Se la Danimarca del 1992 viene ricordata come “dinamite danese“, Peter Schmeichel era la sua miccia. Il paragone è totalmente azzeccato, visto il carattere fumino e la forza esplosiva che aveva tra i pali. All’ingresso in campo gli avversari avevano solo due pensieri: il primo era una speranza, quella di non doversi trovare uno contro uno con quel colosso; il secondo era un brutto presentimento, sapevano che fargli gol non sarebbe stato affatto facile.
Re d’Europa
Peter Schmeichel rientra nella stretta cerchia di privilegiati che hanno avuto la fortuna di laurearsi campione d’Europa sia a livello di club che con la nazionale nell’arco della propria carriera. Due vittorie tutt’altro che scontate, una da underdog e una ai limiti dell’incredibile.
La Danimarca di EURO 1992 è una Cenerentola del calcio. Durante il torneo ha sgomitato tra le grandi fino a conquistarsi un posto nella storia, ma il bello è che quell’Europeo non l’avrebbe neanche dovuto giocare. Nel girone di qualificazione, infatti, i danesi avevano fatto meglio di Irlanda del Nord, Austria e Isole Fær Øer, ma non della Jugoslavia del veronese Dragan Stojković. Caso volle che nella primavera del ’92 si amplificò la guerra nello Stato slavo in seguito alle dichiarazioni d’indipendenza di Slovenia, Croazia, Macedonia e Bosnia-Erzegovina, al che la nazionale venne squalificata dalla UEFA. Il posto vacante fu assegnato proprio alla Danimarca, seconda del suo girone e miglior seconda in assoluto.
Se vogliamo, Schmeichel avrebbe potuto mancare l’evento anche per un altro motivo. Peter nasce a Søborggård nel 1963, quando papà Antoni – polacco – ancora non ha ottenuto la cittadinanza danese. Per legge il bambino non può considerarsi cittadino, sebbene sua madre lo sia. Tempo al tempo. Nel 1970 arrivano i documenti nazionali per tutti in casa Schmeichel. Chissà che storia avremmo raccontato oggi se il portierone danese non avesse mai indossato la maglia della nazionale danese, magari il titolo del ’92 sarebbe andato alla Polonia…
Basta fantasticare, andiamo dritti al sodo. In Svezia va in scena un torneo piuttosto breve, con otto squadre divise in due gruppi dai quali escono i nomi delle semifinaliste. La Danimarca si conquista in extremis il passaggio del turno vincendo contro la Francia, ma viene sorteggiata con i campioni uscenti dell’Olanda. La gente inizia a simpatizzare per i danesi, ma i media sono d’accordo: i leoni se li mangeranno vivi. Nulla di più lontano dalla realtà.
Gli Orange sono costretti ad inseguire per due volte nei 90 minuti e strappano il 2-2 che prolunga il match solamente a quattro giri di lancette dal fischio finale grazie ad una zampata di Rijkaard. La resistenza danese ai supplementari porta il nome di Schmeichel. Si va ai calci di rigore. Iniziano gli olandesi con Koeman. Peter prende posto sulla linea. Rob Hughes scrive sul The Times:
Occupa tutta la porta.
Spaventato o no, Koeman tira il rigore della paura: una bordata centrale, come va va. Schmeichel si tuffa alla sua sinistra, nulla da fare. Dopo il gol col brivido di Larsen, è il turno di Marco van Basten. Battezza lo stesso palo anche per affrontare il milanista. Il fischietto spagnolo Emilio Soriano Aladrén dà il via libera, van Basten carica il destro accompagnato dai flash dei fotografi e calcia, proprio lì dove il portierone danese si fa trovare pronto. Parato. La metà rossa dell’Ullevi di Göteborg esplode di gioia. Schmeichel si mostra prima impassibile, poi sfoggia un’esultanza contenuta: sa di aver messo la strada in discesa per i suoi compagni.
Non sbaglia più nessuno e Kim Christofte segna il rigore decisivo. La Danimarca è riuscita nell’impresa di mandare a casa l’Olanda. E di solito chi fa trenta fa anche trentuno: con il 2-0 sulla Germania in finale si realizza il sogno danese, quello di una nazionale che aveva perso il treno qualificazione ma era tornata di corsa sulla carrozza di Cenerentola. Più che di scarpetta, però, potremmo parlare di guantoni di cristallo.
Sette anni più tardi arriva il secondo successo. È la Champions League 1999 con il Manchester United. Cambiano stemma e contesto, ma il rosso rimane. Rimane sulla maglia dei Diavoli d’oltremanica e sul naso di Peter, pronto a singhiozzare quando ormai manca solo il recupero da giocare nella finale del Camp Nou e il Bayern Monaco è avanti 0-1. Quella sarebbe stata la sua ultima partita per il club che l’ha portato ad essere considerato tra i migliori, perderla sarebbe stato un bel rospo da ingoiare. Ora immaginate la felicità quando nel post-partita teneva una mano sulla coppa e una sulla bottiglia di champagne.
Mentre i bavaresi prendono a pallonate i suoi, Sir Alex Ferguson pesca due jolly dalla panchina: Teddy Sheringham e Ole Gunnar Solskjær. Il primo accarezza un pallone svirgolato da Ryan Giggs e firma il momentaneo pareggio al 91′. Il secondo manda in estasi gli inglesi correggendo in rete una zuccata dello stesso Sheringham al 93‘: 2-1.
