Questa è stata una settimana molto intensa dal punto di vista mediatico per il calcio femminile. Da un lato, il video di tre autoreti collezionate in mezz’ora da una giocatrice neozelandese contro gli USA ha registrato milioni di visualizzazioni complessive nei diversi canali, dall’altro la vittoria legale che permetterà alle giocatrici della nazionale statunitense un risarcimento per gli arretrati passati e l’impegno a raggiungere l’equal pay è rimasto in una sorta di limbo in sordina.
Riformuliamo. Da un lato l’ennesimo tentativo di umiliare una categoria attraverso la ridicolizzazione di un evento mortificante per generare la solita cagnara di commenti che non hanno niente a che fare con l’umorismo che si dovrebbe – in maniera sacrosanta – avere in queste circostanze. Dall’altro, la più grande e lunga battaglia legale che il calcio femminile abbia mai visto.
I confronti in rete, le reazioni, non possono essere comparate. Stiamo pur sempre parlando di un mondo in cui il Totti-Blasy gate riscuote più clamore rispetto alla guerra tra Russia e Ucraina. Tuttavia, l’impressione generale è che le persone abbiano un metro di giudizio basato su disinformazione e scarsa aderenza al contesto, per non parlare del fatto che le battaglie femministe non solo vengono viste come affare di esclusiva competenza femminile, ma vengono puntualmente delegittimate di fronte ad un “passo falso”. Lo scarso appeal di una battaglia per l’equal pay come quella di Rapinoe e compagne rispetto alle tre autoreti di Moore non sorprende né genera novità.
Katie Whyatt, giornalista di The Athletic, chiude un pezzo dove commenta il fatto accaduto nel Shebelievescup con questa considerazione:
“Coloro che si affrettano a proteggerlo, strizzando l’occhio ad ogni errore, non devono prestare troppa attenzione ai detrattori: il calcio femminile andrà bene.”
Questa frase chiude il cerchio di una riflessione dove la giornalista risalta due aspetti: il primo, ovvero la fragilità del calcio femminile di fronte ad errori di campo che le persone sul web usano per delegittimare l’intero movimento, il secondo che parla di come sostenitori e appassionati puntualmente cerchino la linea difensiva più adatta per smentire i detrattori da tastiera.
Qual è il punto? Secondo Whyatt, smetterla. Smettere di sentirsi costantemente nella posizione di dover convincere altri del valore o della professionalità di questo sport per il semplice fatto che il calcio femminile si svilupperà e andrà avanti anche senza chi non lo sostiene.
Conoscere la storia per comprendere una battaglia
Fare questa premessa è in qualche modo necessario per risaltare il fatto che in questa parte del continente ci sia ancora troppa confusione su alcune tematiche strettamente collegate al calcio femminile. Quando l’appassionato medio – o presunto tale – di calcio maschile si alza al mattino e trova nel suo feed instagram un post ritraente una notizia di calcio femminile, il suo primo istinto sfocerà in diversi pensieri (talvolta tradotti nella sindrome da commento idiota compulsivo): iniziare un’attenta disamina delle differenze tra calcio maschile e femminile per affermare la superiorità del primo sul secondo, e la conseguente lamentela sul fatto che le calciatrici non dovrebbero pretendere guadagni al pari dei colleghi perché protagoniste di un calcio minore per qualità e ricavi economici.
L’errore nella prima considerazione è puramente una questione d’approccio. Pretendere di mettere sullo stesso piano di paragone un movimento che ha avuto la possibilità di nascere e svilupparsi senza ostacoli e nella piena libertà socioculturale e uno che invece questa possibilità ce l’ha da nemmeno vent’anni, è intellettualmente disonesto. Tradotto: è un pensiero povero che manca di riferimenti.
Per ciò che riguarda la seconda sentenza, invece, è necessario rispondere attraverso una breve disamina storica che prende vita da un punto importante da tenere a mente: il calcio femminile europeo e statunitense hanno avuto sviluppi e modalità totalmente differenti.
Negli Stati Uniti, gli enormi finanziamenti statali rivolti al mondo scolastico, hanno fatto la differenza per lo sviluppo del calcio femminile. Negli anni ’70 venne promulgata una legge all’interno della quale si esplicitò l’impegno a stanziare fondi federali senza discriminare nessuno sulla base del sesso: le donne, dunque, non dovevano essere escluse da questo processo. Questa precisazione ebbe un grossissimo impatto e avvicinò milioni di studentesse allo sport e al calcio. Nel giro di un decennio il calcio femminile divenne molto seguito tra i confini Nazionali, il primo Mondiale vinto in Cina nel 1991 generò la spinta necessaria per avanzare pretese verso la Federazione per il riconoscimento di un adeguato compenso e tutele per le quali, per dare un metro di giudizio, in Italia stiamo combattendo oggi.
