Il campionato olandese si è costruito negli ultimi 20 anni o poco più la reputazione di una tappa di passaggio molto importante per il calcio europeo. Per molti talenti rappresenta l’opportunità di affacciarsi al calcio che conta e mettersi in mostra, sognando di ripercorrere le orme di fuoriclasse come Ibrahimovic e Luis Suarez. Per altri, magari provenienti da quelle leghe e quelle parti del mondo meno battute dagli osservatori dei club principali, l’Eredivisie rappresenta il punto d’arrivo di una carriera costruita mattone dopo mattone. Questo è il caso di Elezer Dasa, detto Eli, terzino destro israeliano classe 1992 in forza a quel Vitesse impegnato contro la Roma in Conference League. Un calciatore interessante, seppur non più giovanissimo, la cui storia merita di essere raccontata poiché racchiude tante delle contraddizioni di un paese, Israele appunto, che il calcio tende a rappresentare e persino amplificare.
L’israeliano volante
La svolta nella carriera calcistica di Eli Dasa è indissolubilmente legata a due figure note del calcio olandese. Il primo è Peter Bosz, attuale allenatore del Lione, il quale lo ha allenato quando sedeva sulla panchina del Maccabi Tel Aviv. Il secondo, per lui persino più importante a livello personale, è Jordi Cruijff, tramite cui Eli ha avuto l’opportunità di conoscere anche il padre Johan. Jordi è colui che, da direttore sportivo ha portato Dasa al Maccabi, per poi successivamente allenarlo nell’annata 17/18. Sia lui che Bosz hanno intravisto nel terzino delle doti appetibili per il calcio d’olanda, e sono stati fondamentali nell’indirizzarlo quando si è fatto più vivo l’interesse del Vitesse nell’estate 2019.
Osservandolo, non è difficile notare come l’intuizione sia stata più che azzeccata. Eli Dasa è un giocatore brevilineo, di grandissima corsa, capace di saltare l’uomo con continuità. Tutte qualità necessarie e richieste ad un terzino in un calcio votato all’attacco come quello dei Paesi Bassi. Dopo una prima stagione caratterizzata da un brutto infortunio alla caviglia e dall’interruzione causa Covid, nelle due annate successive Dasa ha fatto registrare numeri legati alle assistenze davvero notevoli. Quest’anno, tra campionato e coppe, è già addirittura in doppia cifra, anche se fatica a bilanciare con i gol (soltanto uno, nelle qualificazioni di Conference con l’Anderlecht in un doppio turno tiratissimo).
Prima dell’Olanda, come già accennato, per Dasa c’è stato il calcio di casa. Sui taccuini europei è finito giocando per il Maccabi Tel Aviv, la più importante società israeliana, dove in quattro stagioni non è mai sceso sotto la quota di 5 assist solo in campionato. I gol anche qui sono sempre stati pochi (il suo record è di 2), ma, va detto, spesso molto belli (guardare per credere). Per l’opinione pubblica locale invece il suo era un nome noto già ai tempi del Beitar Jerusalem, la squadra con cui ha esordito nella massima lega.
Al Beitar Dasa è arrivato quasi per necessità. Ai tempi delle giovanili giocava infatti per il Maccabi, ma i suoi genitori non potevano permettersi di pagare quotidianamente il biglietto dell’autobus, così Eli ha virato sulla società che gli garantiva vitto e alloggio. Poco male, perchè dai gialloblu di Tel Aviv Dasa è tornato qualche anno dopo entrando dalla porta principale, guadagnandosi nel frattempo anche la nazionale.
La formazione calcistica di Eli Dasa, che tra l’altro ha un fratello più piccolo, Or, anch’egli calciatore, è stata piuttosto particolare. Si è innamorato di questo magnifico gioco inseguendo un pallone in un campo profughi di Haifa. Per lui, figlio di immigrati ebrei etiopi, il calcio è stato una forma di riscatto. Altri nella sua comunità non hanno avuto e non hanno la stessa fortuna.
