Rafael Leao ha iniziato il 2023 come aveva chiuso il 2022: dribblando. Saltando tutti, più volte. Sperimentando nuove forme di dribbling, come il tunnel sul malcapitato Daniliuc all’Arechi in Salernitana-Milan. Per lui è un semplice divertissment. Per chi deve affrontarlo assomiglia più all’emicrania mista alla paura di essere ridicolizzati. Chi guarda da casa, deve rivedere in loop quattro o cinque volte prima di capire come ha fatto, sempre se ci riesce.
Un giocatore “sconcertante”
È l’11 febbraio 2018. Al 69’ di Sporting-Feirense, 22esima giornata di Liga Portugal, fa i suoi primi passi nel calcio che conta un giovane ragazzino dell’Academia, appena 18enne. Si chiama Rafael Alexandre da Conceição Leão ed è nato ad Almada il 10 giugno 1999, non una data qualsiasi per i portoghesi. Il 10 giugno di ogni anno si celebra infatti il Dia de Portugal: è tutto chiuso, Lisbona profuma già da giorni di sardine grigliate e attende con trepidazione la festa delle feste, Sant’Antonio, che si celebrerà tre giorni dopo.
Almada è la città simmetricamente parallela a Lisbona, quella dove sorge, imponente, il Cristo Rei che veglia sulla capitale, quella che guarda Lisbona dritta nei suoi malinconici occhi, perdendosi ad ammirare il triangolo disegnato dalla cupola del Pantheon, il rosone affacciato sul fiume della Cattedrale, e le due torri del Monastero di São Vicente, e immaginando le viuzze dell’antico bairro di Alfama intersecarsi e inghiottire i turisti disorientati. Le due città sono separate solo dal Tago, che di lì a pochi metri sfocerà nell’Atlantico, e sono collegate attraverso i due celebri ponti, quello storico, del 25 de abril e il più nuovo, e lunghissimo, Vasco Da Gama, oltre che da una efficientissima rete di battelli. Nonostante sia molto più vicina a Lisbona in linea d’aria, dal punto di vista amministrativo si trova nel distretto di Setúbal, il capoluogo di quella penisola formata dalle foci di Tago e Sado e che si frappone fra Lisbona e la ruralissima regione dell’Alentejo. Nel distretto di Setúbal si trovano anche due dei vivai calcistici più fiorenti al mondo: il Benfica Campus di Seixal, a due passi da Almada, facilmente raggiungibile in battello, e l’Academia Cristiano Ronaldo dello Sporting, più lontana, addirittura oltre il ponte Vasco da Gama, quasi in Alentejo inoltrato.
Qui è cresciuto Leao, che per la verità aveva già esordito prima con la maglia dello Sporting, il 12 ottobre 2017, nel terzo turno di Taça de Portugal contro l’Oleiros, e aveva anche segnato. Poi, però, era tornato nella squadra B e ci era rimasto per quattro mesi, fino a quell’11 febbraio. Contro il Feirense, gioca bene, ma senza lasciare il segno. Lo farà subito dopo: assist nella partita immediatamente successiva contro il Moreirense e gol, una settimana dopo nel Clássico contro il Porto (sì, si chiama Clássico anche Sporting- Porto: ogni volta che i Dragões affrontano una delle due big della capitale è un Clássico, che si tratti di Benfica o Sporting). Poi si infortuna e, in estate, passa al Lille a zero. Quello di allora, appena diciottenne, non era ancora il Leao che sprigiona potenza, oltre che classe, da ogni sua accelerazione, quello difficile da abbattere con una spallata, dominante per 90 minuti che ammiriamo oggi al Milan. Era più secco fisicamente e il suo dribbling, meno muscoloso, risultava più leggiadro, più felpato, un dribbling che profumava di quel “calcio tecnicista afro-lusitano di Setúbal”, avrebbe detto Jorge Luis Freitas Lobo, celebre telecronista portoghese. A lanciarlo fu Jorge Jesus, che dopo la partita ne parlava così: “è un giocatore sconcertante, forte nell’uno contro uno. Ha talento e mi ricorda Jordão”.
La gazzella di Benguela
Rui Jordão è stato una leggenda dello Sporting. Era soprannominato la gazzella di Benguela, città
dell’Angola in cui era nato, e a inizio carriera era considerato l’erede di Eusebio, sia per le caratteristiche tecniche che per le origini africane che aumentavano infinitamente la suggestione del paragone. A fine carriera, nonostante i suoi 309 gol (di cui 81 col Benfica, 187 con lo Sporting e 15 in nazionale), era per i più un incompleto, una promessa non mantenuta per il talento che aveva, frenato solo dai numerosi e gravi infortuni che lo hanno martoriato dai 22 anni in poi.
