Da una delle regioni più magiche dell’Argentina, la Patagonia, a Roma, un viaggio che ha portato Cristian Ledesma a essere uno degli ultimi registi puri del nostro calcio. Dai primi passi in patria all’arrivo al Lecce fino alla Lazio, squadra a cui il centrocampista ha legato il proprio nome diventandone una bandiera. Ai nostri microfoni si è raccontato l’ex centrocampista biancoceleste, rievocando le tappe più significative della sua carriera da calciatore.
RdL: Ciao Cristian. Raccontaci dei tuoi primi passi nel mondo del calcio.
L: Ho iniziato a giocare a calcio nel mio quartiere, ma senza quella voglia sfrenata di fare il calciatore. Giocavo per strada con gli amici, mentre i miei tre fratelli giocavano da diversi anni seriamente. Io però non avevo quella voglia matta di giocare necessariamente in una squadra, non ero quel bambino che nasce col pallone sotto al braccio. Poi però a mio padre e i miei fratelli venne chiesto di portare anche me nella loro squadra e così mi sono unito a loro. Piano piano mi sono appassionato, salgo di livello giocando tornei provinciali e regionali e progressivamente cresce la voglia di giocare.
RdL: Quando hai capito che il calcio poteva essere il tuo futuro?
L: Verso i 14 anni inizio a capire che posso diventare calciatore. Comincio a giocare in prima squadra, mi iniziano a dire che avrei potuto fare dei provini a Buenos Aires, perché in Patagonia non ci sono squadre di Serie A. In particolare a quell’età mi notano giocando a calcio sulla spiaggia, mentre ero impegnato in un torneo con mio fratello. Un ragazzo che gioca in una serie minore nazionale, una sorta di serie C, mi osserva in questo torneo che si gioca 3 contro 3 sulla sabbia bagnata con persone grandi. Io avevo 13-14 anni e giocavo contro gente di 30-40 anni, era un torneo estivo e questo portiere mi ha messo in contatto con un procuratore della Patagonia. Ho svolto una preparazione di circa un anno, facevo 60 km di pullman per andare ad allenarmi da lui, mi allenavo 2-3 giorni con un preparatore e tornavo a casa. Quindi abbiamo fatto dei provini, tra cui col Boca. C’erano 3-4 squadre interessate dopo i provini, ma scelsi il Boca perché ne ero tifoso e perché a livello giovanile era diventao il top per strutture, insegnamento e metodologie.
RdL: Com’è arrivata la chiamata dall’Italia?
L: Con l’U 19 del Boca faccio un torneo a Bellinzona, in Svizzera. Sono aggregato a un gruppi di ragazzi del ’79, ’80 e ’81, solo in due eravamo dell’82. Vengo chiamato a fare questo torneo, vinciamo la finale col Barcellona e li il mio procuratore viene a sapere che Corvino mi aveva visto e lì nasce la possibilità di fare un provino in Italia. Vengo a farlo al Lecce e dopo un anno e qualcosa che il Boca non mi lasciava e dopo aver fatto qualche altro provino in Italia, sono tornato a Lecce visto che c’era ancora l’interesse di Corvino.
RdL: Hai vissuto cinque stagioni a Lecce, di cui le tre in A dopo la promozione da assoluto protagonista del centrocampo pugliese. Cosa ti è rimasto di quell’esperienza?
L: A Lecce ho vissuto anni bellissimi. È l’ambiente ideale per un giovane di 18 anni che inizia un’avventura all’estero, sia per la città che per la società. Lecce è una città bellissima, accogliente, la società mi ha subito messo a mio agio. È un posto ideale, era difficile trovarne uno migliore per cominciare la carriera.
RdL: A Lecce hai conosciuto Delio Rossi, che poi ti ha portato alla Lazio. Com’era il vostro rapporto?
L: Delio Rossi è l’allenatore con cui ho lavorato di più. Avevamo un bellissimo rapporto già a Lecce, mi ha fatto crescere e mi ha dato tanto non solo a livello tecnico e tattico, ma anche a livello comportamentale, di crescita sotto alcuni aspetti decisivi come ad esempio l’umiltà. Me lo sono ritrovato alla Lazio, si dice che sono stato una sua richiesta. Si dice che gli era stato promesso di prendere un giocatore da lui richiesto e ha scelto me, così sono andato alla Lazio.
RdL: Nel luglio 2006 arriva quindi il passaggio alla Lazio e il primo gol arriva in un match non banale, nel derby. Che ricordi hai di quel match vinto 3-0?