Operazione Mosè
A partire dal 1983 l’Etiopia dovette affrontare più di due anni di terribile carestia che si stima abbia portato alla morte di circa 600000 persone. Gli accadimenti ebbero echi e ripercussioni a livello internazionale, e in tanti cercarono ovviamente di fuggire. Un consistente numero di etiopi facente parte della minoranza falascia o Beta Israel, cioè di religione ebraica, riuscì a raggiungere il Sudan e a stabilirsi in campi per rifugiati. Nel frattempo Israele, con la connivenza del Sudan stesso, mise in piedi un’operazione, poi ribattezzata “Operazione Mosè“, volta a trasferire queste persone dentro i propri confini. A partire dal 1984 furono organizzati quindi dei viaggi tramite trasporto aereo e circa 8000 etiopi lasciarono il Sudan per approdare in terra di Giacobbe. Su uno di quegli aeroplani salirono, tra gli altri, i genitori di Elezer Dasa.
In molti furono lasciati indietro, e Israele si impegnò nel seguire l’Operazione Mosè con altre retate al fine di riunire le famiglie separate e portare in salvo quanti più ebrei possibile. Altri riuscirono a raggiungere Israele in maniera eroica, abbandonando il Sudan a piedi. Tutti insieme comunque andarono a formare una minoranza piuttosto consistente, che oggi supera i 100000 abitanti, in uno Stato giovane, controverso e con numerosissime divisioni al suo interno. Tanto si è scritto in questi anni, giustamente, del conflitto israelo-palestinese e delle vessazioni subite dalla parte araba di Israele e da coloro che si professano di fede musulmana.
La questione però non si ferma al solo conflitto tra fedi diverse, né al riconoscimento della Palestina. All’interno del rito ebraico in Israele esistono numerosissime minoranze che si sono integrate con la popolazione in momenti diversi rispetto alla prima costituzione dello Stato, e gli ebrei etiopi sono forse la più esemplificativa tra queste. Per cultura originaria molto diversi rispetto agli ebrei d’Israele, alcuni di loro hanno fatto molta fatica ad adattarsi ad un nuovo stile di vita. Dall’altra parte, non sono mancate discriminazioni sistemiche anche da parte di politica ed establishment cui sono seguite proteste molto forti anche negli ultimi anni.
Un esempio lampante è quanto accaduto nel 2019, quando a seguito dell’uccisione del giovane Solomon Teka da parte di un poliziotto nella cittadina di Kiryat Haim si sono scatenate numerose manifestazioni da parte della comunità di ebrei etiopi, sfociate presto in violenti scontri con le forze dell’ordine. Una situazione molto simile a quanto abbiamo visto accadere in tempi recenti negli Stati Uniti, votata a denunciare anche in questo caso l’abuso di potere a sfondo razzista che contraddistingue gli ufficiali aventi a che fare con la minoranza nera del paese.
Anche il calcio è colpevole
Eli Dasa si è esposto più volte pubblicamente, parlando di razzismo e anche di antisemitismo, quest’ultimo tema che ha dovuto affrontare in Olanda a seguito di alcuni cori particolarmente spregevoli da parte dei tifosi avversari. Ancor prima però, la sua carriera è stata ironicamente legata a doppio filo all’argomento. Abbiamo già detto del suo passato al Beitar Jerusalem in uno dei paragrafi precedenti. Ciò che è stato lasciato a queste righe è che si tratta della società e della tifoseria, per autodichiarazione, più razzista di Israele. Non solo, ma questo razzismo ha a suo modo accompagnato una delle svolte nel percorso del terzino.
Procedendo con ordine, il Beitar si fregia ancora adesso del titolo di società del calcio israeliano che mai ha messo sotto contratto un calciatore arabo. Ai non arabi di religione musulmana non è andata tanto meglio. Lo sa bene Ndala Ibrahim, che ha rescisso il suo contratto dopo poche settimane a causa delle contestazioni della tifoseria, e lo sanno bene i russi Kadiyev e Sudaev, persino fischiati quando sono andati in gol.
