Che Henrikh Mkhitaryan sia una delle note più liete in questa prima parte di stagione in casa Roma, è fuori discussione. L’armeno, però, va oltre il campo ed i numeri.
Minaccia, azione, conseguenza
Yerevan dista cinque ore di macchina da Stepanakert. O meglio, da Xankəndi. Se ci riferiamo ad un itinerario che possa rimanere entro i confini dell’influenza armena, però, meglio utilizzare un verbo al passato. Decisamente non remoto, magari un imperfetto. E allora, Yerevan distava cinque ore di macchina da Xankəndi. Quando ci si poteva andare.
La specifica sul nome riguarda una diatriba linguistica che è solo uno degli innumerevoli punti di discordia tra l’Armenia e l’Azerbaigian, le cui indipendenze dall’Unione Sovietica sono state dichiarate ad una sola settimana di distanza – 30 e 23 agosto 1991 -, con il completamento delle stesse avvenuto il Natale successivo. Un gioco del destino, nonostante quest’ultimo non sappia ancora da che parte stare.
Sì, perché fondamentalmente si tratta di prendere una posizione, una scelta. È successo, succede e continuerà a succedere a partire dai gelidi inverni dei primi anni ’90. Dopo il 9 novembre 1989 e la caduta del Muro di Berlino, l’aria che si respirava nel Vecchio Continente non prevedeva guerre e distruzioni. Quella che sarà la dissoluzione sistematica della Jugoslavia e la guerra in Nagorno-Karabakh, però, diranno il contrario.
Lo sa bene Henrikh Mkhitaryan, uno che con armi, flagelli e disperazione non dovrebbe averci nulla a che fare. Lui gioca a pallone, abituato ad una terminologia ben più gioviale. Eppure, proprio perché nato a cinque ore di macchina da Stepanakert – o Xankəndi, ancora -, quella guerra non può che bussare alla porta dei pensieri, tra un’esultanza e l’altra per i 10 gol e 10 assist finora a referto in stagione.
Mkhitaryan non porta pena
Un bel bottino, quello dell’ex Manchester United ed Arsenal, tra le compagini in cui ha militato. Che sono svariare, tra l’altro, a partire da qualche mese dall’altra parte dell’Atlantico per far propri i segreti dello sviluppo calcistico brasiliano, nel San Paolo. L’obiettivo – dichiarato – era seguire le orme di papà Hamlet, ex attaccante di squadre armene prima e francesi poi, che aveva chiuso gli occhi troppo presto – alle sette candeline del figlio – stroncato da un tumore al cervello.
E così prende appunti in Brasile, cresce nella società cittadina di Pyunik, attira l’interesse dei club di Donetsk – prima il Metalurg, poi il ben più ambizioso ed attrezzato Shakhtar – ed esplode in Germania, di fronte al Muro Giallo di Dortmund. Infine, la Premier League e l’approdo sulla sponda giallorossa del Tevere. Le sue caratteristiche sono note ai più: dinamico e funambolico, non ha mai disdegnato l’esser posizionato vicino alla porta avversaria, in modo da sfruttare le diverse armi realizzative a sua disposizione. Ma Henrikh Mkhitaryan, per la diatriba di cui sopra, è decisamente più che un banale e comune giocatore.
Nella sua Armenia – e non potrebbe essere altrimenti -, il classe 1989 nativo della capitale è un vero e proprio idolo. E se non lo aveste ancora capito, il calcio occupa solo una piccola parte nel grafico a torta dell’approvazione nei suoi confronti. Da quando i riflettori del calcio europeo hanno iniziato ad illuminarlo, l’attuale fantasista della Roma non ha mai smesso di far luce a sua volta sulle tensioni in Artsakh – il nome del territorio secondo gli armeni, noto alla comunità internazionale come Nagorno-Karabakh -, con la ripresa del conflitto nel settembre scorso che è stato solo l’ultima scossa in uno sciame d’odio che perdura da decenni.