L: Il derby era una novità. Dal primo giorno che sono arrivato mi hanno subito parlato del derby. Già in aeroporto è la prima cosa di cui i tifosi parlano. Quindi attendevo con ansia questo derby senza sapere cosa mi aspettasse. Possono provare a spiegartelo, ma finché non metti piedi in campo per fare il riscaldamento, perché già li capisci che l’atmosfera è diversa, non capisci cosa sia davvero. Al di la del gol, è stato bellissimo giocare questa partita, era veramente speciale. Negli ultimi tempi si è perso questo fascino, un po’ per la paura della gente di andare allo stadio, un po’ perché tanti preferiscono vederla a casa, un po’ perché ci sono sempre meno giocatori rappresentativi in campo. Il derby resta però una sensazione unica, giocarlo, segnare e vincere. È difficile spiegare cosa ho provato a segnare e vincere il primo derby giocato.
RdL: Pronti, via e arriva subito la qualificazione in Champions League.
L: Quando pensi che vuoi diventare calciatore lo fai pensando a queste partite, alla musichetta che senti prima del match. È una competizione unica, l’ho fatta solo quell’anno ma è un’esperienza unica. Ci capitò una squadra fortissima come il Real, un Olympiacos abituato a fare le coppe e un Werder di respiro internazionale. Un gruppo tosto ma a quei livelli tutti sono così. È stato bellissimo giocare all’Olimpico col Real, pareggiare e poi andare a giocare al Bernabeu.
RdL: Dopo tre anni nella Capitale arriva il primo trofeo, la Coppa Italia vinta il 23 maggio 2009 contro la Samp.
L: Ricordo lo stadio pieno, una finale e quindi un trofeo da assegnare. Una partita bella contro una Samp che era davvero una squadra forte. È stata una partita combattuta e difficile, poi l’abbiamo vinta ai rigori, una sofferenza assurda. È stato il mio trofeo, un’emozione unica. Ma la cosa più emozionante è stata vedere quello stadio pieno.
RdL: In quel match hai indossato la fascia da capitano e tirato uno dei rigori della lotteria finale. Raccontaci dell’emozione di indossare quella fascia.
L: Indossare la fascia è emozionate, sono stato scelto dai compagni come capitano e quindi ha un valore diverso. Non sono stato scelto per anzianità e credo che essere scelto dai compagni dia un valore in più a quella fascia, più responsabilità e orgoglio e la voglia di ripagare quella fiducia dei compagni.
RdL: Dopo la grande gioia per la vittoria della Coppa Italia, arriva il periodo più buio della tua storia in biancoceleste, quello fuori rosa per problemi contrattuali. Cosa hai provato?
L: È stato un periodo davvero duro, però di crescita anche quello. Anche in questi momenti di difficoltà si cresce, probabilmente anche di più perché nei periodi belli si sorvola su tante cose. È stato un periodo buio, ma in cui ho scoperto la vera identità del tifoso laziale. Lì si è saldato il legame con la tifoseria, non ero il calciatore che scendeva in campo la domenica a difendere la maglia, ma stavo a casa e quindi il valore delle chiacchierate coi tifosi quando andavo in giro aveva un valore diverso. Quindi anche nei momenti bui scopri cose bellissimi e li è nato qualcosa di speciale coi tifosi laziali.
RdL: Un legame speciale con la Lazio, ma anche con l‘Italia, tua patria d’adozione, con cui ottieni anche la convocazione il 17 novembre 2010, quando Prandelli ti chiama per il match contro la Romania.
Non mi aspettavo la convocazione, anche se se ne parlava. Leggevo notizie a riguardo, ma non mi avevano detto niente. Anche questa è stata una sensazione unica, l’occasione di rappresentare una nazione e di sfidare i migliori di un’altra nazione. Tutti vanno a duemila, è davvero stimolante.
RdL: La data clou per ogni tifoso laziale è il 26 maggio 2013. La Lazio batte la Roma in finale di Coppa Italia, portando a casa un trofeo dal gusto particolare proprio perché vinto contro i rivali di sempre. Puoi raccontarci quella giornata?
L: Come ho vissuto quel giorno? Non è stato solo un giorno, magari lo fosse stato. Siamo andati in ritiro a preparare la partita, poi questa mossa ha dato i suoi frutti ma li per li non lo capisci, volevo stare a casa ma il ritiro ci è servito a preparare al meglio la partita. Sono cose che ho capito dopo. È stata una partita unica, un derby che assegna un trofeo. Un derby diverso da tutti gli altri. Non vedevo l’ora di scendere in campo per scaricare l’adrenalina, la situazione era pesante e quindi ero impaziente di sfogarmi in campo. Aver vinto è stato bellissimo, dopo qualche giorno abbiamo realizzato cosa ha significato quella partita. C’è la consapevolezza che una partita del genere non ci sarà mai più.
