Negli ultimi anni la fruizione del prodotto calcistico è stata segnata dall’esplosione di un fenomeno che può offrirci interessanti spunti sulla società in cui viviamo: gli highlights. Si tratta di filmati di pochi minuti che concentrano gli episodi salienti di una partita, disperdendo nell’oblio le fasi di contorno. Secondo uno studio condotto negli Stati Uniti a fine 2020, solo meno di un quarto dei ragazzi appartenenti alla generazione Z ritiene importante seguire un evento sportivo in tempo reale. In relazione al suolo italico è difficile rilevare numeri precisi, ma possiamo mettere a confronto quello degli abbonati a DAZN (piattaforma che detiene i diritti di tutte le partite di Serie A per la stagione 2021/22) con quelli delle visualizzazioni dei canali YouTube che caricano highlights di partite. Si delinea una tendenza meritevole di approfondimenti.
L’OTT londinese – secondo quanto riportato da Calcio e Finanza – vanta all’incirca due milioni di abbonati, mentre i video di highlights pubblicati dal profilo ufficiale della Serie A su YouTube contano dalle centinaia di migliaia di visualizzazioni per le partite di squadre di medio-bassa fascia fino a picchi di uno o due milioni per i big match. Premessa doverosa: il confronto va preso con le pinze in quanto non si considera che spesso il medesimo account DAZN viene condiviso da più persone, o che vi siano chiaramente abbonamenti alternativi che permettano di avere accesso alle partite; presumendo però che gli abbonati fruiscano degli highlights messi a disposizione sulla piattaforma, si può dedurre (per quanto poco inferenzialmente) che una fetta di popolazione segua il calcio solo ed esclusivamente attraverso i riassunti brevi ricaricati su piattaforme terze.
Come gli highlights cambiano la percezione del gioco
Tralasciando i discorsi paternalistici e nostalgici che addossano alle nuove generazioni, spesso senza il supporto di dati, la colpa di essere orientate verso una fruizione più spettacolarizzata e sensazionalistica dello sport, è interessante riflettere su come gli highlights possano rivoluzionare la percezione dello sport stesso. A questo proposito, è illuminante un’intervista recentemente rilasciata da Robert Lewandowski. Il fuoriclasse polacco rivela che:
In questa industria c’è sempre più gente che non vede le partite, né analizza quel che accade, poiché nell’epoca moderna si ha sempre meno pazienza per vedere attentamente i novanta minuti delle partite e si guarda solo alle statistiche e ai big data. Se vedono che segni dicono: «ok, era presente». E se non segni, anche se hai giocato in modo brillante, il loro giudizio è negativo. Ormai anche i giornalisti giudicano le partite attraverso gli highlights. Questo mondo ha cambiato la condotta dei giocatori in campo.
Ciò che emerge dall’intervento dell’attaccante del Bayern Monaco è che la società degli highlights non ha solo mutato la percezione degli spettatori, ma anche quella degli attori stessi del calcio, investiti dalla pressione di un giudizio cinico che spesso si fonderà solo su singoli episodi. Nella prospettiva di Lewandowski, un attaccante che non segna, per quanto possa essere funzionale al gioco della squadra, non è più solo un attaccante poco prolifico, ma è uno che, nella dimensione virtuale degli highlights, non esiste. O ancor peggio, un mediano che detta i tempi di gioco, costituendo il cervello vero e proprio della squadra, svolgendo un compito che è sempre di contorno, difficilmente figurerebbe nei tre minuti di highlights di una partita, e quindi, sarebbe destinato all’oblio.
