Una delle caratteristiche più peculiari dell’uomo è quella di provare compassione, una delle emozioni più singolari tra il novero di sentimenti che possiamo sentire. La nostra capacità di averle, queste sensazioni, è il tratto più marcato capace di distinguerci dal resto degli esseri viventi. La compassione ha una particolarità: si prova sempre verso qualcuno che è in qualche modo più debole, minore rispetto a noi. Da non confondere, peraltro, con la pietà. Perché se possiamo provare pietà per qualcuno che si è rovinato con le sue mani, lo stesso non si può dire quando guardiamo negli occhi Isco.
La settimana scorsa, leggendo della sua rescissione col Siviglia mi sono sentito come appesantito, un macigno che si accomoda sulla bocca dello stomaco. Semplicemente il mio cervello non voleva accettare un epilogo così triste. Si può definire fallito qualcuno che ha vinto cinque Champions League? È complicato, ma è quella l’impressione che ho quando penso alla quantità di talento stellare che Isco mostrava all’alba della sua carriera, e che ora sembra smarrito, come se qualcuno gli avesse tolto la linfa vitale. Isco è un talento fallito nel senso che non è giusto che abbia già smesso di giocare bene a calcio, con continuità, a soli trent’anni.
Questo mi porta a ripensare al concetto di data di scadenza che possiamo avere per un calciatore. Si è parlato di come Qatar 2022 sia stato sicuramente l’ultimo Mondiale di Cristiano Ronaldo e Lionel Messi, ma come possiamo rassegnarci così facilmente a questa idea, nel momento in cui ci sono sempre più calciatori che anche dopo i trentacinque anni continuano a essere determinanti, nonostante i loro acciacchi fisici, pressoché inevitabili? Questo mi dà ancora più rabbia, mi riporta alla compassione. Vedere Isco farsi piccolo piccolo così prematuramente è qualcosa che nessun appassionato – una parola non banale e non casuale – di calcio si meritava.
Sembra ieri, infatti, che ondeggiava tra i metri quadrati del prato del Santiago Bernabeu. Una vita fa, invece, quando veniva riconosciuto come Golden Boy 2012, dopo una stagione da encantador alla Rosaleda, la casa del suo Malaga, dove è sbocciato come un fiore. Sin dai primi tocchi di palla in maglia biancoceleste, di Isco si era capito che gli piaceva tanto tenere il pallone fra i piedi, vedere il passaggio come qualcosa che la mamma ti dice di non fare. La sua tecnica sembrava un bel fiocco su un pacco regalo rivestito di una carta coloratissima, allegra come il suo calcio. La sua manifestazione a un certo punto all’inizio del decennio scorso non solo ha toccato la sua squadra di club, ma anche la nazionale spagnola, che in Isco ha trovato l’ennesimo talento funambolico di una generazione probabilmente irripetibile, contrassegnata da una proprietà tecnica palla al piede senza pari.
A un certo punto, perciò, sembrava quasi scontato che si sarebbe unito al Barcellona di Xavi, Iniesta, Fábregas e gli altri come lui, come se la legacy del calcio iberico di qualità non potesse esistere lontano dal Camp Nou. La notizia del suo trasferimento al Real Madrid nel 2013 – il primo trasferimento nel primo regno di Carlo Ancelotti alla guida del Madrid – per trenta milioni di euro ha colto tutti di sorpresa in questo senso, come se i blancos avessero avuto un moto d’orgoglio senza precedenti, privando i rivali blaugrana dell’ennesimo palleggiatore.
A ripensarlo oggi, Isco non avrebbe trovato spazio anche nel Barcellona del Tata Martino. In un Barça a fine ciclo, in piena età di mezzo tra l’Era Guardiola e il futuro con Luis Enrique in panchina, Isco avrebbe rischiato di finire triturato nelle dinamiche di squadra barceloniste. Per sua sfortuna ha trovato la stessa sorte anche in Castiglia. Ed è proprio a Madrid che inizia – e si costituisce completamente, nel tempo – il mito di Isco talento triste ed estemporaneo, a intermittenza, per cui deprimersi a tarda sera, rivedendo le clip delle sue giocate circensi prima che tutto diventasse più grande di lui.
