C’è qualcosa di candido nella scelta di Javier Pastore di usare una sua fotografia con Diego Maradona, che lo apostrofò in positivo come un “maleducato del calcio”, come immagine del suo profilo Instagram. È un calciatore di fama mondiale lui, che potrebbe usare i social come molti colleghi, solo per guadagnare. Ma apparentemente non gli interessa, perché l’affetto verso una persona che non c’è più, per Pastore, è evidentemente più importante. “Leggo poco i giornali, i miei familiari li comprano, conservano gli articoli, però non me li fanno vedere. Mi arrivano i commenti, ma cerco di trattare la cosa come sempre: stare con la mia famiglia, giocare coi miei nipoti o andare al cinema”, genuino, ha rivelato a El Gráfico nel 2010, quando gli venne dedicata la copertina del magazine argentino ed era già un talento affermato, anche in virtù della convocazione per la Coppa del Mondo in Sudafrica qualche mese prima.
Così si presenta El Flaco, e basterebbe questo per capire il suo animo umano e gentile, parallelo al suo calcio indefinibile. Guardo Pastore giocare e sorrido come se stessi vedendo mia nonna: in lui vedo un’eleganza antica, segnata dal tempo, ma proprio per questo più autentica e speciale. Non è una passeggiata saper osservare Javier Pastore, anzi. Ci vuole una certa sensibilità per poterlo capire a fondo, ancora di più per riuscire a mettersi nei suoi panni. Non è mai stato un calciatore per tutti. È come un quadro astratto: sai che vale tanto solo perché è esposto in un museo, ma in realtà pensi che potresti farlo anche tu. Però giocare a calcio come Pastore sfortunatamente non è emulabile da molti. O forse è una fortuna, perché non rende scontato ciò che scontato non potrebbe essere mai in nessun caso.
Lo sanno a Córdoba e a Buenos Aires come a Palermo e Parigi. In Argentina, Javier Pastore ha preso il suo soprannome quasi come un’investitura. In un Paese dalla grande tradizione futbolista, dove insieme ai “nati con la camicia” ci sono i “nati con la pelota“, giocare nel ruolo in cui gioca Pastore è una responsabilità. Si dice spesso che gli enganche vecchio stampo si siano estinti da un pezzo, e magari è per questo che preserviamo come una barrique di Malvasia tutti quei giocatori profondamente riconoscibili per la loro espressione di sé su un campo da calcio, col gioco a due tocchi, le finte, i dribbling ubriacanti, le pause, le imbucate da vertigine, la corsa al ralenti. Ma Javier Pastore è un’eccezione nel vero senso della parola: è uno spilungone che sfiora il metro e novanta, “flaco” come un fuscello, le leve lunghe, il baricentro basso come un palazzo, quindi tutt’altro che basso. E nonostante le sue dimensioni fuori scala per ogni enganche tipo, la sensibilità del suo piede destro è pari a quella dei migliori, o forse superiore.
“Per me, Javier Pastore è il miglior calciatore al mondo” sentenzia Éric Cantona nel 2015, che sembra, e forse lo è davvero, una vita fa. Pastore era al Paris Saint-Germain ormai da quattro anni e aveva già l’etichetta del fuoriclasse incostante cucita addosso. “Ho visto due partite del PSG solo per vederlo giocare, perché le sue giocate valgono. È il calciatore più creativo che c’è“. L’abilità di Pastore di passare attraverso i corpi degli avversari in campo, con fare illusionista, da satrapo, avevano ipnotizzato Cantona come un orologio a pendolo. I suoi passaggi venivano dal futuro: El Flaco sapeva già quali sarebbero stati i movimenti senza palla dei suoi compagni. Era come se vivesse due minuti avanti.
Molti hanno diffidato da Javier Pastore anche perché logorati dall’attesa di Pastore stesso, che forse non è mai davvero esploso, colpa come al solito di quei maledetti infortuni, che hanno contribuito a inframezzare la sua inesorabile ascesa. Però c’è chi Pastore lo ha visto manifestarsi, come fosse la madonna. Maurizio Zamparini per il Flaco ha versato lacrime cristalline come il mare a luglio, o come un tunnel d’esterno di Pastore alla prima palla buona. È successo subito, in un’amichevole nel ritiro pre-stagione in Austria dopo l’arrivo al Palermo.
Zamparini per il Palermo ha fatto tanto. Lo ha portato in Serie A e alle porte della Champions League, costruendo squadre di spessore e facendo anche a pugni col suo essere un uomo di altri tempi, di un altro calcio, vulcanico, sanguigno, troppo vecchio per le dinamiche del calcio moderno. Vedere Javier Pastore ricompensarlo così appena arrivato nella sua squadra deve avergli provocato uno di quei tuffi al cuore che possono essere pericolosi per un uomo di quell’età.
