La morte di Giampiero Boniperti, arrivata oggi a 92 anni, ha segnato uno spartiacque, in un certo senso la fine simbolica di un’era calcistica ma anche socio-culturale del calcio italiano. La nostra giovane redazione è riuscita solo sfiorare un brillante simbolo del secondo dopoguerra italiano come il fu calciatore, dirigente e presidente della Juventus, perciò ci siamo rivolti a Enzo D’Orsi, giornalista del Corriere dello Sport che ha seguito la Juventus dal 1979 al 2000 e ha scritto diversi libri sulla squadra bianconera, tra cui i più recenti Gli Undici giorni del Trap. Atene 1983, Non era champagne. La Juve di Maifredi, Montezemolo e Baggio e Michel et Zibi. Gli amici geniali (2018, 2019 e 2020, Edizioni InContropiede). Ringraziando Enzo per la gran disponibilità mostrata nei nostri confronti, vi proponiamo questa sua riflessione su un monolite del Novecento calcistico tricolore.
Si è sempre considerato un agricoltore. Sarebbe stata la sua vita, se l’Avvocato non gli avesse consegnato il club all’alba degli anni Settanta per rifondarlo. “Giovanni e Umberto Agnelli sono stati le mie mezzali, senza di loro non avrei mai fatto gol”, ha sempre detto. Vladimiro Caminiti, il cantore di quelle stagioni, gli dedicò un bel libro e una definizione che gli piacque molto: il salvadanaio della famiglia più potente d’Italia. Da presidente ha vinto nove scudetti, ne ha perduti almeno un paio che non avrebbe mai voluto, quello del 1976 con la rimonta del Torino che recuperò cinque punti di svantaggio. Sognava una Juve europea, con lui arrivò la prima coppa, l’unica di una squadra senza stranieri. La guidava Trapattoni, il tecnico con il quale ha legato di più. La coppa Uefa del 1977 conquistata a Bilbao dopo la doppia sfida con gli irriducibili baschi dell’Athletic. Con la riapertura delle frontiere, voleva la coppa dei Campioni, ma ad Atene fu tradito dalla Juve di Platini e Boniek, di Bettega e dei sei campioni del mondo, contro l’Amburgo. Una delusione immensa. La tragedia dell’Heysel rese amaro e triste persino il successo contro il Liverpool. La sua Juve non ha mai avuto grande fortuna in Europa, c’era spesso un episodio contrario a far saltare ogni piano. Un errore arbitrale, un gol fallito, un gol regalato. Una maledizione.
Con l’avvento di Silvio Berlusconi e del calcio televisivo – in tutti i sensi – Boniperti cominciò a sentirsi un pesce fuor d’acqua. Detestava i procuratori, cosicché sul mercato il suo raggio d’azione si riduceva ai club con i quali aveva buoni rapporti. Ma Gullit e gli altri assi finivano altrove. Si dimise nel Novanta, prima del mondiale italiano, durante il quale fu il capo delegazione della Federcalcio. Richiamato d’urgenza, dopo la fallimentare gestione di Montezemolo e Maifredi, volle con sé Trapattoni, prese Del Piero soffiandolo ai rossoneri, ma i tempi erano cambiati. Tre anni, un secondo posto più la Coppa Uefa nel 1993. Troppo poco. Chiuse lì la sua storia, rifiutando ogni scambio d’opinione con Giraudo e Moggi. “Non sono disponibile per letti a due piazze”, disse. E si ritirò senza ripensamenti.