Minor sforzo, massimo intrattenimento
È difficile capire quanto si tratti solo di una distopia lontana e quanto invece quello degli highlights rappresenti un sottosuolo già costituito, abitato da amateurs che vivono il calcio solo nella dimensione sinottica. Ciò detto, il fenomeno va analizzato inserendolo in un quadro più ampio per capire realmente quali siano le sue radici. Viviamo una società che insegue progressivamente la semplificazione in tutte le sue forme e che, pur di evitare il confronto con la complessità, è disposta attraverso la tecnica a rendere in apparenza semplice ciò che in realtà non lo è. La soglia media dell’attenzione è in costante calo e, che si tratti della causa o dell’effetto, ciò ha avuto un’irrimediabile impatto sulla produzione umana: i minutaggi delle serie TV e dei contenuti audio-visivi ‘tout court’ si abbassano, a spopolare sono le piattaforme che consentono il maggior intrattenimento con il minor sforzo di concentrazione. Tik Tok è il più fulgido esempio della trasformazione in atto nella società contemporanea: contenuti ridotti all’osso, scarse capacità cognitive richieste, ma prodotti immediatamente ‘catchy’, che danno sollievo per pochi secondi, finché ci si imbatte in un nuovo stimolo e si finisce intrappolati nel vortice. La domanda fondamentale, per quanto si sia scettici circa il reale stato dell’arte, è la seguente: come cambia il calcio, in uno sfondo simile?
Gli stadi italiani sono ancora oggi stracolmi di tifosi appassionati pronti ad esaltarsi per una scivolata sporca che stronca un contropiede e, per quanto ci sia un lento calo d’interesse dei giovani nei confronti dello sport (secondo uno studio McKinsey/Nielsen su un campione sparso fra Inghilterra, Spagna, Germania, Polonia, Olanda e India, il 27% dei ragazzi fra i 16 e i 24 anni ha dichiarato di non avere alcun interesse per il calcio), il processo di disaffezione sembra ancora ben lungi dal suo compimento. Tuttavia, è possibile ipotizzare un futuro dispotico in cui il calcio venga fruito principalmente per mezzo degli highlights?
Lo scoglio fondamentale per un calcio percepito come puro intrattenimento sembra essere la matrice passionale e identitaria intrinseca al fenomeno del tifo, che delinea una dicotomia difficilmente superabile. Quando i tifosi parlano della propria squadra si collocano all’interno del microcosmo che la costituisce, si considerano personaggi protagonisti interpretati dai giocatori che li rappresentano. Non a caso, molti fruitori del calcio via-highlights sono spettatori disaffezionati che guardano il resoconto di una partita in una dimensione totalmente diversa rispetto ai fruitori del prodotto integrale. Spesso questa nuovo prototipo di spettatore si appassiona ai singoli calciatori più che alle squadre e, in merito a questa categoria, è interessante chiedersi se si tratti di persone che non avendo radici di tifo in famiglia non si sarebbero comunque avvicinate al calcio; oppure di spettatori che, per scelta arbitraria, decidono di godersi lo spettacolo in modo emotivamente disinteressato.
Questa categoria di nuovi fruitori vive il calcio in una dimensione sostanzialmente virtuale: se Lewandowski segna, significa che si è attenuto alle funzioni meccaniche del suo personaggio; se non timbra, invece, è una macchina che ha smesso di funzionare. In questa dimensione distorta è impossibile non considerare i calciatori come meri strumenti di spettacolo, che devono far divertire con un doppio passo, una rovesciata o uno spericolato intervento da cartellino rosso. Immaginate di vedere un’uscita dalla pressione di Frenkie De Jong in un filmato di highlights: stonerebbe perché è una macchina di contorno, che non produce alcun effetto direttamente tangibile, mentre allo spettatore di highlights interessano solo le funzioni finalizzate all’obbiettivo finale: il gol.
Rinunciare ad affrontare la struttura che conduce a un gol o a una giocata raffinata significa accettare di avere un accesso solo parziale allo spettro di emozioni, simboli e significati che si celano dietro a una partita di calcio. Un gol di Lewandowski che risolve una partita tatticamente bloccata ha un significato – e quindi un effetto cognitivo sullo spettatore – totalmente diverso rispetto allo stesso gol contestualizzato in un filmato con le poche occasioni del match. A dimostrazione di ciò, spesso capita di vedere highlights di partite che, viste in presa diretta, offrivano una percezione del tutto diversa sul dominio esercitato dalle squadre.