Nel 2015, durante il turno preliminare di Europa League contro lo Charleroi, la frangia più violenta e rumorosa della tifoseria, nota col nome di La Familia, si rese per l’ennesima volta protagonista di atti e cori spregevoli, ricevendo una pesante punizione da parte dell’UEFA. A seguito di queste vicende l’allora presidente Eli Tabib si dichiarò pronto a vendere il club poiché non in grado di sostenere le numerose multe causate dal comportamento dei propri sostenitori. Questo, nell’immediato, costrinse la dirigenza a guardarsi intorno e a porre i propri migliori calciatori sul mercato per sostenersi. Tra i giocatori in questione, ça va sans dire, c’era anche Dasa, che solo poche settimane dopo sarebbe passato al Maccabi Tel Aviv per 600000 euro.
La Familia rappresenta un estremo, ma non va vissuta come un caso isolato. Innanzitutto perché le sue azioni non si isolano al campo calcistico. Celebre fu un’aggressione da parte del gruppo organizzato ad alcuni inservienti di un centro commerciale, colpevoli semplicemente di essere palestinesi. Poi purtroppo, il sentimento che esprimono con così tanto fragore è piuttosto diffuso in tutto il calcio israeliano, sia per ciò che riguarda il tesseramento di calciatori arabi, sia per ciò che concerne le reazioni di tutte le tifoserie nei loro confronti. Insomma, i problemi tra società civile e calcio si intrecciano e finiscono, come spesso accade, a specchiarsi l’uno nell’altra.
Una nazionale ci salverà?
A lanciare una scintilla di speranza per il calcio e la società israeliana, negli ultimi anni è stata la selezione nazionale. Non tanto per i risultati, raramente esaltanti, né per il gioco espresso. Certo, c’è qualche buona individualità da salvare ed elogiare, ma non è questo il punto. A rappresentare l’intero paese vestendone la maglia sono infatti calciatori di origine e credo religioso differente. Il capitano Bibras Natkho, ad esempio, è passato alla storia qualche anno fa diventando il primo musulmano a indossare la fascia con la maglia della nazionale. La decisione ha prestato il fianco a polemiche, soprattutto per il suo rifiuto a cantare l’inno, ma all’interno della rosa Natkho è un leader riconosciuto e rispettato.
Dor Peretz, ora in forza al Venezia, è un ebreo sefardita di origine marocchina. Dia Saba, musulmano con discendenza araba, ha fatto la storia andando a giocare per l’Al Nasr, e quindi diventando il primo calciatore israeliano a prendere parte a un campionato arabo. Moanes Dabbur, attaccante in forza all’Hoffenheim e forse uno dei più talentuosi di questa generazione israeliana, è anch’egli musulmano e per di più discendente di palestinesi, eppure la convivenza con i compagni di squadra fila liscia come l’olio. Come Dasa, è un ebreo etiope anche Gadi Kinde, nativo di Addis Abeba in forza allo Sporting Kansas City. Liel Abada, talento del Celtic che consiglio di tenere d’occhio, è di origine mizrahì, i cosiddetti ebrei d’oriente. C’è anche il rovescio della medaglia: Shon Weissmann, bomber del Valladolid, è di origine aschenazita, la nonna è sopravvissuta all’olocausto e lui è fortemente religioso.
Più di tutti però merita una menzione Ariel Harush, ormai non più presenza fissa per l’età avanzata, che si trovò in mezzo alla storia accennata prima tra i russi Kadiyev e Sudaev e la tifoseria del Beitar. Lui, portiere della squadra di Gerusalemme, decise di esporsi in difesa dei compagni, e questo portò a una reazione piuttosto scomposta nei suoi confronti. Forse a volte anche i calciatori hanno qualcosa da insegnarci.