A Madrid Isco quasi finisce nell’ombra, in molti si dimenticano di lui, e questo gli fa ovviamente perdere due opportunità enormi: il Mondiale brasiliano prima, Euro 2016 poi. Succede infatti che Isco al Madrid non ha ovviamente la centralità che aveva a Malaga, e viene prima oscurato dalle sgroppate di Di María – che con Ancelotti ha completato la metamorfosi in mezzala che è valsa la decima Champions League – e Bale, pagato cento milioni non per accomodarsi in panchina, poi dalla deflagrazione estiva di James Rodriguez, rivelazione assoluta del Mondiale del 2014.
Isco è ormai un’illusione: è fatto di luce fioca, il suo calcio a tratti non ricordiamo più come sia, e a soli 23 anni ha già assunto l’aura del fuoriclasse che abbiamo sopravvalutato, un comprimario di alto livello sì, ma non abbastanza per non sparire dietro la sagoma ingombrante del tridente d’attacco della squadra migliore del mondo. Rafa Benítez, suo allenatore tra il 2015 e il 2016 gli chiede più goal, lui si limita a trotterellare da un angolo all’altro del campo, mai protagonista, sempre meno spesso con la palla fra i piedi, l’ultima amica – o forse proprio la prima – ad averlo abbandonato. I numeri si dice che non mentano mai (nelle sue prime tre stagioni al Real, Isco ha comunque giocato più di quaranta partite l’anno, sebbene non sempre partendo da titolare, segnando ventidue goal e fornendo trentadue assist), ma questa sembra essere l’eccezione che conferma la regola: Isco è così immalinconito che è un desaparecido, e il mondo del calcio si dimentica di lui, inghiottendolo voracemente nel marasma di giocatori che, come meteore, sfiorano la luna e finiscono per eclissarsi, perdendosi tra l’infermeria, la malasorte e la scarsa forza di volontà.
Tra i tanti proverbi sulla fortuna, ce n’è uno che dice “Oggi a te, domani a me”, e sembra rispecchiare quello che succede a Isco tra il 2016 e il 2017, dopo l’arrivo di Zinedine Zidane sulla panchina del Madrid, la vittoria della Champions League e soprattutto la progressiva chiusura del capitolo madridista della carriera di Bale, tra un infortunio e l’altro. Zidane vede nel talento andaluso il rincalzo perfetto per la sua scacchiera in campo e gli ritaglia uno spazio importante nel suo progetto. Così, come se riemergesse da un’apnea durata troppo, Isco riprende a respirare. E lo fa anche il suo calcio, occluso in dettami tattici a lui poco affini. Il ragazzo di Benalmádena fa pace con la palla, con il campo, coi tifosi e con sé stesso, e vederlo di nuovo quello di Malaga sembra illogico: che c’è di razionale in un calciatore che per due anni e mezzo smette completamente di essere sé stesso? È sbalorditivo come ad alcuni giocatori basti semplicemente essere nuovamente messi in un contesto a loro favorevole per tornare a entusiasmare – ed entusiasmarsi – anche dopo tanti anni in chiaroscuro.
È proprio questo che succede a Isco, il re sole del nuovo Real Madrid di Zidane, una squadra forse meno cerebrale ma molto più cinica, quasi frenetica, che al volere del numero 22 si piega come se stritolata da una strana forza di gravità. Isco tra il 2017 e il 2018 sembra non c’entrare niente con tutti gli altri, è semplicemente un talento fuori scala. La riscoperta della sua abilità nel disinnescare potenziali situazioni di pericolo per i suoi, creandone altre a favore, lo rigenera completamente. Improvvisamente il mondo del calcio si ricorda di quel ragazzino che solo cinque anni prima si presentava al fútbol spagnolo assumendone le sue stesse sembianze, incarnandone i princìpi fondanti, che si divertiva in prove di forza con la palla fra i piedi, i suoi piedi, due specchi per la sua tecnica iridescente, priva di forme e colori definiti, perché incapace di essere delimitata in qualche modo. Isco per il Madrid è un toccasana, l’uomo in più che mancava per tornare a vincere, tra i protagonisti assoluti delle tre Champions League vinte in fila tra il 2016 e il 2018.