In soli due minuti, con solo due calci d’angolo, i Red Devils la ribaltano, condannando il Bayern a quella che Oliver Khan definisce la “madre di tutte le sconfitte”. Per un portiere che piange uno che non sta più nella pelle, perché Peter è nella propria metà campo che dà spettacolo a suon di capriole. Con qualche abbraccio ai compagni e una risata esorcizza la paura e la trasforma nel miglior addio di sempre.
All in the box
Avete presente quando al campetto nessuno vuole stare in porta? Qualche santo di cui non conosciamo il nome decise di inventare il ruolo del portiere volante, un portiere – appunto – che è presenza fissa nell’area avversaria quando la sua squadra attacca. All’occorrenza nei minuti finali Peter Schmeichel faceva proprio questo, si sganciava e andava a creare scompiglio negli ultimi sedici metri. Che non diventi un vizio… il vizio del gol.
Partita di ritorno dei trentaduesimi di finale di Coppa UEFA 1995/96, Manchester United-Rotor Volgograd. I russi chiudono il primo tempo in vantaggio di due reti e, considerando lo 0-0 dell’andata, hanno già un piede e mezzo al turno successivo. Nella ripresa arriva il gol di Scholes, poi allo scadere segna proprio Schmeichel che era salito per un ultimo disperato tentativo. Il 2-2 non basta, ma quantomeno lo United salva la faccia.
Una stagione più tardi si ripete in Wimbledon-Manchester United, il replay del quarto turno di FA Cup. Questa volta il gesto tecnico merita menzione: una splendida rovesciata sottomisura. Peccato per la bandierina alzata, è fuorigioco. Quel gol non solo avrebbe evitato l’eliminazione allo United, ma avrebbe anche potuto strappare una candidatura al Puskas Award.
Tornerà a segnare, su calcio di rigore, nell’amichevole Danimarca-Belgio dell’estate 2000. Eppure il suo gol più famoso non arriva né con il Manchester United né con la nazionale danese. Dopo l’esperienza in Portogallo con lo Sporting, Schmeichel torna a giocare in Inghilterra per l’Aston Villa. Il 20 ottobre 2001, in una trasferta di campionato a Goodison Park contro l’Everton, realizza un gol inutile ai fini del risultato (3-2 per i Toffees) che però gli conferisce il titolo di primo portiere ad andare a segno nella storia della Premier League. Vola Peter vola.
DNA Schmeichel
Anche se nel 2003 Peter dice addio al calcio, i telecronisti non smettono di pronunciare il cognome Schmeichel. Il figlio Kasper, infatti, ha deciso di seguire le orme del padre e ha appena dato il via alla sua carriera. Una premessa non da poco: a lui il padre ha trasmesso il nome, la passione e il talento, quest’ultimo sotto forma di guantoni di cristallo. Esatto, torniamo a parlare di un Cenerentola. E se non lo è questa, allora non lo è nessuno…
Kasper Schmeichel trova la sua dimensione a Leicester. Arriva nel 2011 quando il club milita in Championship e cresce di pari passo con le Foxes, conquistando la promozione nel 2014. Dopo una salvezza miracolosa, Claudio Ranieri conduce la squadra sul tetto d’Inghilterra. All’epoca, stagione 2015/16, la vittoria della Premier League da parte del Leicester City era quotata 5000 a 1. Il destino ha voluto unire ulteriormente Peter e Kasper. Dopo la storica festa al King Power Stadium, Peter dirà:
Kasper è sempre stato chiamato “il figlio di Schmeichel”… no! Lui è Kasper Schmeichel, campione d’Inghilterra, e io sono suo padre.
Peter è stato bravo a non creare una competitività nociva con suo figlio e, anzi, non si è mai fatto problemi ad esaltarlo. A dimostrazione di ciò basti pensare a come la leggenda ha vissuto e sostenuto Kasper ai Mondiali di Russia 2018. Dopo essersi qualificata come seconda del proprio girone, la Danimarca affronta la Croazia agli ottavi di finale.
Gli scandinavi si portano in vantaggio con il primo pallone giocabile, poi vengono subito ripresi dallo juventino Mandzukic che si fa trovare al posto giusto al momento giusto per approfittare di un pasticcio difensivo. L’equilibrio regge fino al triplice fischio e oltre, finché Rebic non dribbla Schmeichel e viene abbattuto dalla scivolata di Zanka Jørgensen. Calcio di rigore al 116‘.
Dopo le proteste dei croati che volevano l’espulsione di Jørgensen, solo ammonito, l’arbitro fa posizionare la sfera sul dischetto. È il madridista e futuro Pallone d’Oro Luka Modric contro Kasper Schmeichel. Un po’ con il braccio sinistro, un po’ con il fianco, riesce a neutralizzare il tiro. La Danimarca è in quel pallone, vive, respira ed esulta. Peter in tribuna urla più di tutti i suoi connazionali che si sono riuniti davanti al megaschermo a Copenaghen. Ai calci di rigore Schmeichel junior nega il gol anche a Badelj e Pivaric, ma i suoi compagni non riescono a restituirgli il favore. Capolinea.
Ad ogni intervento di Kasper le telecamere andavano a pescare suo padre, come se in porta fossero in due. Smaltita la delusione per la sconfitta, Peter ringrazia suo figlio e la Nazionale con questo tweet al miele:
Lost for words. Can’t be more proud of my country, my son, his teammates, all the staff and our fantastic national coach Åge Hareide. When all the tears have dried out we will realise how well we did 🇩🇰 #WorldCup pic.twitter.com/vhGZQtDyJm
— Peter Schmeichel (@Pschmeichel1) July 2, 2018
Osso duro sul campo, tenerone fuori. Ve lo immaginavate così? Kasper non potrebbe avere modello migliore da seguire.