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CALCIO ITALIANO

Pazzo

Quando eravamo alla Fiorentina, vedevamo che Luca Toni, dopo ogni gol (ed erano tanti), esultava portando la mano alle orecchie. Sembrava spremesse un’arancia, in realtà la sua celebrazione rimandava ad un semplice “Mi sentite?“, rivolto alla Fiesole. Il pallone in rete, però, non solo si sente, ma soprattutto si vede. Così, Pazzini prese una particolare abitudine.

Siamo soliti rivolgerci a lui in tono amichevole, fraterno. Quando guardiamo migliaia di tifosi esultare, quando leggevamo le parole impresse sulla lettera che ha spedito al suo mondo, il calcio. Questa, però, è un’occasione speciale: perdonateci se useremo il suo cognome, come faceva chi non lo conosceva. Per tutti è sempre stato il Pazzo, noi compresi (e ci mancherebbe).

Quel vizio dovette aspettare qualche anno prima di essere messo in scena per la prima volta. Toni, infatti, l’abbiamo incontrato in allenamento a Firenze. Eppure noi siamo partiti a Bergamo, dove il nero e l’azzurro sono stati i primi colori a cui ci siamo abituati. Come forse saprete, saranno tanti nel corso della nostra avventura sui campi della Penisola intera. Arriverà il viola, il rossonero, il gialloblù; persino un indefinito blu notte, come lo indossano nella parte di Valencia che non passa le domeniche al Mestalla.

Il posto dove abbiamo vissuto più gioie, però, è indubbiamente Marassi. Il Pazzo ci indicava di continuo, con indosso quella maglia. Blucerchiata, con il bianco, il rosso, il blu ed il nero che compongono una fascia cromaticamente affascinante. Una delizia per gli occhi, non ditelo a noi.

Blucerchiati

Dicevamo, gioie. Come quando in un sabato di fine aprile abbiamo visto Julio Sergio, estremo difensore della Roma ed avversario numero uno in quella serata primaverile. Non ha avuto i riflessi necessari, pronti a respingere il colpo di testa prima e la spaccata su assist di Mannini poi.

Non ci rendevamo conto di cosa avessimo appena provocato. Il match-point dei giallorossi verso la corsa Scudetto buttato al vento per due gol di Pazzini, per due gol nostri. Forse le due occasioni in cui ci ha indicato con più gioia, perlomeno nella sua parentesi ligure. Anche per noi era cruciale: inseguivamo il sogno Champions League, non erano previsti ostacoli sul cammino.

Pazzini
Roma purgata (Foto: Giuseppe Bellini/Getty Images – OneFootball)

Alla fine ce l’avevamo fatta: saremmo andati allo spareggio decisivo per l’ingresso nella fase a gironi della competizione europea per antonomasia. Di fronte a noi il Werder Brema, che all’andata in Germania strapazza la Sampdoria per 3-1. Il Pazzo, però, ci indica.

Alla vigilia del ritorno a Genova, la città è in fibrillazione, perlomeno nelle case dove il rossoblù non è ammesso. Tutti si aspettano una grande partita da noi, tutti prevedono già esultanze sfrenate al nome di Pazzini. In effetti, non ci siamo sottratti al dovere: due reti, una più bella dell’altra. Prima di testa sul palo del portiere, come accaduto ad aprile contro la Roma, poi con un destro al volo. Nel primo gol, non vediamo le dita, probabilmente è sopraffatto dalla prestazione. Sul secondo, però, eccole: ci guardano tutti. Ci vedono, Pazzo.

Gli annali, come noto, non ci hanno permesso di goderci abbastanza quella doppietta. Abbiamo iniziato a scrutare l’esultanza avversaria con un punto di vista differente. Giampaolo si è inginocchiato, la traiettoria visiva non è la medesima delle due esultanze. La consolazione, però, è tutt’altro che vana: Genova ci ha perdonati.

Pazzini
Disperazione (Foto: Olivier Morin/AFP via Getty Images – OneFootball)

Pazzini a Milano

Per un po’ di anni abbiamo circolato in ambienti floridi, espresso un buon calcio ed al contempo raccolto grandi soddisfazioni. Il fascino della grande nobile del calcio italiano, però, non ci aveva ancora rapiti. Bergamo, Firenze e Genova sono piazze calde, ma il richiamo della Madonnina è troppo forte per resistere. Due sponde del Naviglio, prima quella nerazzurra e successivamente la rossonera.