A livello internazionale è ricordato soprattutto per le sue performance agli Europei di Francia ’84. Giocava centravanti ma vestiva la maglia numero 3 perché i portoghesi avevano deciso di assegnare casualmente i numeri. Rimane a secco fino alla semifinale contro la Francia di Platini, padrona di casa. Segna una doppietta di testa, sempre su cross di Fernando Chalana, uno dei più grandi geni del calcio portoghese: al 74’ pareggia la punizione di Domergue e al 98’ porta la Seleção a un passo dalla finale. Poi, però sale in cattedra IL genio, Michel Platini, che prima fa assist di nuovo per Domergue e poi, al 119’ decide che basta così, con il suo ottavo gol nel torneo, e manda a casa Jordão, Chalana e compagni, che verranno vendicati 32 anni dopo da Eder, sempre in Francia, sempre ai supplementari, ma in finale. Freitas Lobo, nel suo libro O futebol com que sonhei (“Il calcio che mi ha fatto sognare”), lo descrive così:
Jordão sarà stato il centravanti che più mi è piaciuto vedere nel calcio portoghese. Tutto stava nella sua eleganza di movimenti felini. Istintivo, predatore d’area, aveva il portamento di una gazzella, le gambe arcuate, quasi in punta di piedi, ora coprendo la palla, ora preparando il tiro. Era un prodotto della magia africana.
L’ultimo, prima di Leao (in realtà il Portogallo avrà altri due grandi bomber nati in Africa, l’azzorriano
Pauleta e il madeirense CR7, ma sono africani solo geograficamente, non di cittadinanza, né tanto meno a livello genetico).
In realtà, l’unica cosa in cui Leao è molto simile a Jordão, oltre alle origini angolane, è il passo elegante e felpato di inizio carriera, prima di diventare un’incontenibile forza della natura al Milan. Poi ci sarebbe anche un fattore extra-campo ad accomunarli. Entrambi hanno una seconda passione artistica: Rui amava dipingere e scolpire e, dopo l’addio al calcio si ritirò a Cascais, la località di mare più frequentata dai lisbonesi, per dedicarsi alla sua passione; a Rafa invece piace la musica e ha già inciso alcune canzoni trap. Per il resto, però, non ci sono tante altre somiglianze, né dal punto di vista fisico – Rui era alto 1.79 metri e pesava 71 chili, Rafa è un marcantonio di 1.88 metri per 81 chili – né tecnico-tattico. Rui Jordão era un centravanti puro, un goleador, un rapace d’area di rigore molto prolifico, una sorta di Inzaghi più tecnico ed elegante. Rafael Leao non ha tutti quei gol nei piedi. È un esterno d’attacco, o al massimo seconda punta, che ama puntare l’uomo, guardarlo negli occhi, sorridergli e scherzare con lui prima di buttarsi il pallone in avanti e lasciare dietro di sé solo la scia, come le macchine nei cartoni animati, oppure serpeggiare fra le linee avversarie prima di fiondarsi violentemente verso la porta. Quando si ritrova un uomo davanti, il suo sguardo divertito sembra dire “Ah ma adesso ti salto, eccome se ti salto”. E poi, effettivamente, lo salta.
Leao, cinquant’anni prima
Leggendo un’altra descrizione di un altro giocatore di origine angolana, contenuta sempre nel libro di
Freitas Lobo (e guardando questo video che è anche l’unica testimonianza visiva che abbiamo oggi a disposizione), sembra di rivedere Leao, i suoi dribbling e le sue accelerazioni, il tutto proiettato in un calcio di oltre 50 anni più antico.
“Ricordo di averlo visto giocare, nella fase finale della sua carriera. Le immagini che ho di lui sono celestiali, quasi di uno stile di gioco che mi piace chiamare ‘calcio-stregone’. Il nome con il quale furono conosciute le sue finte aiuta la leggenda: il ‘dribbling-macumba’. Chi lo realizzava aveva il profumo del calcio tecnicista afro-lusitano di Setúbal: era il mitico Jacinto João. Ricordo il suo stile: un nero tarchiato che sembrava scappare con la palla ma non senza prima guardare in faccia gli avversari (difensori molto duri). Quindi si fermava, con la gamba che sembrava piegarsi sulla palla per simulare una finta (profumino di Garrincha? Può essere) fino a che repentino, felino, la spostava da un lato e passava, aggirando il difensore incapace di reagire. Poi un’occasione da gol, un passaggio filtrante, un tiro, il gol. Credo di non aver mai più visto nessuno fintare così. […] Partiva da un momento di controllo di palla, fronte a fronte con il difensore, dove faceva fermare il tempo lasciando tutto immobile. Per poi fintare come se fosse una stregoneria. E lo era. “Arte macumba”. Manca solo il sorriso di Rafa.