Chissà quali colori ha il cuore di Pastore, a proposito. Forse proprio il rosa e il nero, gli stessi della squadra che gli ha dato l’opportunità di presentarsi al calcio europeo in punta di piedi dopo aver incantato il Sudamerica nella splendida creatura che era l’Huracán di Ángel Cappa, da Menotti al Flaco, trasmettere tutto ciò che si sapeva per il bene della palla, compito gratificante. Cappa recentemente ha detto di lui che è “come un bel fiore, è logico metterlo in un vaso, non nel gabinetto”, intervistato sulle necessità tattiche di Pastore. “A Palermo lo rispettavano”, ha aggiunto.
Pastore in Italia è stato raro. Sirigu; Cassani, Bovo, Kjaer, Balzaretti; Migliaccio, Liverani, Nocerino, e poi Miccoli e Cavani davanti al numero 6 argentino, un undici da recitare come una preghiera a Santa Rosalia, con devozione, le mani rigorosamente giunte, un rosario a stagliarsi tra le dieci dita. Dieci, come il numero dei fantasisti, quello che Pastore a Palermo non ha mai vestito – dopo il 6 venne il 27, il numero preferito della madre Patricia -, nonostante le sue prestazioni lo portassero a toccare il cielo con un dito, il 30 gennaio 2010 come il 14 novembre dello stesso anno. Il primo goal in Serie A contro il Bari e la tripletta al Catania nel derby – la prima in carriera – sono due momenti che Pastore non potrà mai dimenticare, perché è stato quasi esclusivo vederlo giocare così bene in una partita, sebbene in quel biennio al Barbera il Flaco e il Palermo fossero una cosa sola, bellissima e quasi infallibile, tanto da sfiorare la Champions e far paura alle grandi.
Quasi, appunto. Se il tuo percorso parte dai potreros polverosi d’Argentina, è impossibile non desiderare un’alternativa. Pastore, tra l’utile e il dilettevole, spesso preferiva il secondo, sebbene tutti i compagni intorno a lui giocassero meglio se lui per primo giocava bene. Di Zidane, l’Avvocato Gianni Agnelli disse che era “più divertente che utile“, uno sputo in faccia a migliaia di ragazzini che in Zizou non vedevano solo un idolo, vedevano un sogno, come da sogno erano le sue giocate, da ricopiare fedelmente in tutti i campetti più o meno di fortuna della Francia multietnica all’alba del ventunesimo secolo.
Chissà cosa avrebbe pensato di Pastore che passa la palla con una rabona, che al tunnel scriverebbe un’ode, che all’arte del passaggio filtrante si è dedicato per una vita intera. Non è mai stato un maratoneta, un grande rubapalloni, e neanche un cannoniere da trenta goal a stagione, perché non ha mai potuto esserlo, scegliendo di sposare la fantasia. Lui è nato per fare quelle cose lì, per fare emozionare, all’occorrenza anche commuovere. Se è stato “richiesto” – unica parola accettabile – dal nuovo Paris Saint-Germain del fondo sovrano qatariota per venir esposto al Parco dei Principi come fosse la Gioconda al Louvre, un motivo ci sarà.
Di quel motivo, nella capitale francese, ci si ricorderà poche volte dopo la prima stagione con addosso la maglia a tinte blu, bianche e rosse, la più prolifica per il Flaco, autore di tredici marcature. Il passaggio di Pastore da Parigi è stato crepuscolare, un tramonto lento. Già al secondo anno, a 23 anni, Pastore aveva perso lo charme del pezzo da collezione. Colpa, si fa per dire, dei nuovi arrivi nella capitale francese commissionati da Nasser Al-Khelaifi al diesse Leonardo, che tante volte ha guardato all’Italia per arricchire la galleria d’arte PSG. Ménez, Sissoko, Sirigu, Verratti e soprattutto Thiago Silva, Lavezzi, Cavani e Ibrahimovic, tutti arrivati tra il 2012 e il 2013, resero il Paris Saint-Germain molto più forte, ma ridimensionarono l’importanza del Flaco nei ranghi della compagine allora allenata da Carlo Ancelotti.
La verità è che nessuno si immagina Javier Pastore col sorriso. Pure col dieci sulle spalle, che “cederà volentieri” a Neymar nel 2017, di certo l’acquisto più splendente dell’era qatariota a Parigi, Pastore ha continuato la sua trasformazione in un calciatore decadente, azzoppato dalle panchine e dagli infortuni. La fiducia non gli è mai mancata, lo provano alcune partite coi club, come quella contro il Barcellona al Camp Nou nel 2013, o con la nazionale argentina, con cui ha disputato un Mondiale nel 2010, allenato da uno dei suoi padri putativi, lo stesso Maradona di cui scrivevo all’inizio, e la Copa America nel 2011 e nel 2015. È mancata la costanza, quella sì che lo accomuna – in negativo – più della tecnica e dei centimetri ai suoi predecessori nel suo ruolo.