Eravamo arrivati da pochi giorni a Milano. Il caldo respiro che si innalza nei gelidi pomeriggi invernali, con le temperature tanto basse da restituire un ambiente da posticipo serale. Il Palermo va avanti 0-2, guardiamo Leonardo, Leonardo guarda noi. Andiamo in campo, la prima al Meazza con la squadra di casa. Guardiamo il numero: non è più la 10, sulla schiena di un mago olandese, c’è la 7.

Ad un certo punto, non riusciamo a vedere la porta. Diamo le spalle a Sirigu, ma sa di non poter dormire sonni tranquilli. Kharja ci serve, noi vediamo scorrere il pallone. Ci giriamo e il Pazzo incrocia, sia con il destro che con le dita. Partiamo bene. E poi ancora, questa volta con un colpo di testa sull’assist al bacio di Maicon. Saranno mesi agrodolci in maglia Inter, ma ciò non significa che noi non abbiamo vissuto bei momenti. D’altronde bastava che il diretto interessato ci mostrasse agli occhi del mondo, cosa che ha sempre saputo fare egregiamente,

Pazzini
Che esordio a San Siro (Foto: Imago/Gribaudi ImagePhoto – OneFootball)

Quando siamo arrivati al Milan, invece, abbiamo scoperto che la nostra prima in rossonero non sarebbe stata come quella in nerazzurro, perlomeno per il palcoscenico. Si giocava a Bologna, ma i tifosi del Diavolo erano comunque presenti allo stadio. Potevamo sentirli, li abbiamo visti.

Se contro il Palermo ci eravamo fermati a due, questa volta il nome di Pazzini è riecheggiato per tre volte. Il Pazzo porta l’indice ed il medio in su, ma non siamo ad un’interrogazione né ha intenzione di insultare qualcuno sugli spalti. Il solito gesto, ordinario, ma nuovo per quell’ennesima esperienza: ci ha incrociati ancora. Lo ha fatto sui due tap-in che ci hanno regalato il pallone da portare a casa, ma anche sul rigore dello 0-1. Siamo sempre stati bravi a scrutare le intenzioni del portiere dal dischetto.

Noi felici, spalancati per goderci la vista. Lo sconforto dei rossoblù, l’eccitazione dei compagni di squadra. Due anni dopo Lecce-Sampdoria 2-3, un’altra tripletta in Serie A.

Pazzini
Tripletta al Dall’Ara (Foto: Imago/Gribaudi/ImagePhoto – OneFootball)

Dopo il Diavolo, decidemmo di sposare il progetto dell’Hellas Verona, interrotto solo per qualche mese con una parentesi in Spagna, dove anche lì fummo protagonisti di un esordio mica male: doppietta contro il Real Madrid, avevamo visto gioia dopo mesi a guardare dalla panchina. La città dell’amore, però, ci ha conquistato e, di conseguenza, rapito. Osservare la fascia di capitano sul suo braccio era un orgoglio di cui non stancarsi mai.

Ci chiudiamo

E niente. Finisce così, lontano dal campo. Termina una cavalcata durata più di quindici anni, senza stare a contare gli innumerevoli sguardi incrociati, dagli avversari ai compagni, dagli allenatori ai membri degli staff, da chi ci voleva bene a chi non faceva altro che disprezzarci.

Siamo sempre rimasti vigili. Abbiamo versato qualche lacrima, sì, ma soprattutto in questi ultimi mesi abbiamo lasciato spazio ai sorrisi, anche se chi di dovere, più in basso, non poteva esprimersi al meglio dietro ad una mascherina.

Quel bambino pian piano si è fatto grande.

Ha scritto così, in quella lettera, e non poteva essere altrimenti. Abbiamo visto Bergamo, Firenze, Genova, Milano, Verona e siamo stati persino ospiti a Valencia. Quelle due dita ci hanno indicato centinaia di volte, mentre le colleghe dell’apparato uditivo percepivano uno scrosciare di gioia ed ebbrezza ogni volta più fragoroso. Non incroceremo più la mano a V che punta verso di noi. Ma va bene così. Chiudiamo le palpebre, siamo stati pazzi abbastanza.

Gli occhi dei Butei (Foto: Alessandro Sabattini/Getty Images – OneFootball)
Autore

Classe 2000, scrive di calcio e basket, in attesa degli straordinari di aprile. Dall'estate 2020 dirige la redazione di Riserva di Lusso. È l'autore de "Il pipistrello sulla retina".

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