Nella storia ultracentenaria del Manchester United, c’è una maglia che più di altre ha idealmente messo in fila un Olimpo di campioni capaci di piazzare la propria firma in calce a interi capitoli di successo, in epoche diverse ma accomunate dal sapore delle vittorie. È la maglia numero 7, che più della classica 10 o della 9, ha dato vita a una successione di prestigio tra i Red Devils.
Un’epopea inaugurata da George Best, uno dei più grandi di tutti i tempi, e proseguita in epoca moderna dai piedi sopraffini e dall’estro di campioni del calibro di David Beckham e Cristiano Ronaldo, ma anche dal talento un po’ più attempato di Edinson Cavani; bravo, anche se in chiusura di carriera, a reggere il peso non indifferente di quel simbolo sulle sue spalle. Certo, non sono mancate le delusioni (e come potrebbe, basti pensare alla 9 del Milan post-Inzaghi): da Michael Owen, approdato allo United acciaccato e a fine corsa, ad Antonio Valencia, sino ad Angel Di Maria, Memphis Depay e Alexis Sanchez. Capita, soprattutto in presenza di un simbolo che reca con sé un’investitura, neanche troppo implicita, e anzi a volte opprimente. Come scendere in campo con la personificazione della propria ansia da prestazione.
Chi, invece, non ne ha mai avvertito il peso, ma anzi ha contribuito a portare l’epopea della 7 dei Red Devils a un livello superiore, è stato Eric Cantona. Campione iconico degli anni ’90, il francese più amato dagli inglesi (com’era stato efficacemente indicato all’epoca dei suoi successi alla corte di Ferguson), volutamente sottratto alla successione temporale di cui sopra per le peculiarità dell’uomo, del calciatore e del personaggio (mai costruito, anzi talvolta vittima di sé stesso) che lo rendono inevitabilmente inaccostabile e tantomeno sovrapponibile a nessuno. Una vita spesa sempre con l’urgenza di esperienze nuove, traguardi da raggiungere e tra le righe una sottile insoddisfazione per tutto ciò che è considerato consueto e, in questo senso, tutt’altro che degno di lui.
Cantona è lo stesso che, nel pieno della sua carriera calcistica, dice cose del tipo: “Se vedo una bici, penso che vincerei il Tour de France”. Senza limiti e senza mezze misure. King Eric (copyright “Old Trafford”) è stato insomma Ibrahimovic molto prima di Zlatan, e lo è stato elevato all’ennesima potenza. Una definizione semplicistica, probabilmente forzata, ne conveniamo ma è forse il modo più immediato per spiegare ai più giovani chi sia e sia stato il francese soprattutto per il mondo del calcio di quell’epoca. Quello stesso uomo oggi compie 55 anni, o forse sarebbe meglio dire 24 della sua seconda vita fuori dal rettangolo di gioco.
Kung Fu Cantona
Ma al di là delle etichette frettolose, c’è chi è riuscito a descrivere l’uomo e il calciatore in maniera molto profonda. Una definizione efficace, in tal senso, su chi fosse quel talento francese che, scendendo in campo con il colletto alzato – posa resa iconica e immortale da uno spot della Nike degli anni ’90, inarrivabile ancora oggi: per intenderci quello in cui poneva fine con il suo “Au revoir” ad una partita all’inferno -, ha traviato una generazione di indossatori di polo, ce la regala il giornalista de Il Foglio, Fulvio Paglialunga.
“Cantona – scrive l’autore tarantino in un recente articolo – lo sappiamo chi è: uno dei più grandi geni che il pallone abbia mandato in terra; chiassoso, senza filtri, istintivo, efficace. Non c’è mai stato, Cantona, a essere uno tra tanti. E il calcio è bello perché ci sono quelli così, tanto fenomeni quanto pazzi, irregolari nelle invenzioni e anche nelle azioni”. Parole che fanno da prologo a un articolo di approfondimento su uno degli episodi più controversi della sua carriera da calciatore, dal quale è inevitabile prendere le mosse per raccontarne il prima e il dopo.
È il 25 gennaio del 1995 e Cantona, in maglia United dal 1992, è già un idolo del popolo rosso avendo contribuito alle vittorie nell’edizione inaugurale della Premier League del 1993 e in quella successiva, nonché della FA Cup del 1994, conquistata in finale battendo per 4-0 il Chelsea, anche grazie a una sua doppietta. Una stagione che gli valse il premio di Giocatore dell’Anno, pure al netto di qualche problema disciplinare (espulso 4 volte in campionato). Una costante della sua carriera, ma ben poca cosa se confrontata con quanto accadde in quella serata di Londra dell’anno successivo.