Bruciando alcune tappe dello sviluppo storico del calcio femminile a stelle e strisce avanziamo rapidamente ai giorni nostri, anni in cui la Nazionale occupa il primo posto del Ranking FIFA a ragion di titoli (quattro mondiali, quattro Olimpiadi, otto CONCAF e dieci Algarve) e in cui grazie ad un report della US Soccer siamo in grado di affermare che tra il 2016 e il 2018 la Nazionale di Rapinoe e Morgan ha generato più entrate economiche rispetto ai colleghi. Nonostante ciò, gli stipendi, i bonus, le attrezzature d’allenamento e gli impianti non rispecchiavano gli stessi standard della controparte maschile, generando legittimi malcontenti sfociati in cause legali che hanno condotto allo storico risultato annunciato qualche giorno fa: la Federazione risarcirà di 22 milioni (un terzo di quanto richiesto dalle giocatrici) le atlete e destinerà altri 2 milioni in un fondo per aiutarle nel post carriera. Questo risarcimento arriva dopo anni di battaglie combattute contro ogni pronostico, ma certi della determinazione di atlete che non si sarebbero arrese al primo rifiuto. Questi 24 milioni, pur non rispecchiando a pieno l’entità della richiesta sono il frutto di un’ammissione di colpevolezza da parte della Federazione che riconosce la discriminazione perpetrata e apre allo scenario dell’equal pay per i Mondiali, le amichevoli, i tornei.
Giunti a questo punto è naturale constatare come lo sviluppo del calcio femminile negli Stati Uniti sia imparagonabile ad altri contesti su scala mondiale per storia, tradizione, sviluppo. L’equal pay, calato nel contesto del calcio femminile stelle e strisce, è una battaglia con basi legittime che non possono essere screditate nemmeno numericamente, una strategia molto cara ai tifosi del calcio aziendale.
Ciò che sfugge a buona parte di chi cerca di affossare il concetto di equal pay a trecentosessanta gradi è che oltre ad essere uno status quo asupicabile in qualsiasi settore per una pura questione di buon senso, in Italia attualmente ci si sta occupando d’altro.
Il calcio femminile italiano è ancora in una fase embrionale
L’Italia, come accennato poco sopra, sta attraversando con decenni di ritardo le fasi di spinta per la crescita del movimento, per ovvie questioni se consideriamo che il riconoscimento a livello federale è arrivato solo verso fine anni ’90. Oggi nel nostro Paese ci troviamo davanti al dado del professionismo praticamente tratto, uno status grazie al quale le atlete godranno di diritti, doveri e tutele nero su bianco che sbarreranno con una penna rossa la parola “dilettanti” definitivamente. Stiamo parlando di elevare il lavoro di atlete ad uno status sacrosanto, non stiamo alimentando un dibattito volto a capire se una giocatrice della Juventus debba guadagnare gli stessi milioni del collega alla Continassa.
A guidare questa delicata fase ci sono manager, ingegneri, esperti del settore che dopo anni di studio sui maggiori campionati femminili e non hanno deciso che questo salto è possibile e il terreno è maturo abbastanza da consentire la sostenibilità di un intero movimento. Nessuno, al contrario, avrebbe mai dato seguito a determinate richieste solamente per riempire il cv con la dicitura “favoreggiamento all’ennesima battaglia femminista”.
L’approdo al professionismo non sarà una questione puramente contrattuale in favore delle calciatrici ma punterà ad avere basi solide su cui poggiare, un campionato che genera sempre più interesse, audience, ricavi. La fortuna del movimento italiano negli ultimi anni è stato avere società con un grosso capitale alle spalle capace di attrarre alcune giocatrici di caratura internazionale importante: la Juve su tutte. Il lavoro dirigenziale di alcuni club ha permesso di avere tra i nostri confini atlete adatte a dare una spinta qualitativa importante al nostro campionato, ma la sola lungimiranza e la sola volontà di costruire qualcosa di solido non bastavano e non bastano più. Come si può trattenere un’atleta in un Paese dove viene ancora considerata dilettante mentre oltre i nostri confini esistono tutele e riconoscimenti professionistici? Aggiustare questo tiro mentre si lavora per portare il campionato ad un nuovo livello, regalerà con il tempo i risultati sperati di un movimento in crescita verticale.
Conoscere il background di un gruppo di persone che porta avanti una battaglia comune e saperne cogliere le differenze , l’unicità, rispetto ad altri gruppi che vivono altri contesti è una buonissima base di partenza. Sapere che non tutte le atlete sono messe nella condizione di combattere le stesse battaglie nello stesso modo, fa una grandissima differenza nel momento in cui cerchiamo di elaborare un pensiero autonomo.
Sul piano del campo, rispetto a quello che vediamo e ciò che ci piace vedere in questo sport siamo perfettamente legittimati ad avere dei gusti e continuare a preferire qualcosa rispetto a qualcos’altro. Il nostro contributo come persone che amano lo sport possiamo darlo in diversi modi, ma nessuno di questi prevede la delegittimazione di qualcosa che nemmeno si conosce.