Raccontare Johan Cruijff e cosa rappresenti ancora oggi per il gioco del calcio, è operazione assai complessa. Quasi quanto il tentativo di replicare quel sistema, definito “totale”, che negli anni ’70 ha segnato un’epoca, definendo un prima e un dopo nel gioco più bello del mondo. Una rivoluzione di cui Johan era il principale artefice e il migliore interprete. Molto più semplicemente, ne era l’immagine più efficace ed espressiva. Il profeta di una nuova religione calcistica che metteva insieme ordine e creatività, forza fisica e cervello, tradizione e innovazione. Ma non corriamo troppo. Come per quel mitico sistema, servono disciplina e organizzazione (oltre che talento e tecnica). E quindi procediamo con ordine.
La ricorrenza, che ci porta oggi a scrivere di lui, è commemorativa: nel 2016, infatti, moriva a Barcellona, fiaccato da un tumore polmonare scoperto solo cinque mesi prima. Aveva sessantotto anni: un arco di tempo inferiore alle aspettative medie di vita, ma che non gli ha impedito di cambiare e scrivere molte pagine di storia. Non solo calcistica.
Non è facile fornire un racconto univoco ed esaustivo di cos’abbia rappresentato Cruijff per il nostro tempo, ma probabilmente Federico Buffa e Carlo Pizzigoni, nella prefazione che anticipa l’edizione italiana dell’autobiografia del genio olandese, “La mia rivoluzione“, sono andati molto vicini a quello che si può definire un profilo in grado di coniugare sintesi, efficacia e profondità.
Egli vive con profonda passione il gioco, ma è capace del massimo distacco dal gioco. Ecco Johan Cruijff, l’unico che, rimanendo borghese, ha fatto la rivoluzione due volte, in campo e in panchina, come calciatore e come tecnico, con i piedi e con la testa. Sintetizza e sincretizza, Johan.
E ancora:
Venera le regole, ma non fa nulla che gli venga ordinato. Forma divina, funzione mondana. Difficile dire chi li ha inventati, gli olandesi. Sull’uomo che ha cambiato la storia del calcio, guardando al passato e al futuro, prima indietro e poi avanti, come in una ricezione di a trequarti di campo, magari prima di una Cruijff turn, be’ abbiamo molti meno dubbi.
Il matrimonio 10 anni tra Cruijff e l’Ajax
Cruijff nasce il 25 aprile del 1947 alla periferia di Amsterdam da una famiglia modesta che derivava il suo sostentamento da un negozio di frutta e verdura. A scuola Johan non eccelle, trascorre gran parte delle sue giornate disputando infinite partite di calcio con i bambini del quartiere, nelle quali mette in evidenza una spiccata propensione per il gioco già dall’età di cinque anni. A 10 entra ufficialmente nelle giovanili dell’Ajax, in quella che è stata per lui molto più di una squadra. Nella sua autobiografia, racconta:
Ero un bambino gracile e se fosse stato al giorno d’oggi, mi avrebbero fatto fare esercizi di ogni tipo. Per fortuna non successe. Per me era importante non solo giocare, ma soprattutto divertirmi.
È ciò che ribadirà in più di un’occasione, ma già due anni dopo il suo approdo nell’Ajax si verificherà il primo episodio che ne condizionerà l’infanzia. Perde il padre a causa di un attacco cardiaco, l’Ajax si prende cura della sua famiglia assumendo la madre come donna delle pulizie dello stadio e lui ben presto sceglierà di lasciare gli studi per dedicarsi anima e corpo al progetto di diventare calciatore.
L’esordio con i Lancieri arriva così a 17 anni, grazie a Vic Buckingham, suo allenatore anche nelle giovanili. In men che non si dica, diviene titolare inamovibile, ma l’Ajax non sta attraversando un buon periodo. È a un passo dalla retrocessione e a pagare per tutti è proprio il tecnico. In panchina arriva Rinus Michels e la scelta, apparentemente disperata, si trasforma in uno sliding door che cambierà la storia del calcio olandese e mondiale.