RdL: La tua avventura alla Lazio si conclude a nove anni di distanza. Il match d’addio ai colori biancocelesti è di quelli non banali, in linea con la tua avventura nella Capitale. La Lazio va al San Paolo a giocarsi col Napoli un vero e proprio spareggio Champions: chi vince va ai preliminari.
L: In quel periodo mi ero convertito da poco, ho avuto sensazioni bellissime in quella partita. È un match che ha un po’ chiuso un cerchio, il primo anno che sono arrivato alla Lazio ci siamo qualificati ai preliminari di Champions e con l’ultima partita ho riottenuto i preliminari di CL. Quell’anno ho giocato pochissimo ma quella sera mi sentivo che sarei entrato, non so perché. Al secondo pallone toccato ho innescato l’espulsione di Ghoulam e siamo tornati in parità numerica. Poi abbiamo segnato e vinto. Quella partita ha chiuso il cerchio, è il finale felice.
RdL: Cosa hai amato maggiormente della Capitale?
L: La cosa che più mi piace di Roma è che ad ogni angolo c’è un muro, un monumento, un ponte che ha una storia incredibile. Non c’è città più bella di Roma. Non ho girato tutto il mondo ma qualcosa ho visto e nulla tiene il paragone.
RdL: Raccontaci le tue esperienze dopo l’addio alla Lazio.
L: Dell’esperienza al Santos mi porto la sofferenza di una scelta che non rifarei. È stato un momento duro, fortunatamente corto. Al Panathinaikos è stata un’esperienza molto bella, sono tornato a giocare in Europa con una squadra storica. Poi lì purtroppo la situazione finanziaria del club è cominciata a crollare e quindi sono dovuto andare via. Poi l’avventura alla Ternana è stata bellissima, giocavo in B ma potevo stare a casa, vivevo a Roma e facevo su e giù ma non mi pesava perché potevo sia allenarmi che vivere la mia famiglia. Anche lì c’è stato un piccolo miracolo, eravamo morti a un certo punto e siamo riusciti a salvarci. È stata una bellissima scoperta, la Serie B l’avevo fatta col Lecce un solo anno vincendola e mi sono divertito. Senza cambio di proprietà sarei rimasto volentieri. Poi Lugano, dove ho trovato un ambiente molto bello e ho rigiocato l’Europa League.
RdL: Nel 2019 ti ritiri dal calcio giocato, ma è subito pronta un’altra affascinante avventura, sempre su un campo da calcio, ma stavolta in un’altra veste professionale. Parallelamente al grande progetto dell’Academy, hai intrapreso la carriera da allenatore, guidando l’AS LUISS Calcio, squadra fondata nel 1999 che in dieci anni ha compiuto un impressionante processo di crescita, dalla terza Categoria all’Eccellenza. Raccontaci quest’esperienza.
L: Mi piace molto questa nuova veste. Non avevo intenzione di allenare subito, ma è nato questo progetto con la LUISS e mi sta piacendo molto. Ne sono sorpreso perché non avevo intenzione di allenare. Prima di andare a giocare in Svizzera avevo fatto il patentino, ma non avevo in mente di iniziare subito. Il progetto però mi ha conquistato, soprattutto perché si sviluppa in ambiente universitario.
RdL: Il miglior giocatore con cui hai giocato?
L: Klose. Un campione vero a livello tecnico e tattico.
RdL: L’avversario più difficile?
L: I primi anni quando giocavo contro il Milan di Ancelotti, avevano una squadra impressionante, Nesta, Maldini, Seedorf, Gattuso, Shevchenko, Inzaghi. Non riesco a sceglierne uno, erano troppo forti.
RdL: Una chiosa finale sul tuo ruolo, sempre più a rischio nel calcio moderno.
L: L’ultimo grande regista è stato Pirlo, Ora quel ruolo sta scomparendo, nessuno lo cerca e il calcio si è evoluto in modo diverso e si preferisce mettere un trequartista o una mezzala davanti la difesa, oppure i due mediani o un giocatore che fa solo filtro. Il regista che lavora in fase di interdizione e poi riesce a mettere una buona palla non c’è più.
Si chiude la nostra chiacchierata con uno degli ultimi registi del nostro campionato, un giocatore che ha legato il suo nome al calcio italiano. Dalla Patagonia a Roma, una carriera ricca di soddisfazioni che vale la pena raccontare.
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