Jacinto João, meglio conosciuto come J-J (da leggersi “Jota Jota”), perché con questa sigla appariva sui
giornali dell’epoca, è tuttora una sorta di figura mitologica a Setúbal, tanto che la città gli ha dedicato una statua di bronzo, installata nel 2015 nella rotonda di Praça Vitória Futebol, di fronte all’Estadio do Bonfim, vicino alla stazione dei treni. Nato a Luanda, capitale dell’Angola, nel 1944, è stato per oltre un decennio la stella del Vitória Futebol Clube (con un’interruzione di un anno, in una fugace esperienza nella Portuguesa, in Brasile), che in quel periodo era nella sua età dell’oro e contendeva, senza mai vincerlo, il campionato al Benfica di Eusebio (del quale fu anche compagno di nazionale) e allo Sporting di Héctor Yazalde, uno da 104 gol in 104 partite con i Leões. A Setúbal, Jota Jota ha segnato 58 gol in 269 partite e vinto una Coppa del Portogallo.
Setùbal, l’Africa, il dribbling
Che cosa intenda Freitas Lobo con “calcio tecnicista afro-lusitano” potremmo saperlo solo chiedendoglielo di persona. Possiamo, però immaginarlo, guardando le immagini di Jota Jota. Forse può aiutare sapere che il Vitória ha avuto quasi sempre nella sua storia una colonia di giocatori con la doppia cittadinanza, portoghese e di una delle ex colonie africane. Durante gli anni d’oro, quelli delle due Coppe del Portogallo vinte e dei tanti secondi/terzi posti in campionato, a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, erano in tre, tutti di origine angolana e formavano la colonna vertebrale della squadra: il difensore Conceição, il centrocampista José Maria e, appunto il nostro J-J. Nella stagione 71/72 ne arriverà anche un quarto, di origine però mozambicana, il mediano Augusto Matiné.
La tradizione continuerà negli anni a venire e anche Rui Jordão, quando sceglierà le calme rive del fiume Sado per chiudere la sua burrascosa carriera, troverà altri due afro-lusitani ad attenderlo: il portiere di origini capoverdiane Neno e il difensore centrale di origini angolane Zezinho. Nel gruppo che, conquistando l’accesso alla Coppa UEFA nel ’99, aprì il secondo periodo più fiorente della storia dei Sadinos culminato con la vittoria della terza Coppa del Portogallo nel 2005, ce n’erano addirittura sette: il portiere Brassard (Mozambico), il centrale Zé Rui (Capo Verde), i centrocampisti Resende e Chipela (Angola), l’ala destra Amaral e gli attaccanti Nando Có (Guinea-Bissau), Chiquinho Conde (Mozambico) e Rui Gomes (Angola).
Non sappiamo se il suo fosse un calcio tecnicista, ma non possiamo non riportare una scoperta quanto
meno curiosa: dalle parti di Setúbal, nella stagione 2006/07, è passato anche un certo Donigio Inzaghi, attaccante portoghese di origini della Guinea Bissau, cresciuto nel Benfica e poi disperso nei meandri del calcio dilettantistico portoghese, un po’ come il Vitória Futebol Clube in queste ultime tre stagioni dopo il fallimento del 2020.
L’ultimo esponente di spicco della scuola di Jota Jota è una vecchia conoscenza del calcio italiano e in
particolare dell’Inter: João Mario. Nato a Oporto da genitori di origini angolane e cresciuto nell’Academia Cristiano Ronaldo di Alcochete (nel distretto di Setúbal) è esploso proprio durante il prestito al Vitória nella stagione 2013/14 prima di tornare da protagonista a vestire la maglia dei Leões. Oggi, il suo calcio fatto di pulizia tecnica e anche qualche ricamo afro-lusitano ha trovato il suo più grande estimatore in Roger Schmidt, che lo ha reso una sorta di metronomo avanzato del suo spettacolare Benfica.
Dopo di lui, però, la tradizione setubalense si è andata lentamente perdendo, tanto che quello che oggi ne è il miglior esponente, se non il più forte giocatore portoghese in generale, ovvero Rafael Leao, da Setúbal non ci è mai passato, pur essendo nato a pochi chilometri di distanza, nella vicina Almada, e che il prossimo crack portoghese di origini angolane, Fabio Carvalho, non ci si è nemmeno mai avvicinato, essendo nato a Torres Vedras, nel distretto di Lisbona, e cresciuto calcisticamente in Inghilterra, al Fulham. Del calcio tecnicista di J-J in Fabio Carvalho non è rimasto tanto: sono spariti tutti i ricami, i dribbling, gli sguardi di sfida al difensore, in favore di un’interpretazione più europea, più diretta, più efficace.
Oggi, in tutta la rosa del Vitória, a portare avanti la tradizione di Jacinto João è rimasto solo tale José
Varela, ala destra di origini capoverdiane. Di lui non abbiamo nessun video, quindi non possiamo sapere se sia più dribblomane o se ami andare dritto al punto. Non è nemmeno uno dei titolari fissi, ma, in piena tradizione afro-lusitana, con i suoi 5 gol ha trascinato i Sadinos agli ottavi di finale di Taça de Portugal, da cui sono stati eliminati la scorsa settimana per mano del Casa Pia.