I fatti. È il secondo tempo del match col Crystal Palace, quando il francese si vede sventolare un cartellino rosso sotto il naso per un fallo su Richard Shaw, che lo aveva provocato per tutta la partita facendo leva su tutte le armi possibili per fermarlo. Il rosso provoca la reazione del pubblico di casa che lo sommerge di fischi e insulti. Una massa sonora in cui le voci dei tifosi si mischiano, si confondono, si perdono. Tutte tranne una, quella di Matthew Simmons, un ventenne di Thornton Heath, sobborgo a sud di Londra, con un passato tutt’altro che lineare e trasparente; le cronache del tempo, infatti, lo descrivono come simpatizzante di destra che, nella sua fedina penale, doveva fare i conti anche con un’accusa di percosse ai danni di un benzinaio dello Sri Lanka.
La voce di Simmons, dicevamo, arriva dritta all’orecchio di Eric: “Francese figlio di puttana”. È un attimo. Una reazione immediata. Quasi un raptus. Quel 7 giallo, su sfondo della casacca nera, che sembrava destinato a scomparire nel tunnel degli spogliatoi, sfugge alla guardia degli steward di campo, indietreggia, si avvicina agli spalti e con una mossa di kung fu scavalca i tabelloni pubblicitari – su cui poi rovinerà in caduta – raggiungendo con un calcio al volo il volto del suo “rivale”.
La giustizia sportiva e il post-condanna
Le immagini di quel calcio fanno il giro del mondo. Nel 1995 internet è ancora una chimera, ma non c’è tv che non riprenda quella storia e quel suo gesto. A distanza di anni Massimo Moratti, che all’epoca era appena diventato presidente dell’Inter ed era uno dei più grandi estimatori del francese (che avrebbe voluto prendere in coppia con Paul Ince), aveva raccontato:
Ero presente allo stadio quando ha dato quel calcio al tifoso e mi sono detto che forse per la trattativa sarebbe stato utile, perché magari lo avrebbero liberato per quel gesto. Lo stavamo prendendo e poi, per un disguido di qualcuno, non arrivò più.
Un rammarico per gli interisti, non per i tifosi dei Red Devils che, grazie anche alla caparbietà di Ferguson, hanno potuto attendere il loro campione dopo la lunga squalifica. La giustizia ordinaria, infatti, lo condanna a due settimane di prigione, pena commutata in appello a 120 ore di lavori sociali (spese in misura maggiore ad allenare giovani calciatori). Quella sportiva, invece, gli commina nove mesi di squalifica. Il rientro avverrà così solo il 1° ottobre del 1995. Un lungo periodo di inattività che lascerà i segni sulle sue condizioni di forma, ma non sulla sua classe e il talento che contribuiranno a un altro “double” con vittorie in Premier League ed FA Cup, nonché al successo in campionato dell’anno successivo.
In tutto quattro titoli nazionali vinti in cinque stagioni, con il quinto perso al fotofinish con il Blackburn, anche a causa dell’assenza del leader in maglia numero 7. Un rammarico che non ha lasciato grandi tracce nei pensieri di Eric:
Ho detto in passato che avrei dovuto colpirlo in modo più forte, ma forse domani dirò qualcos’altro. Non posso pentirmene. È stata una bellissima sensazione. Ne ho imparato e penso che anche lui ne abbia imparato. Nove mesi fuori sono stati un lungo periodo e per un po’ ho sofferto, ma grazie a Ferguson abbiamo vinto il double con una nuova generazione.
La generazione dei Beckham, Giggs, Scholes e Butt, a cui Cantona lascerà il passo ritirandosi nel 1997 a 31 anni ancora da compiere intraprendendo altre vite e altre carriere (comprese quelle di regista e attore).
The origins
Sardo da parte di padre (origini di Ozieri, Sassari) e catalano di madre, è nato a Marsiglia (dove i nonni si rifugiarono scappando dalla guerra civile spagnola), ma i primi passi nel mondo del calcio li ha mossi con l’Auxerre nel 1983. Il richiamo della sua città natale si materializzerà nel 1988 con la chiamata del vulcanico presidente Tapie, con cui – quasi inevitabile – entrerà presto in rotta di collisione decidendo anche di cambiare aria attraverso due prestiti successivi al Bordeaux e al Montpellier.
Proprio la stagione alla corte di quest’ultimo club convincerà i marsigliesi a riportarlo a casa nell’annata sportiva che culminerà con l’approdo in finale di Coppa dei Campioni a Bari, contro la Stella Rossa. Una finale a cui Cantona non parteciperà per motivi disciplinari. Dopo una stagione in chiaroscuro al Nimes, quindi arriverà l’approdo in Inghilterra con il Leeds che sarà il suo trampolino di lancio verso lo United di Ferguson. Anche con la Nazionale francese il rapporto sarà particolarmente tormentato (definì il CT Michel un “sacco di merda”, tra le altre cose). Ciononostante, a fine carriera le presenze con i Blues saranno 45 con 20 gol, fino all’addio imposto dalla Federazione transalpina, nel 1995, proprio a causa dei fatti della gara col Crystal Palace.