Sono già passati ben tre anni dall’incredibile eliminazione subita dall’Italia per mano della Svezia alle Qualificazioni dei Mondiali 2018. Lo spareggio di ritorno dei Playoff a San Siro può essere considerato a furor di popolo il momento più basso vissuto dal movimento calcistico azzurro, o quantomeno a pari merito con gli schiaffi, letterali e non, presi con l’Irlanda del Nord a cavallo tra il 1957 e 1958.
Due sconfitte, in effetti, piuttosto simili tra loro nelle loro cause radice e tragicomicamente legate a Stoccolma. Al di là degli eventi mondiali che funestano il 2020, costringendo la UEFA a spostare gli Europei all’anno prossimo, possiamo cominciare a ragionare sulla strada percorsa in questo triennio e provare ad immaginare dove ci porterà al grande appuntamento del 2021.
Italia-Irlanda del Nord: il precedente storico
Belfast, 15 Gennaio 1958. Con ben due partite complicate da nebbia e temperature di svariati gradi sotto l’ideale (Portogallo, vinta, e l’“amichevole” con l’Irlanda del Nord, un salvifico 2-2 che però non fece testo) il vedere un cielo più che accettabile a queste latitudini – seppur accompagnato dal freddo che può fare a gennaio a tre passi dall’Atlantico – potrebbe anche essere un buon segno. Un buon segno che, almeno inteso come cenno del fato, serviva come il pane. La Nazionale italiana non si è ancora ripresa del tutto dal disastro di Superga, sia per il valore degli uomini persi, che per la successiva organizzazione degli impegni futuri.
Nel 1958 i sogni per la battaglia della Coppa Rimet si sono infranti per la prima volta. Mondiale del ’54 scialbo, concluso con un 4-1 rimediato dalla Svizzera padrona di casa, il precedente cominciato con una tremenda traversata su nave di due settimane. Per l’edizione del ’58 i vertici del CONI assemblano un inusuale commissariato tecnico con Alfredo Foni, scudettato con l’Inter due volte da allenatore, al comando in campo.
Oltre a questo spiegamento di forze di ben 5 uomini, molti “oriundi” trovarono posto nelle varie formazioni utilizzate. Allora il vincolo di rappresentare una sola Nazionale maggiore nel corso della propria carriera era sostituito da un più “soft” obbligo di residenza di almeno 3 anni nel Paese di quella Nazionale. L’Italia poté quindi ricorrere ai talenti di Alcides Ghiggia e Juan Alberto Schiaffino (che, con La Celeste dell’Uruguay, avevano vinto probabilmente la partita più importante del XX Secolo), Miguel Ángel Montuori, attaccante rosarino dell’ottima Fiorentina anni ’50, e Dino da Costa, sbrinato dalla Roma per tappare l’assenza del titolare Gratton.
Le ricorrenti discussioni tattiche in materia di Nazionale occuparono, come di consueto, un gran numero di pensieri e pagine di giornale. Gianni Brera si fece portavoce dell’idea forse più pragmatica, sicuramente più italiana: il catenaccio. Cosa c’è di meglio nel difendere un pareggio per 90 minuti, in terra straniera, contro gente con la quale nemmeno 3 mesi prima hai concluso una partita con una solenne rissa? Opinione rinforzata dal grande lavoro di Nereo Rocco a Padova, grande mente di una squadra capace di issarsi fino al secondo posto in campionato.
Foni, forse per non trasgredire al mito dell’Italia “bella ed offensiva”, o forse per altri motivi, schierò un 3-2-5 di matrice WM a trazione decisamente offensiva. Col senno di poi, troppo offensiva. Il 2-1 a vantaggio dei padroni di casa scatenò due terremoti: uno prettamente sportivo, uno meno evidente ma più incisivo nei futuri sviluppi. Protagonista del secondo fu Ottorino Barassi, a quel tempo Presidente Federale, promotore del Lodo Barassi sulla riforma dei campionati e sul numero massimo di stranieri in squadra, il quale rilasciò una serie di dichiarazioni ad Alfeo Biagi, inviato a Belfast per “Stadio”.
Barassi vuotò un gigantesco sacco di accuse. Su Foni, ritenuto esperto e preparato ma non in grado di “condurre la squadra sul campo”, sulla politica degli “oriundi” (sostenuta dal vulcanico Giuseppe Pasquale, suo rivale alla presidenza FIGC) in quanto abusata dal alcuni club per poter tesserare alcuni stranieri da italiani ed infine lanciò l’ultimo strale sullo stesso Pasquale, l’oscuro marionettista degli alti uffici.