Il calcio come Fortnite
Analizzare le cause che si nascondono dietro all’esplosione di questa nuova forma di intrattenimento può essere utile non tanto per giudicare moralisticamente il fenomeno, quanto per ragionare su come l’industria calcio debba rinnovarsi per riacquisire appetibilità agli occhi delle nuove generazioni. Proposte come quella di una riduzione dei tempi, o di una Super League che permetta alle migliori squadre europee di affrontarsi ogni settimana, col rischio di trasformare in abituale noia anche le poche partite che attirano ancora un bacino di utenza vastissimo, sembrano essere mere semplificazioni di una questione ben più profonda.
Il calcio non potrà mai avvicinarsi alla frenesia interattiva di uno sport come Fortnite – spesso utilizzato come stella polare di riferimento dai presunti ‘riformatori superleghisti’ – poiché è uno sport lento, ragionato, ricco di momenti scacchistici in cui, per quanto sembri non succeda nulla, in realtà sono in moto numerosi processi complessi che daranno i loro frutti nel corso della partita. Se, anziché lasciare che questi momenti apparentemente morti vengano oscurati in favore dei pochi episodi salienti, decidessimo di investire su una cultura sportiva più orientata sulla spiegazione dei meccanismi che entrano in gioco in tali momenti, e meno su arbitri, polemiche e narrazioni medievali che relegano il calcio a uno sport in cui è necessario soffrire e sputare sangue per ottenere risultati, ne gioverebbe tutto il movimento.
Il calcio deve ricordarsi di intrattenere, ma per farlo deve esaltare i suoi punti di forza, piuttosto che rinnegarli: l’obbiettivo deve essere colorare il grigiore dei momenti in cui si costruisce l’highlight, offrire a tutti spunti per comprendere la logica con cui ventidue calciatori si coordinano nei movimenti all’interno di un rettangolo verde. Edgar Morin, nella sua teoria della complessità, scrive:
V’è complessità quando sono inseparabili le differenti componenti che costituiscono un tutto […] e quando v’è un tessuto interdipendente, interattivo e interretroattivo fra le parti e il tutto e fra il tutto e le parti.
Sistemi come quello del Liverpool di Klopp o del City di Guardiola sono macchine perfette in cui ogni singolo movimento contribuisce a generare un armonia universale che in campo dà vita a un’unica creatura composita di undici arti. Se anche solo una parte non adempiesse al suo compito, gli ingranaggi dell’intera macchina si spezzerebbero. Separare questa complessità intrinseca al calcio in azioni salienti condotte da singoli calciatori, che perdono la loro funzione di parte di un tutto, significa svalutare la potenza di questo sport: per plasticità dei gesti singoli, decontestualizzati dalla rete di scambi che li ha prodotti, difficilmente il calcio può competere con altre forme di intrattenimento.
Quello degli highlights è un fenomeno che deve imporre una riflessione ai vertici del calcio. L’impressione è che le proposte annunciate da autorità come Agnelli e Perez vadano nella direzione di un calcio che possa competere con le forme di intrattenimento videoludiche. Come già detto, uno scenario difficilmente realizzabile. Piuttosto sarebbe più efficace offrire una seconda navigazione del prodotto calcistico: mai come oggi, tra analisi tattiche che pullulano sul web e data avanzati che offrono svariate chiavi di lettura, è possibile approfondire la propria comprensione del gioco.
L’unico modo per rendere appetibili i diversi momenti di transizione di una partita agli occhi di una generazione in costante ricerca di stimoli visivi è colorarli di senso, rivelando i meccanismi a cui rispondono. A quel punto non solo gli stessi momenti morti, riempiti di logica, riprenderanno vita agli occhi dello spettatore, ma anche gli episodi salienti beneficeranno di un significato più pregnante perché non saranno più solo singoli gesti spettacolari che intervallano una noia non meritevole di attenzione, bensì piccoli miracoli prodotti da macchine pensanti.
Scordiamoci le metafore belliche, la retorica sui giovani che devono aspettare anni prima di poter essere pronti a giocare, e recuperiamo la bellezza del calcio: non sarà mai il gioco più intrattenente con la minor richiesta cognitiva, ma può essere il più appassionante nella sua straordinaria complessità.