“Juega como se juega en la calle”, gioca come fosse in strada, dice di lui il Zidane – a cui verrà paragonato sempre più -, inconsapevole del trattamento che gli avrebbe riservato pochi anni dopo, nella sua seconda esperienza sulla panchina del Madrid, quando di Isco – come anche di altri campioni come lo stesso Bale – nemmeno voleva sentir parlare. Zizou ha creduto in Isco nel momento del bisogno, quando è stato abbandonato dalla forza centrifuga su campo da calcio di Bale, un giocatore totalmente opposto al più compassato compagno spagnolo. Poi però, con l’esplosione di Vinicius Jr., si è dimenticato di chi lo aveva aiutato a diventare un allenatore vincente, rinunciando alle abilità singolari dell’asso cresciuto nelle giovanili del Valencia – sebbene vada quantomeno citato il suo calo drastico nell’impegno e quindi nelle performance, nel desiderio di farsi notare, delle ultime stagioni.
La qualità di spicco di Isco, che gli ha poi garantito la convocazione al suo primo grande torneo internazionale, il Mondiale in Russia del 2018, non riguarda tanto la sua immensità con un pallone al seguito, né la sua propensione a offrire tutto sé stesso ai compagni. A far la differenza nel Real Madrid di quegli anni, come anche nella Spagna – da prendere come monito la prestazione di Isco nel 3-0 della roja contro l’Italia di Ventura nel 2017 – era l’onnipresenza del calciatore classe 1992, che aveva addirittura trasceso il concetto di fantasista con la 10 sulle spalle. Isco ce lo ricordiamo così bene perché era ovunque, universale sul rettangolo verde, e questo ci racconta più di tutto perché non lo dimentichiamo, perché ci manca. Isco era ingiocabile perché non lo potevi pensare: qualunque ritratto facessi di lui sarebbe stato errato in qualche modo. Così la sua interpretazione del gioco del calcio fra la fascia destra del campo e la zona centrale dello stesso lo ha consegnato alla memoria collettiva come un calciatore di cui non avremmo mai più voluto fare a meno. E solo e soltanto lui avrebbe potuto rinunciare a quello che era diventato.
In questo momento Isco è svincolato, e, strano a dirsi (così com’è strano pronunciare queste stesse parole, ripensando al suo calcio puro e raro di cinque anni fa) potrebbe far comodo ad alcune squadre. Poche per la verità, e quasi tutte localizzate tra la Turchia e il Medio Oriente. Perché dopo il Mondiale di quattro anni fa, Isco, evidentemente pago di tutti i trofei accumulati in bacheca, è stato risucchiato nuovamente in un’aspirapolvere che non ce lo ha più ridato indietro, questa volta in maniera apparentemente definitiva. Isco ha rinunciato a quello che era diventato, quindi. Lo ha fatto accettando tutte le panchine degli ultimi anni a Madrid – addirittura solo quattrocentosette i minuti di calcio giocati la scorsa stagione sotto Ancelotti, che giusto nove anni fa lo aveva accolto nella sua prima esperienza nella capitale spagnola -, senza voler cercare uno sviluppo alternativo per la sua carriera, un modo di ripartire. E’ stato poi costretto a farlo quest’anno, a contratto scaduto, accasandosi al Siviglia, tornando in Andalusia, a 210 km da Malaga, laddove si era palesato ormai un decennio addietro. Nella collezione di fantasisti in esposizione al Ramón Sánchez-Pizjuán, però, non ha fatto altro che la comparsa.
Per questo, le squadre a cui Isco potrebbe far comodo – o forse è meglio dire: che potrebbero far comodo a Isco – mi sembrano possano appartenere solo alla prima divisione turca o saudita, sebbene sarebbe molto romantico un ritorno alla Rosaleda, ad aiutare, o a provarci quantomeno, un Malaga in difficoltà. Comunque un finale imprevisto e deludente per qualcuno giovane come lui.
Isco è stato un giocatore che mi ha spesso lasciato a bocca spalancata, tanto erano sconcertanti alcune cose belle che sapeva fare su un campo di calcio. Parlare al passato in questi termini di un giocatore ancora in attività non è tanto canonico, e non è nemmeno corretto da un punto di vista prettamente giornalistico, ma serve a farci riflettere. Il tramonto di Isco, che oggi potremmo qualificare come crepuscolare, ci riporta al cinismo della realtà in cui viviamo: il talento da solo non basta mai. Il talento, da solo, serve solo a far scrivere articoli come questo, ricordarsi di qualcuno che a nemmeno trentuno anni ha già la parvenza di un ricordo, qualcosa di intangibile, lontano da noi e, come se non bastasse, lontano anche da sé stesso.