Dal polverone che ne venne fuori, Barassi ne uscì con le ossa rotte e l’esclusione da qualsiasi ruolo dirigenziale. Gipo Viani venne nominato successore di Foni, dividendo il suo lavoro tra Nazionale e Milan. Barassi, nell’intervista “boomerang”, come lo stesso Alfeo Biagi ebbe modo di definire, lasciò nel bel mezzo del “J’accuse” e nominò tra i possibili nuovi CT due nomi importanti: Nereo Rocco e Ferruccio Valcareggi. Mentre il primo non allenò mai la Nazionale maggiore – togliendosi comunque diverse soddisfazioni tra i club – Valcareggi vinse gli Europei 1978, unico trofeo continentale nella bacheca azzurra, dieci anni dopo la disfatta di Belfast.
In sintesi, gli stessi uomini che parteciparono, direttamente o non, a Belfast, trovarono colpe nell’allenatore (tattica sbagliata) e nel “sistema” (i troppi “stranieri” in campo).
Italia-Svezia: il disastro del 2018
Milano, 13 Novembre 2017. La storia calcistica italiana si richiude in un anello di 59 anni di eccellenti trionfi e sonore cadute per tornare ad un “mors tua vita mea” con i Mondiali meta e sfondo dei 90 minuti. Mentre per Foni e giocatori la Svezia rappresentava l’obiettivo, per la nostra Italia è il muro da scavalcare. La Nazionale di Ventura è scivolata in questo delirio esattamente come uno tsunami. L’onda generatrice che comincia a crepare l’ambiente azzurro parte da Madrid (0-3 con la Spagna, Isco e doppietta di Alvaro Morata), accelera irrimediabilmente contro Macedonia ed Albania e, nella partita di andata, uno Svezia-Italia perso per 1-0, si mostra in tutta la sua forza distruttiva.
Cinquantotto anni dopo, Gian Piero Ventura, subentrato ad Antonio Conte nell’estate 2016, è chiamato a condurre una Nazionale uscita da un convincente Europeo. Un’impresa non facile, sia nel sostenere l’eredità di una squadra che ha giocato sopra le aspettative in rapporto al talento, sia per la diametrale differenza tra le sue idee di calcio e quelle lasciate dal tecnico leccese.
Riassumendo, l’attuale allenatore dell’Inter utilizzava la collaudata difesa a 3 della Juventus sia come deterrente al pressing avversario che come fonte di gioco principale. La qualità in impostazione di Bonucci era fondamentale per bypassare il centrocampo e permettere a punte, mezzali ed almeno uno degli esterni di poter ricevere in posizione avanzata oppure spalle alla porta. Il lancio verso la posizione avanzata di Zaza o Pellè diventava una soluzione di gioco efficace. L’attaccante pugliese su tutti poteva vincere duelli aerei e creare, di conseguenza, seconde palle da aggredire in campo aperto.
Ventura, potendo contare sull’esplosione di Immobile e Belotti ed il ritorno di Marco Verratti, decise di modificare questo pattern offensivo. Tutto il progetto tattico di Ventura è naufragato però in cerca di un’alternativa alla palla lunga per connettere consolidamento del possesso a rifinitura e realizzazione. La grande mole di palloni gestita dagli esterni nasce dall’assenza endemica nel 4-4-2 di un riferimento tra le linee sulla trequarti.
La stessa sovrapposizione di Immobile e Belotti ha sostanzialmente tolto un uomo a centrocampo, relegando Verratti ad un ruolo, non completamente adatto, di regista puro. La sconfitta con la Spagna è stata ricevuta da tutti come un campanello d’allarme molto importante. Ventura ha risposto ritornando gradualmente alla difesa a tre vista dall’Italia in Svezia, pur non risolvendo la fase offensiva, che faticava a creare opportunità con frequenza.
I 180 minuti con la Svezia, in particolare, hanno evidenziato i molti difetti strutturali dell’impianto tattico. Janne Andersson, consapevole dei limiti della rosa a disposizione orfana ormai di Ibrahimovic, ha costruito un 4-4-2 con evidenti debolezze e punti di forza. La manovra svedese ha seguito direttrici quasi esclusivamente verticali. Lindelof e, meno spesso Granqvist, sono ricorsi al lancio verso Berg e Toivonen sfruttando la loro capacità aerea.
Le due ali più i centrocampisti centrali potevano disporre quindi di un buon numero di seconde palle da poter verticalizzare. Alternativa alla traccia profonda, il cross dalle fasce ha portato comunque ottimi risultati in termini realizzativi. In fase di non possesso, un blocco piuttosto basso sul campo e stretto orizzontalmente copriva la porta. Nella prima partita, Ventura ha rinunciato al pressing preferendo abbassare il raggio d’azione difensivo al di sotto del centrocampo.
Pressando Lindelof e Granqvist, però, avrebbe costretto Toivonen e Berg a giocare quantomeno più lontano dalla porta di Buffon. In questo modo, togliendo la fondamentale arma di risalita del campo in mano agli avversari, avremmo gestito più tranquillamente i 90 minuti. Poteva essere sfruttata meglio anche l’ampiezza, non necessariamente in fase di rifinitura – come testimonia in numero abnorme di cross contro una difesa schierata ed abilissima nel gioco aereo in tutti i suoi elementi – ma come elemento di costruzione della manovra tramite i cambi di gioco. L’aver portato la Svezia a poter giocare comodamente sulla nostra metà campo non ci ha, inoltre, risparmiato folate di pressing intenso. Pressing al quale non siamo riusciti a rispondere se non lanciando lungo (ancora una volta, terreno favorevole agli scandinavi).