Una delle critiche che più spesso viene mossa a questi giocatori così complessi per il grande pubblico, così indecifrabili per loro stessi, è che “non hanno voglia”. Il loro status di eterni incompresi li ha sempre resi bersaglio di critiche e vessazioni ingenerose, come se ci fosse davvero qualcosa di male nel voler giocare a calcio secondo le loro necessità.
A Roma, per esempio, Pastore è arrivato come fosse il fossile di un enorme t-rex. Eppure, le aspettative su di lui erano talmente alte che alcuni pensavano che il fossile potesse tornare indietro nel tempo, rivivere e divorare le difese avversarie come un decennio prima. Nel 2008, Javier Pastore aveva diciannove anni ed era stato appena comprato dall’Huracán per la “cifra folle” di 500.000 dollari, così tanti che il presidente del club di Buenos Aires chiese aiuto a una holding argentina per pagare interamente il suo cartellino. Nel 2018, la Roma sborsò 24,7 milioni di euro per riportare in Italia il Flaco, con premesse e promesse luccicanti. Fu tutto vano. Per una strana coincidenza, una di quelle davvero grottesche e inquietanti per quanto vigliacche, le prime due reti di Pastore alla Roma furono due magnifici colpi di tacco, una della specialità della casa. A Roma sono sempre stati abituati ai trequartisti ipertecnici: Giannini e Totti hanno deliziato l’Olimpico per più di mezzo secolo con le loro genialate, pertanto Pastore sembrava destinato a continuare la tradizione, almeno a giudicare dai primi auspici.
Invece, Pastore a Roma il segno lo ha lasciato solo sui bilanci, percependo un lauto stipendio fino al 31 agosto scorso, quando ha rescisso il suo contratto, collezionando solo trenta presenze in tre stagioni. Ha poi firmato con l’Elche qualche giorno dopo, club con semplici ambizioni di salvezza della Liga, forse il campionato più adatto alla sua attuale condizione fisica, peggiorata di anno in anno. A soli 32 anni, sembra quasi non esserci più traccia del funambolo visto in patria o al Palermo. È come se Pastore non fosse più in grado di sussurrare al pallone come faceva a inizio carriera, comunicazione interrotta. Ora cammina sul prato verde del Manuel Martínez Valero, cerca di influenzare comunque il gioco della sua squadra e spesso ci riesce, a modo suo. Il suo sguardo adesso è disilluso, perché ha vissuto di tutto, il bello e il brutto della vita di un calciatore di belle speranze finito schiacciato dal peso delle attese. Mentre la sua carriera si accartocciava, lui cresceva. Adesso ha i capelli corti e quel poco di barba che serve a passare dall’aspetto fanciullesco dei primi anni italiani e francesi ad uno un po’ più maturo, da padre di famiglia credibile.
Più che dai suoi stessi allenatori, Pastore è stato plasmato dagli eventi. Ingabbiare nella tattica El Flaco non è mai stato possibile, perché ha sempre esulato da ogni dettame. Una delle sue più grandi abilità è quella dell’interpretazione. Sapeva capire cosa l’allenatore voleva per la sua squadra e sapeva darglielo con dei movimenti a tutto campo tipicamente latini, offrendosi costantemente come riferimento per i compagni. Forse è per questo che, nonostante la sua deprimente parabola, ultimamente si parlava di un interessamento del Boca Juniors nei suoi confronti. Per molti casual, Pastore al Boca sarebbe romantico, ma di quel romanticismo spicciolo, poco concreto, perché ci è facile assemblare i pezzi del puzzle sempre alla stessa maniera. Guardiamo a un talento sudamericano ormai svuotato della sua linfa vitale e subito pensiamo a volerlo vedere tornare a casa. Io però penso sarebbe triste. Soprattutto, un ritorno di Pastore in Argentina adesso sarebbe definitivo.
“Non vengo a ritirarmi” aveva detto El Flaco al suo sbarco in Spagna a settembre, più per cercare un cenno di fiducia negli occhi dei suoi nuovi tifosi che per chissà quale moto d’orgoglio. Finora ha giocato in campionato solo nove partite, non venendo neanche convocato per l’ultima sfida sorprendentemente pareggiata 2-2 col Real Madrid. Sarebbe potuta essere la sua presenza numero dieci in Liga con la divisa dei franjiverdes, comunque un numero mai banale per uno come lui, ma lo abbiamo capito che il fato ha un problema col Flaco.