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CALCIO ITALIANO EXTRA-CAMPO

Il Milan senza Maldini: perché Cardinale lo ha fatto fuori?

Al Milan non esistono estati tranquille. I tifosi rossoneri sono sempre stati vittime di immensi periodi di incertezza nei periodi estivi recenti. Dai calciatori fino alla proprietà: pensiamo all’estate del rinnovo di Donnarumma, oppure al tradimento di Çalhanoğlu. I mercati faraonici delle «cose formali», le consuete perdite a parametro zero dei pilastri della formazione, il dietrofront su Ralf Rangnick. Fino all’esilio di Paolo Maldini, licenziato da Gerry Cardinale senza troppe carinerie, quindi alla cessione di Sandro Tonali. Difficilmente non si trova qualcosa da raccontare nell’universo milanista.

Sono tutte questioni, quelle elencate, che nel bene o nel male hanno tracciato la traiettoria attuale del Milan. E quella più netta sembrerebbe proprio l’episodio che coinvolge Paolo Maldini. Una separazione brusca, un’installazione americana delicata quanto un golpe di Stato. Probabilmente l’unico metodo possibile per una figura come quella di Paolo Maldini.

Un avvenimento spiazzante al tempo, ma che oggi si legge in maniera più chiara. Oggi il Milan è stato raccolto da RedBird per poter essere telecomandato dalla nuova frontiera del calcio, la scienza dei dati. I nomi dei piani alti del Milan oggi rispondono a quelli di Giorgio Furlani e di Geoffrey Moncada, promossi dai loro precedenti incarichi. Nomi sconosciuti ai più, dalle personalità tascabili, ma non per questo meno efficaci. Uomini di Cardinale, uomini del Milan, impiegati per il Milan. Ecco, forse quest’ultimo punto dev’essersi perso fra le strade delle idee di Maldini.

Per comprendere come siamo arrivati al licenziamento di Paolo Maldini e della nuova direzione intrapresa dal Milan, bisogna riavvolgere brevemente il nastro. A partire dall’estate del 2019, quando Leonardo si dimette dalla carica di dirigente sportivo del Milan, dando modo all’ex terzino sinistro di tornare nel suo club in cui è stato leggenda. Comprendendo il significato di Paolo Maldini dirigente.

Maldini dirigente, il primato del Papa

Esattamente dieci anni dopo il suo ritiro dal calcio giocato, il capitano storico del Milan si siede sulla poltrona d’onore di San Siro. Maldini sapeva bene che un giorno sarebbe tornato al Milan dopo il ritiro da calciatore, e aveva cominciato a costruire la sua aura da dirigente sportivo già da prima del suo insediamento. Nel 2014 si concede alla Gazzetta dello Sport in via esclusiva, pronto a far valere tutto il peso delle parole e della sua opinione.

«Hanno distrutto il mio Milan».

Inequivocabilmente vero. Tuttavia, da questo titolo già si evince tutto il maldinismo traboccante: il mio, Milan.

Maldini non ha mai fatto del suo ego un segreto. Dalle parole fino alle azioni. Il vecchio numero 3 rossonero altro non può essere che il futuro numero 1 del Milan nella sua testa, in senso dirigenziale – e non ha mai avuto problemi a renderlo noto a tutti quanti. Sullo stesso argomento, ci si era chiesto sul perché Maldini non fosse entrato prima alla dirigenza del Milan. Il capitano rossonero ribadiva l’assenza di un progetto solido, il che era vero; ma in primis, per Maldini, non esisteva mondo in cui lui non fosse immagine del club. Lui stesso si definirà un garante del progetto del club, non inventando un ruolo, bensì un compito del tutto nuovo.

Coadiuvato da Boban prima e da Massara poi, Maldini selezionava i profili proposti dell’area scout. Lui era la parola definitiva sul procedere alla trattativa, nonché primo interlocutore degli agenti e del calciatore. Un magnete capace di attrarre i talenti più giovani in cerca di lustro, una personalità forte a cui affidare la propria crescita nel progetto Milan. L’obiettivo? Una squadra giovane con elementi esperti, pronta a risalire la china e magari vincere qualcosa. Il progetto «sostenibile» di Elliott sceso a patti con le ambizioni «vincenti» di Maldini.

Un ibrido strategico che ha portato il Milan al ritorno in Champions League, al diciannovesimo scudetto e a un insperato euroderby in semifinale di Champions League, persi però malamente. Senza dilungarci sui traguardi raggiunti sul campo, ciò che è premura è analizzare la figura di Maldini in queste situazioni, il suo atteggiamento con i media e i messaggi che invia alla tifoseria. Pensiamo all’intervista concessa alla Gazzetta dello Sport qualche giorno dopo la festa in Duomo per lo scudetto, oppure alle parole ai microfoni dopo i due euroderby. Paolo Maldini si pone per il tifoso milanista come un faro ideologico che traccia la via del futuro, o una scialuppa di salvataggio quando la tempesta imperversa su San Siro. Eclissando il campo, ergendo la sua figura all’attenzione dei tifosi.

