventus fino alle battute conclusive. Sì, quella Juve che riuscì a vincere lo scontro diretto di ritorno, anche grazie al fallo in area di rigore non fischiato a Iuliano.
Nell’estate del 1997, gli innesti avevano i volti di Zamorano, Galante, Sforza (altro personaggio entrato nel mito grazie ad Aldo, Giovanni e Giacomo e alla maglia sfoggiata da Giacomo in una scena del film “Tre uomini e una gamba“), Angloma, Winter e appunto Djorkaeff, con quest’ultimo prelevato dal Paris Saint Germain con un blitz di mercato che consentì di beffare anche il Barcellona di Cruijff. Una formazione che a fine anno si classificherà terza, alle spalle della Juventus di Lippi – capace di compensare le partenze di Vialli e Ravanelli con l’arrivo di Boksic e le scoperte dei giovanissimi Vieri e Amoruso – e del Parma dell’emergente Ancelotti in panchina e dei vari Buffon, Cannavaro, Thuram, Chiesa e Crespo in campo.
Nostalgia firmata Djorkaeff
Alla gara contro la Roma del 5 gennaio, i nerazzurri ci arrivarono da inseguitori della squadra di Lippi. Dopo un’ottima partenza che era valsa il primo posto in classifica, il sorpasso da parte dei bianconeri si era consumato il 15 dicembre. Ma nulla era impossibile con un girone ancora da disputare. All’appuntamento della ripresa del campionato, l’Inter si presentò in formazione tipo.
La snoccioliamo per far sognare un po’ i nostalgici degli anni ’90: Pagliuca tra i pali, Angloma, Galante, Fresi e Paganin a comporre il pacchetto arretrato, Zanetti, Winter e Sforza in mediana, Djorkaeff alle spalle di Zamorano e Ganz. A gara in corso subentrarono quindi altri due monumenti dell’interismo del calibro di Bergomi e Berti.
La Roma di Carlos Bianchi (il tecnico passato alla storia perché avrebbe preferito mandare Totti in prestito alla Sampdoria per prendere Litmanen dall’Ajax), invece, optò per Sterchele in porta, Lanna, Aldair, Petruzzi e Carboni in difesa, Moriero, Thern, Statuto e Tommasi in mezzo al campo, Totti e Del Vecchio in attacco, con Balbo e Fonseca chiamati a gara in corso dalla panchina. Ad arbitrare il big-match di quella 15ª giornata un fischietto che, al termine della carriera, inaugurerà con parecchia fortuna la stagione dei moviolisti in tv: Graziano Cesari.
L’Inter parte subito forte e apre le marcature già all’11° minuto con Maurizio Ganz (se era soprannominato “el segna semper lü“, segna sempre lui, un motivo c’era eccome!), ma è al 39’ che si compie il prodigio. I nerazzurri manovrano sulla trequarti romanista, quando dal limite dell’area parte un tiro sul quale Sterchele è tutt’altro che perfetto. La sua respinta di piede è corta e goffa. Petruzzi, spiazzato dal compagno e in evidente controtempo, prova a rilanciare come può, ma dal suo tocco sbilenco ne nasce un campanile che non produce l’effetto sperato di liberare l’aria, al contrario fa nascere nell’accorrente Djorkaeff la tentazione di provarci. Accade tutto in una frazione di secondo.
Il francese è appostato al vertice sinistro dell’area piccola, quando intravede in quella palla alzata a casaccio un assist da monetizzare. È un lampo, un’illuminazione che solo un genio del suo calibro avrebbe potuto partorire. Un mix di talento, atletismo e follia. Nella stessa situazione in cui il 99% dei calciatori avrebbe provato a impadronirsi del possesso, o al più di intercettarla di testa, lui decide di non aspettare: si lancia incontro alla palla per incontrarla a metà strada durante la sua parabola discendente.
La combinazione di spazio e tempo è perfetta, la coordinazione anche e il suo gesto è un evidente sberleffo alla forza di gravità. Uno sberleffo completato da una sforbiciata volante che disegna in aria un tracciante diagonale ancora adesso difficile da spiegare. Più che un gesto tecnico-atletico, un’acrobazia a metà tra “Matrix” e “Kill Bill“. E proprio come davanti a un effetto speciale del cinema, a compagni, avversari, tifosi e spettatori non resta che stropicciarsi gli occhi, restare a bocca aperta e infine applaudire sull’onda delle emozioni. Hanno appena assistito a un prodigio e migliaia di replay non basteranno a spiegarlo. Il fatto che dopo quel gol ce ne saranno altri due, uno per parte (Del Vecchio per la Roma, Fresi per l’Inter), vale solo per gli almanacchi. La partita si concluse in quel momento. Non c’era più altro da vedere senza correre il rischio di abbassare quell’incredibile livello raggiunto.
Youri Djorkaeff, una statua
Quel giorno avevo addosso così tanta fiducia che mi sembrò naturale andare fin lassù per provarci. E se ci ripenso oggi, come prima cosa rivedo San Siro e poi mi risento addosso quella pazzesca sensazione di libertà che mi avevano dato i compagni, il club, i tifosi. l’ho portata in tasca per anni, la usavo come passaporto… In verità il presidente avrebbe voluto farne una statua da mettere fuori San Siro, ma lo stadio non è di proprietà dell’Inter e non si poteva. Cosa potevo dirgli? Mi venne solo: “Pres, sono onorato”. Non immaginavo che più di vent’anni dopo, incontrando tifosi nerazzurri e anche no, mi sarei sentito ancora chiedere di quel gesto. Ma sapevo già che quel gol in realtà non era mio, ma di tutti gli interisti. Per questo ho sempre detto che è un po’ il simbolo dell’Inter: istinto e coraggio.
Ed è proprio in quest’ideale immedesimazione tra idolo e squadra del cuore che Djorkaeff si è meritato il soprannome di “serpente“. Proprio come il simbolo dell’Inter, ma anche quasi a voler rappresentare in maniera efficace la posa plastica di quel suo gesto atletico rimasto nella nostra storia sportiva e che una statua se la sarebbe meritata davvero.