Inizia qui l’epoca del “calcio totale”, proprio a un soffio dal baratro. Dalla stagione successiva, l’Ajax inanella tre titoli nazionali consecutivi, ai quali aggiunge anche una Coppa d’Olanda. Cruijff comincia a mostrare la sua totalità, segnando caterve di gol pur giostrando prevalentemente lontano dalla porta, riuscendo a essere sempre decisivo. Anche in Europa le cose cominciano a girare per il verso giusto, ma la prima finale di Coppa dei Campioni nel 1969 vede prevalere il Milan di Nereo Rocco. Un incidente di percorso.
Dal 1971, infatti, gli ajacidi si iscrivono per ben tre volte di fila nel palmares della competizione battendo in serie il Panathinaikos della gloria ungherese (in panchina) Puskàs, l’Inter di Mazzola e la Juventus e Bettega. Un trittico a cui fecero eco gli altrettanti Palloni d’Oro conquistati da Cruijff che sublimò quell’idea di calcio senza eguali, poi trasposta anche in Nazionale dallo stesso Michels ai Mondiali del ‘74 e del ’78 che videro l’Olanda sempre sconfitta in finale.
Un sistema organizzato come i Paesi Bassi
Un’idea di calcio che il suo interprete migliore descrive come una “combinazione di talento, tecnica e disciplina” a cui poi si è aggiunta “l’organizzazione in campo”.
Il calcio totale è una questione di distanze e di metri. Se spazi e distanze vengono rispettati, allora si può coprire tutto il campo: questa è la base della filosofia di gioco. Per farlo, però, serve bravura e molta disciplina – non esiste che un giocatore vada a pressare da solo, così non funziona; un giocatore inizia a provocare gli avversari e il resto della squadra deve subito seguirlo compatto, questo è l’approccio giusto.
Un sistema peculiare al punto che, secondo lo storico dell’arte Rudi Fuchs, sarebbe potuto nascere solo nei Paesi Bassi. A suo dire, infatti, a scatenare la sensibilità al contempo di artisti e calciatori sarebbero state le caratteristiche di una terra così unica, sottratta con ingegno e caparbietà alla forza delle acque. Tant’è che Fuchs sosteneva:
Chiedi a un qualunque cittadino dei Paesi Bassi di disegnarti l’orizzonte e quello traccerà una linea dritta. Se lo chiedi a qualcuno dello Yorkshire o della Toscana o di qualunque altro posto, ti ritroverai con protuberanze e colline.
Secondo questa analisi, dunque, gli olandesi avrebbero cercato un senso alla vasta piattezza della propria terra perfezionando un sistema per calibrare le distanze a partire dall’orizzonte, calcolando lo spazio risultante e riservando un’attenzione meticolosa a ogni oggetto. L’utilizzo intelligente dello spazio sul campo da gioco avrebbe così rispecchiato secoli di gestione dello spazio limitato di cui i Paesi Bassi disponevano.
Ma tornando alla carriera del nostro, la serie di vittorie, almeno con la squadra di club, sarebbe stata sicuramente più lunga senza l’ormai famigerato incidente per il ruolo di capitano dell’Ajax. Cruijff indossava la fascia già dal 1972, ma all’inizio del campionato ’73-’74, Piet Keizer aveva deciso di candidarsi per lo stesso ruolo. La questione finì ai voti nello spogliatoio e Johan ne uscì sorprendentemente sconfitto.
Un colpo durissimo per lui che si era battuto a lungo, anche a livello sindacale, per il riconoscimento di maggiori diritti per i calciatori e che, come capitano, aveva ottenuto l’attribuzione di premi supplementari a valle dei numerosi successi. Nella sua autobiografia, Johan racconta:
Fu uno smacco durissimo. Andai dritto in camera, chiamai Coro Coster e gli dissi di cominciare a cercare una nuova squadra. Con loro avevo chiuso, i fatti di allora crearono in me delle ferite insanabili. La delusione fu ancora più forte perché non si trattava di semplici compagni di squadra, ma di amici intimi, e proprio per questo non me l’aspettavo.