L’ambizione è quella di professare una fede maldiniana. Paolo Maldini godeva del primato del Papa sull’universo del Milan: salvatore dalle tenebre milaniste, pastore per il cammino brioso che attende il Milan. Un cardinale eletto e superiore rispetto agli altri. I tifosi milanisti si stringevano volentieri attorno a lui, come fedelissimi adepti, aggrappati al suo valore inesplicabile e fondamentalmente superiore di leggenda ultraterrena. E così veniva narrato il suo Milan, un gruppo di bravi ragazzi capaci di gettare il cuore oltre l’ostacolo, in perpetuo momento di overperforming, pronto a cadere da un momento all’altro, mosso da un senso superiore.

Ma non è stato soltanto l’operato di Paolo Maldini a far credere che il Milan fosse solo questo, bensì altri due simboli: Zlatan Ibrahimović e Sandro Tonali. C’era un’idea ben precisa dietro l’assemblaggio di quel Milan maldiniano, ovverosia colmo di tutti quei valori inesplicabili superiori. Ibrahimović la storia, Tonali l’amore per il Milan, Maldini l’anima dello stesso club. Era veramente difficile non appassionarsi a queste storie per i tifosi, che difficilmente sviluppavano analisi lucide sul loro rendimento.

Paolo Maldini e Zlatan Ibrahimovic seduti sulla panchina del Milan
Dio e Profeta, Ibrahimovic e Maldini (Foto: Miguel Media/AFP via Getty Images – OneFootball)

Il Milan si posizionava volentieri in uno status continuo di underdog, piena antitesi del vecchio Milan che ha fatto tremare il mondo. Fase di transizione, certo, ma anche pericolosa comfort zone. Così avrà pensato Cardinale, se di ambizione vogliamo rivestirlo. Sgomberato del (presunto) peso specifico storico che rende intoccabili, ha fatto lasciare per via naturale Ibra, messo alla porta (di grazia) Tonali, scalciato via Maldini con forza. Ecco il nuovo Milan targato RedBird, sgomberato dal peso della storia. Laico.

Paolo Maldini rischia di consegnarsi alla storia come una figura controversa da dirigente sportivo. Difficile da giudicare pienamente o, meglio, cinicamente. Perché uno dei primi dirigenti a comporsi di passato, di senso superiore, di aura, piuttosto che effettivo operato. Su quest’ultimo, difficile dire cosa e come valutare. Dai parametri zero di Donnarumma, Çalhanoğlu, Kessié e Romagnoli fino ai colpi di Maignan, Kalulu, Theo Hernández e Tomori. Ma anche qui è difficile attribuire meriti e colpe, a partire dall’ausilio di Frederic Massara, fido compagno, fino allo scouting di Geoffrey Moncada. Dove inizia Maldini? Fin dove arriva la sua mano? Quand’è che sbaglia, Paolo Maldini?

Si ricorderanno le trattative estenuanti e logoranti, la «schiena dritta» sui rinnovi. Si pronunciava spesso contro la proprietà, invocando investimenti (più) sostanziosi. Operazione quantomeno furba, perché esponeva al tifo milanista il poco margine di manovra, quindi proteggendosi dal suo operato. Con la malizia di proiettare su Elliott/RedBird le colpe delle proprie scelte, nel caso si rivelassero errate, o di incensare il proprio lavoro a traguardo positivo – dimenticandosi del lavoro d’insieme nella dirigenza del Milan.

Non vi sarà saluto fra l’ex capitano rossonero e i suoi tifosi. Soltanto silenzio, un po’ ombroso, a far spazio al mercato del Milan di Furlani e Moncada. Il sentore di una clausola di riservatezza, o semplicemente la volontà di non colpire il Milan con le sue parole, con la sua versione dei fatti.

Un brevissimo comunicato farà da commiato a uno degli artifici della rinascita milanista. Diversi messaggi sui social lanciati dai leader della squadra, poi il ringraziamento di Stefano Pioli ai microfoni. Quest’ultimo, il più criticato (e mai amato davvero) dai suoi tifosi, eppure colui che ne ha giovato di più dall’addio di Maldini. Responsabilizzato ancor di più nel suo campo, più influente nelle scelte di mercato. Nel bene e nel male, uno dei simboli della rinascita del Milan.

Pioli, da uomo liquido a The Coach

Una delle principali vittime del maldinismo è stato proprio Stefano Pioli. L’inizio dell’allenatore emiliano con il Milan non è stato dei migliori, dal momento che veniva come ruota di scorta del ben più desiderato Luciano Spalletti. Tuttavia, con silenzio e costanza, Pioli ha saputo ritagliarsi una buona parte di merito nei risultati conseguiti dal Milan nella sua gestione.

