L’oceano di parole in cui nuotiamo quotidianamente ci porta a incontrare frasi e citazioni che, spesso e volentieri, tramutiamo nei nostri stati Whatsapp. La frase “Siamo prodotti del nostro passato ma non per questo dobbiamo esserne prigionieri” del pastore Rick Warren non va usata solo come didascalia di un post Instagram, ma va compresa integralmente anche perché è una verità che accomuna me, tu che stai leggendo e il Birthday boy di oggi, ovvero Jadon Sancho.
Oltre lo strato del fascino c’è il gusto del significato delle parole, oltre il successo ci sono sacrifici che devono essere scoperti scavando in profondità, un po’ come nelle coppette dei trinidadiani “cocco slushies” di cui Jadon andava e va ghiotto. I 21 anni di Sancho sembrano 42 per il calderone di esperienze che ha vissuto. Un miscuglio di momenti in cui, tuttavia, ci sono ingredienti fondamentali nella formazione del suo carattere umano e calcistico. Innanzitutto, l’esasperato contesto della “Strada”, fatto di case popolari, povertà e criminalità che ormai, nella narrazione di questa nuova generazione di calciatori, sembrano diventate una ricorrente ambientazione di Cluedo. L’abitudine di questo racconto, tuttavia, non deve ridurlo alla normalità, perché la miseria è spesso un peso più che una spinta.
Vicus Magistrae Vitae
Per conoscere la storia di una delle rising stars della costellazione britannica si deve utilizzare il telescopio del passato che, nel caso di Sancho, punta dritto a Kennington. L’immagine lontana e italiana di Londra come oasi di benessere e opportunità coccia con questo quartiere a sud della City, somigliante ad una scodella di culture in cui sono mischiati i problemi prima citati. L’infornata di questa ricetta, spesso e volentieri, produce piccoli ladruncoli, spacciatori o affiliati della criminalità organizzata, ma ogni tanto, come nel caso di Sancho, anche speranze di un sogno avverato.
Tutti i ragazzi di quartieri come questi sono sognatori, sia chiaro, ma la “Strada” con le sue difficoltà spesso devia e raramente indirizza. La “Strada”, concetto volontariamente impersonificato, è una componente fondamentale del Jadon del passato e del Sancho del presente. È stata una preziosa insegnante di pallone, una mental coach di umiltà e coraggio e al tempo stesso una realtà da cui è stato necessario distaccarsi. Un habitat del suo passato di cui fanno parte le mai dimenticate origini caraibiche.
Una multiculturalità, quella di Sancho, ravvisabile nel nome e nel cognome, che sono manifesti del miscuglio di due anime ugualmente importanti. L’inglese Jadon, il cui significato è riconoscente, è un ringraziamento all’Inghilterra, culla del suo sogno, e alla Germania, teatro dell’opportunità di realizzarlo. Il sudamericano Sancho, il cui significato è sacro, è un rimando alla latinità di Trinidad e Tobago e all’indiscutibile comandamento caraibico della familia.
Seppur l’accento sia da underground londinese e la zarraggine sia quella da host di “Geordie Shore”, l’anima latina di Sancho è una componente che identifica la sua infanzia e il suo calcio. I roti con tamarindo e mango sono stati per anni la sua colazione sul pullman a due piani verso la scuola, così come la musica calypso è stata la colonna sonora prima dell’approccio con il rap. Il suo stile di gioco poi, fatto di accelerazioni e scatti repentini, è un tributo alla velocità Trinidadiana che, negli anni, ha prodotto atleti pluri-premiati e medaglie olimpiche.
Scavando nel passato recente, la formazione calcistica di Sancho sembra essere coerente sia con le sue origini sia con la velocità del suo gioco e del mondo moderno. Le accademie di Watford e Manchester City, sembra una bestemmia, non gli insegnano nulla: tutto quello che sa sul calcio Sancho lo ha imparato in strada. Il dribbling repentino a saltare i giocatori è quello che si faceva con le macchine nelle vie di Kennington; gli scatti e i cambi di passo sono il frutto delle partite del pomeriggio; la telepatia con Haaland, Reus o i compagni di nazionale è la trasposizione di quella che aveva sviluppato con il concittadino Gunner Reiss Nelson.
Il suo stile di gioco fatto di tricks e skills è quello dei disegnatori di cerchi di stupore nelle bocche di chi osserva qualcosa di unico. È il perfetto attore di quei video di YouTube che ci caricano, quelli con il sottofondo musicale che spacca. L’arte del dribbling di Sancho, tuttavia, non è fine a sé stessa, ma è spesso sublimata da giocate che si tramutano in gol o assist per i compagni. Come un burattinaio controlla le fila delle difese avversarie con una danza avvolgente e, se si ingarbuglia, trova il bandolo della matassa con la tecnica nello stretto. Imparata dove? La risposta la sapete già.
Sancho non ammette comfort zone
Come avrete potuto notare, la mia logorrea descrittiva sfocia spesso in paragoni e metafore. Osservando Sancho, fisicamente e somaticamente, ho pensato subito ad un ibrido tra Stephen Curry e il trapper Lil Mosey. Se negli Stati Uniti pallacanestro e musica sono due succursali della street culture, Sancho, prodotto di quest’ultima, è uno dei testimonial nel mondo del calcio. Se il taglio di capelli curly curato maniacalmente e lo street style lo accomuna con i due sopra citati, singolarmente, invece, trovo parallelismi sul campo e nella vita.
Partendo con il 30 degli Warriors, Sancho sembra il playmaker di una nuova corrente di pensiero: un giocatore underrated ma talentuosissimo, che partendo da fermo trova sempre il modo di essere pericoloso. Proseguendo con il trapper 2002, invece, Jadon è accomunato dalla missione di farcela dal nulla come canta Mosey in “Noticed” nei versi “I was broke, now a young flexed up” (“Ero povero e ora un giovane che sta flexando”, dove “flexare” è lo status di chi ha raggiunto le stelle dalle stalle). Per puntare agli astri, oltre al talento, serve il coraggio di prendere scelte non scontate. Un esempio?
Partire dalla scintillante Manchester di Guardiola per raggiungere la fumosa Dortmund. Alla domanda su questa decisione, Jadon ha sempre replicato seguendo il manuale delle risposte del buon giocatore. La frase “Avevo bisogno di giocare”, nonostante rappresenti la verità, cela l’intelligenza nel capire che la Germania e i gialloneri sarebbero stati il teatro perfetto per esprimere sé stesso. Il Dortmund è una delle squadre con più street credibility in Europa, è la crew di ballo in cui la sua danza calcistica può essere sublimata da numeri e giocate in costante evoluzione.
L’anglo-latino Sancho non è solo un testimonial cool and fresh del calcio moderno, ma è anche il prodotto di una multiculturalità positiva. È sfuggito dai pericoli della strada e ne ha guadagnato credibilità. Ha saputo prendere il cinismo inglese e la spettacolarità caraibica, traendone uno stile di gioco che ha unito l’utile al dilettevole. Jadon ha interpretato il significato positivo della frase di Warren: non è rimasto prigioniero delle sue origini ma ne ha tratto ricchezza. Tutto questo in 4 anni di carriera da professionista. Chissà cosa ci aspetta.