Se queste possono essere le “colpe” da assegnare a Ventura in quanto CT, molto meno comprensibili sono le accuse lanciate agli “stranieri”. Sia addetti ai lavori che importanti esponenti politici si sono espressi in merito con accezioni negative nonostante, eccetto Jorginho, Emerson Palmieri ed Eder, non abbiamo schierato altri oriundi. Parlare degli stranieri nelle giovanili per giustificare un risultato deludente della Nazionale maggiore è piuttosto ardito.
Rinnovate speranze
Veniamo ai giorni nostri, a tre anni da quel tragico Italia-Svezia. Roberto Mancini è stabilmente sulla panchina della Nazionale da Maggio 2018, concludendo la precedente esperienza di due anni con lo Zenit. Con il tecnico marchigiano abbiamo assistito ad un percorso netto (10 vittorie su 10 alle Qualificazioni per Euro2020) costruendo un’identità di gioco coerente con la rosa ed un ottimo numero di debuttanti. Un risultato sinceramente sopra le aspettative rispetto alle premesse non certo incoraggianti.
L’Italia di oggi si distingue rispetto alle due precedenti nella fase di possesso palla. Abbandonate le architetture nate dal 3-5-2 e 4-4-2, Mancini schiera un 4-3-3 molto fluido. È evidente l’influenza del “juego de posición” nei movimenti in campo. La difesa a 4 sgancia uno dei due terzini a coprire l’ampiezza e stringe l’altro verso il centro, in modo da creare con il supporto di Jorginho e Verratti un diamante di 5 uomini (6 compreso il portiere) in grado di poter consolidare il possesso palla con sicurezza.
La salita del terzino è coordinata con l’accentramento dell’ala verso un’occupazione dinamica della trequarti. Spesso la coppia Biraghi (o Spinazzola) – Insigne o alternativamente Zappacosta (o Florenzi) – Bernardeschi sulla fascia destra. Il centrocampo a tre garantisce rotazione e scaglionamento degli spazi. Barella e Pellegrini, partendo da mezzala destra, hanno licenza di inserirsi da lontano sfruttando in particolar modo i movimenti ad elastico di Immobile. I già citati Jorginho e Verratti, pur rimanendo più coperti, giocano sempre su linee sfalsate in modo da trovare costantemente una luce per la ricezione. Il complesso dei movimenti offensivi disegna un 3-2-4-1 che sembra coincidere con le abilità e le inflessioni degli uomini in campo.
Mancini può anche contare su una buona profondità della rosa, potendo convocare almeno due elementi di pari livello per ogni posizione. Possibilità che probabilmente Ventura non ha avuto la fortuna o non ha percepito la necessità di trovare. Senza palla, il blocco azzurro si attesta sulla metà campo marcando con più attenzione alcuni ruoli chiave. Contro una difesa a 4, punta e una delle due ali schermano ai centrali opposti la soluzione verticale verso il regista (anch’esso controllato a uomo da uno dei centrocampisti) mentre l’ala opposta ed il terzino sulla fascia “vuota”, si tengono pronti ad uscire sugli esterni avversari qualora ricevano lo scarico. In questo caso molta attenzione va posta sulla fascia scoperta, con uno tra Jorginho e Verratti chiamato a staccarsi dalla linea ed assorbire eventuali inserimenti dietro al terzino.
Solitamente è l’ala sinistra a staccarsi e trascinare la catena di scalate da quella parte, in quanto Verratti difende meglio di Jorginho in campo aperto. I tempi di esecuzione, inoltre, sono fondamentali per la buona riuscita del sistema. Il possesso di palla torna comunque utile in fase difensiva per limitare le azioni avversarie. In alcuni momenti, principalmente per necessità, abbiamo visto il pressing alto, quando consentito dalla densità attorno alla palla ed alla zona di campo.
Bene, dove può arrivare l’Italia a tre anni dal disastro contro la Svezia? Possiamo considerarci al livello di Spagna, Francia e Germania? No, o meglio, non ancora. Fermo restando che la situazione calcistica è, per ovvi motivi, fortemente instabile, questo gruppo necessita di un ulteriore paio di anni di esperienza. Affinare alla perfezione i dettagli ed esperienza europea con i club potranno permetterci di giocare le future competizioni al pari delle Nazionali più forti.
Arriveremo con ogni probabilità ad Euro 2020 da outsider di lusso, con l’obiettivo minimo di arrivare ai quarti e giocarci le nostre chance. Ad oggi possiamo ritenerci fiduciosi verso un futuro che pare essere molto promettente.