Se José Mourinho è lo special one, qualcuno ha dedicato Pioli la controparte, il normal one, il normalizzatore. E in effetti è una definizione che calza a pennello. Mai sopra le righe, tantomeno sotto i riflettori per meriti sportivi nella sua carriera. Poi arriva il Milan, un po’ per caso e un po’ per disperazione. Per lui sarà un’occasione irrinunciabile, e con forte entusiasmo e tanto lavoro dietro le quinte si può andare lontani.

Con buon pragmatismo, Pioli conduce il Milan a una lenta risalita tattica e identitaria. Dal 5-0 di Bergamo, che segna il punto più basso della banter era rossonera, fino allo 0-2 contro l’Atalanta che riporta il Milan in Europa. Le poche parole, lo stile sobrio di fronte alle telecamere e, complessivamente, un atteggiamento da aziendalista perfetto per la proprietà Elliott-RedBird: Pioli stupisce come uomo ma soprattutto come disciplina e senso di miglioramento.

Stefano Pioli e Rafael Leao assieme nel Milan
Mai in mostra, sempre dietro le quinte, quasi a rincorrere
(Foto: Filippo Monteforte via AFP via Getty Images – OneFootball)

Un altro dato degno di nota. Difficilmente si parlerà di Milan di Pioli. Al più con Pioli, i perfidi diranno nonostante Pioli. C’è da dire che Pioli è sempre stato oscurato da personalità più forti dalla sua. A partire da Maldini, poi da Zlatan Ibrahimović, adesso da Rafael Leao. In un club così stretto, Pioli ha avuto l’intelligenza di essere un uomo liquido. Flessibile nell’adattamento, pienamente allineato alle direttive della società – di Maldini, fino a qualche mese fa. Ma qualcosa si screpola nell’estate 2023: è l’acquisto di Charles De Ketelaere.

L’acquisto del belga è una delle prime rotture con Paolo Maldini. L’allenatore emiliano sognava giocatori pronti e affidabili – Dybala? –, mentre Maldini si raccontava come esteta nella scelta dei talenti da importare a Milanello. Ne seguirà un trattamento di (s)favore nei confronti dell’ex Club Brugge, simbolo perfetto di una gestione al quanto inquietante del mercato e della rosa nella stagione 2022/23.

Il tifo milanista non si fa problemi a chiederne la testa. Tutto sembra catalizzarsi contro l’allenatore emiliano: è sua la colpa dei derby strapersi in Champions League, è sua la colpa del gap maturato contro il Napoli. Ma Cardinale ha le idee chiare: a saltare non sarà Stefano Pioli, bensì Paolo Maldini. Spiazzando tutti quanti.

Nessuno si aspettava questa decisione da parte del nuovo proprietario. Molti opinionisti ed ex calciatori si schiereranno a favore dell’ex capitano rossonero. Tuttavia, Cardinale non conosce ancora bene l’italiano e ignora i consigli degli opinionisti. Anzi, addirittura rilancia, investendo Pioli di maggiori responsabilità. Ora è Stefano Pioli, the coach. Cacofonicamente statunitense, ma soprattutto quello uscito meglio dalla rivoluzione di RedBird, che proietta il Milan su una nuova dimensione.

Quindi cos’è il Milan, oggi?

Ancora intontiti dallo strappo (o fuga) di Tonali, i tifosi rossoneri non hanno ancora compreso bene la direzione intrapresa da Cardinale. Pieni di lacrime per Maldini e per l’addio di Tonali, gli acquisti di Loftus-Cheek, Pulisic, Chukwueze e Reijnders sono visti come un risarcimento piuttosto che un investimento. Il Milan ha cambiato ambizione: non più affannoso mantenimento di costi e bandiere, bensì risoluzione e sguardo deciso verso le sfide da intraprendere. Con il sapiente utilizzo del player trading, in piena filosofia moneyball, senza guardare (più) i sentimenti.

È un Milan meno caldo e concitato, più algoritmico, razionale. Senza la religiosità del Dio Ibra, senza il profeta Maldini, senza il cuore fedele di Sandro Tonali. Non c’è più religione: il Milan non è soltanto laico, ma completamente ateo. Pienamente devoto alla scienza dei numeri e alla precisione degli algoritmi, svincolato dalla pesantezza di una credenza che, parliamoci francamente, è obsoleta nel calcio odierno.

Un Milan duro che non guarda in faccia a nessuno, noncurante di compiacere i tifosi sentimentali tanto quanto gli statunitensi che ripetono soccer anziché football di fronte ai loro padri linguistici. Il Milan è uno spirito libero che segue il dato statistico. E questo può bastare per essere fra i migliori nella Serie A di oggi.

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Scritto con inchiostro blu.

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