Cruijff in America, e ritorno
Il successivo approdo al Barcellona fu tutt’altro che banale. Come tutta la vita del Pelé bianco. Inizialmente, infatti, erano stati Ajax e Real Madrid ad accordarsi per la sua cessione, ma Cruijff aveva scelto gli azulgrana. Arrivò così finanche a minacciare di lasciare il calcio se la trattativa non fosse andata in porto. Uno spauracchio che contribuì ad accelerare le operazioni e gli consentì, già al primo anno, di riportare in terra catalana quella Liga che mancava da 15 stagioni.
A 31 anni, quindi, dopo alterne vicende di campo e societarie, sceglie sorprendentemente di lasciare il calcio per la prima volta. Durerà poco, ma il suo ritorno con gli scarpini ai piedi sarà tutt’altro che banale. Sul finire degli anni ’70, su suggerimento del suocero e manager Coster (colui che gli farà da guida e da mentore sui temi del marketing, della contrattazione sindacale e della gestione del patrimonio), prende la via della NASL, il campionato americano, dove incrocerà anche un “certo” George Best.
In USA vestirà le maglie degli L.A. Aztecs e dei Washington Diplomats, prima di scegliere di fare ritorno in Olanda. Con l’Ajax sarà un ritorno vincente, anche per la possibilità di tenere a battesimo due fenomeni della nuova generazione olandese come Rijkaard e Van Basten. La terza perla oranje la incrocerà nel 1983, in occasione del suo passaggio agli ex odiati rivali del Feyenoord, dove si stava rapidamente mettendo in luce Ruud Gullit.
La successiva carriera da allenatore è una sorta di deja-vu del percorso da tecnico. Comincia dall’Ajax, appena 200 giorni dopo il suo addio al calcio giocato. Vince in patria e in Europa, con il fiore all’occhiello della Coppa delle Coppe strappata in finale al Lipsia con gol di Van Basten. Quindi nel 1988 passa nuovamente al Barcellona ed è qui se compie il suo capolavoro più grande, anche in panchina. Alleva una generazione di fenomeni (Guardiola, Bakero, Amor, Koeman, Laudrup, Stoichkov tra gli altri), vince quattro campionati di fila, la Coppa del Re, ancora la Coppa delle Coppe e dà un grosso dispiacere al calcio italiano stappando la Coppa Campioni in finale alla Sampdoria. Nel 1996, quindi, l’addio anche alla panchina arriva per ragioni di salute legati ai ripetuti infarti.
14
Il resto è storia recente. Il suo vizio del fumo lo porterà via troppo presto, non prima però di aver dato vita alla Cruijff Foundation, ora curata in particolare dal figlio Jordi, con cui riuscirà a realizzare tante iniziative con e per le comunità. Su tutte la creazione di oltre 200 playground sui quali, ancora oggi, campeggia un grosso tabellone con le sue 14 regole. Quattordici come il numero indissolubilmente legato a lui, anche in un’epoca in cui le numerazioni dei calciatori andavano dall’1 all’11. Ma 14, si sa, è meglio. Specie se il numero è associato anche ai dogmi che ha voluto lasciare dietro di sé. E provate, se ci riuscite, ad applicarli solo al calcio e non alla vita.
- Gioco di squadra: per fare le cose dovete farle insieme.
- Responsabilità: prendetevi cura delle cose come se fossero le vostre.
- Rispetto: rispettatevi gli uni con gli altri.
- Integrazione: coinvolgete gli altri nelle vostre attività.
- Iniziativa: abbiate il coraggio di provare qualcosa di nuovo.
- Allenamento: aiutatevi sempre l’uno con l’altro all’interno di una squadra.
- Personalità: siate voi stessi.
- Impegno sociale: cruciale nello sport e ancora di più nella vita in generale
- Tecnica: è la base
- Tattiche: sappiate cosa fare.
- Sviluppo: lo sport sviluppa corpo e anima
- Imparare: cercate di imparare qualcosa di nuovo ogni giorno.
- Giocare insieme: è una parte essenziale del gioco.
- Creatività: è la bellezza dello sport.