L’attestato di stima è pervenuto anche dagli uffici dell’Ambasciata armena in Italia, con le parole della rappresentante dell’Armenia nel nostro Paese, Tsovinar Hambardzumyan:
Credo che sia molto importante il fatto che è proprio Mkhitaryan il miglior esempio di successo per i bambini armeni, con la sua saggezza, con le sue capacità professionali e con la sua umiltà. E non è casuale che sia stato nominato Ambasciatore di Buona Volontà dell’Unicef. Nei giorni dell’aggressione turco-azera contro il Nagorno Karabakh Mkhitaryan ha più volte fatto degli appelli di pace, richiamando l’attenzione del mondo sulle violazioni dei diritti umani fondamentali.
La sua è una storia di appelli, certo, ma anche di rinunce. Sono passate agli onori della cronaca – britannica e non – quelle in maglia Dortmund prima ed Arsenal poi, quando per più di un’occasione non è sceso in campo con i Gunners nelle trasferte europee in Azerbaigian, a casa del nemico. Dopo il rifiuto risalente al 2015 con i gialloneri, la replica è arrivata nel 2018, con la sfida in Champions League tra il Qarabag – squadra originaria di Agdam, città fantasma rasa al suolo durante il conflitto del secolo scorso – e la squadra allenata da Unai Emery.
Il “no” che ha fatto più scalpore, però, è sicuramente quello avvenuto in occasione della prima finale europea ospitata dagli azeri, l’atto conclusivo dell’Europa League 2018/2019 nel derby tra Arsenal e Chelsea allo Stadio Olimpico di Baku. Anche questa volta, Henrikh non recita la parte in un palcoscenico nel quale non avrebbe voluto – e quasi sicuramente non sarebbe accaduto – ricevere applausi. Difficile vestire i panni dell’attore, in casistiche simili.
Non finirà qui
Magari fossero novanta minuti. La partita che si gioca a due passi dal confine con l’Europa è una straziante condanna destinata a tempi supplementari che, molto probabilmente, non avranno una conclusione. Nonostante un “cessate il fuoco” firmato nel 1994 sotto la supervisione dell’OCSE e la presidenza nella Conferenza di pace dell’italiano Mario Raffaelli – dopo sei anni di guerra ininterrotta, con migliaia di vittime civili -, le violazioni di quest’accordo di pace sono avvenute più e più volte nel corso degli anni.
L’ultima grande goccia a traboccare dal vaso dell’incertezza è pervenuta – come anticipato – a fine settembre, con l’interruzione delle attività belliche avvenuta il 10 novembre successivo. Questa volta, però, l’esito fu diametralmente opposto a quello del 1994. L’Azerbaigian è riuscito a conquistare ingenti porzioni di territorio in quella che ormai è una Repubblica dell’Artsakh largamente ridimensionata. Un tira e molla continuo, con le uniche vittime – come spesso accade in situazioni simili – che non hanno nulla a che vedere con le decisioni impartite dall’alto.
We have an unalienable right to live in our homeland without an existential threat. Our children have the right to live in peace rather than hiding in shelters.
I always stand by my Nation🤍#ArstakhStrong pic.twitter.com/sxauwsoRcT
— Henrikh Mkhitaryan (@HenrikhMkh) September 27, 2020
Non è chiaro chi abbia dato il via all’ennesima riapertura della ferita tra le due Nazioni limitrofe, ma ancora una volta a rimetterci sono stati i civili. Altresì non è chiaro individuare quali dei due Paesi abbia il diritto di esercitare la propria influenza su questo territorio, storicamente armeno ma che ha al contempo abitato una consistente frangia di popolazione azerbaigiana. Ciò che trapassa il velo di Maya è la sensazione che non sia finita così, e che ancora una volta quel “cessate il fuoco” si tramuterà in una nuova ripresa dei combattimenti.
Non è semplicemente corretto puntare il dito sul colpevole ad allungare un braccio sulla spalla della vittima, poiché non si tratta di una decisione arbitraria, su due piedi. Alle spalle ci sono decenni di tensioni, scontri, ideologie a confronto. Alle spalle ci sono popoli stanchi di veder razzi volare sopra le proprie teste. E pazienza se Roma non è in Armenia: l’allarme per rifugiarsi nei bunker lo sente anche Henrikh Mkhitaryan, l’ambasciatore che lancia appelli con il pallone tra i piedi.