Il nostro itinerario fra le maglie che hanno scritto la storia del calcio e affascinato milioni di appassionati continua con un famoso marchio italiano, Kappa.
Le valigie sono pronte ormai da tempo. L’aereo decolla. Mentre prendiamo quota, gettiamo un ultimo sguardo a Manchester, la città che ha fatto da cornice a centinaia di racconti leggendari. Riconosciamo l’Old Trafford e l’Etihad Stadium, il quartiere di Burnage (dove sono nati e cresciuti i fratelli Gallagher), la cattedrale e la Town Hall.
Cerchiamo di individuare, nel mosaico di strade e palazzi, anche la sede di Umbro, la storica azienda che, con il suo fascino, ci aveva attratti fin qui. Ora, però, è tempo di sorvolare nuovamente il canale della Manica e di tornare in Italia. Per la precisione, sbarcheremo all’Aeroporto di Torino-Caselle. Sarà il capoluogo piemontese, infatti, la seconda tappa del nostro appassionante viaggio.
Un cambio di rotta rivoluzionario
La storia di Kappa, una delle imprese italiane più caratteristiche e conosciute nel settore dell’abbigliamento sportivo, affonda le proprie radici nel 1916, poco più di un secolo fa. Proprio nel pieno della Prima Guerra Mondiale, infatti, il giovane Abramo Vitale fonda la Società Anonima “Calzificio Torinese“.
Il capitale che può investire è decisamente esiguo, quindi sceglie come sede una semplice cascina situata oltre il fiume Dora. Ben lontana, quindi, dal centro cittadino e dal Po, sulle sponde del quale fioriscono sempre più aziende di grosse dimensioni e di grande prestigio. Come facilmente intuibile dal nome, tutto parte dalla produzione di sole calze. Con ottimi risultati, visto che, molto presto, vengono scelte come fornitura per il Regio Esercito Italiano.
Fino agli anni Cinquanta, l’azienda continua il suo percorso di crescita e affermazione, ma vive anche periodi difficili. Da una parte estende i propri commerci, dando il via alla produzione di maglie intime: questo porterà all’integrazione di “Maglificio“ nella denominazione della società. Dall’altra la Seconda Guerra Mondiale porta una serie di problemi.
Prima costringe Davide Vitale (nipote di Abramo) e Giuseppe Lattes a dimettersi dalle loro posizioni di vertice, a causa dell’inasprirsi delle leggi razziali. Poi, la serie di bombardamenti – ad opera delle forze alleate, che colpiscono la città sabauda tra il 12 e il 13 luglio 1943 (tra i più gravi in Italia) – rade completamente al suolo lo stabilimento.
Con il dopoguerra arriva la rinascita: gli aiuti finanziari derivanti dal Piano Marshall portano alla ricostruzione della sede, stavolta con strutture e macchinari all’avanguardia. E nello stesso periodo l’azienda ha finalmente accesso ai grandi mercati: terminati i conflitti e, con essi, la necessità di concentrarsi sull’esercito, è tempo ora di guadagnarsi il consenso del popolo italiano. Nel 1956, a causa di un errore di produzione e del conseguente tentativo di riacquistare credibilità, su calze e maglie inizia ad essere apposta la dicitura “K-Kontroll”. La rivoluzione del brand è appena cominciata.
L’illuminazione: nasce “Robe di Kappa“
La vera svolta avviene nel 1968, anno dei grandi movimenti di massa che, percorrendo tutto il mondo, si scagliano contro le ideologie dominanti alla ricerca di una società più giusta, equa e pacifica. Il bersaglio principale è, ovviamente, l’emblema della violenza e della sopraffazione, ossia l’intervento statunitense nell’estenuante e devastante Guerra del Vietnam.
Tra i personaggi più carismatici che partecipano alle lotte della non-violenza troviamo John Lennon e la moglie Yōko Ono. Con la protesta dei famosi bed-in e la citazione “War is over” contribuiscono non poco a smuovere l’opinione pubblica. Uno dei gesti più eclatanti del frontman dei Beatles fu sicuramente indossare la camicia militare di un soldato caduto in Vietnam.
Questo gesto ricopre un ruolo fondamentale persino nella rivoluzione della nostra azienda. Si narra che Maurizio Vitale (secondogenito di Davide) abbia avuto un’illuminazione proprio mentre guardava Lennon in tv. Il nuovo amministratore capisce che è tempo di modificare l’essenza stessa della società, per essere in linea con le rinnovate esigenze del mercato.
Le maglie intime non sono più appetibili come prima e giacciono invendute nei grandi magazzini: con il ’68 sta cambiando anche il modo di vestire dei giovani. Quindi, bisogna puntare sul nuovo stile che sta spopolando ovunque: quello casual. Vitale lo intuisce in tempo e fonda un nuovo ramo dell’azienda: “Robe di Kappa”. Un nome che, per la prima volta, prende vita da una semplice espressione popolare. Poco tempo dopo, nasce Jesus Jeans, con l’obiettivo di produrre anche in Italia il capo blu tanto amato dai giovani di tutto il mondo.
Il nuovo logo
I rinnovamenti di questo periodo consentono all’azienda di attrarre sempre più le nuove generazioni italiane. Il successo viene anche garantito dalla creazione del logo ufficiale, passo necessario per rendere ovunque riconoscibile la propria identità.
L’immagine scelta per tale scopo (e ancora oggi utilizzata) è quella composta dalle sagome di un ragazzo e di una ragazza che siedono schiena contro schiena. Un’idea particolare, la cui origine è più casuale di quanto possiate credere. Nasce, infatti, nello studio del fotografo Sergio Druetto, a Torino, nel corso di uno shooting per pubblicizzare i costumi da bagno Beatrix. Durante un momento di pausa, due anonimi modelli, seduti distrattamente su un muro, vengono immortalati dallo scatto, arrivato probabilmente a loro insaputa.
Un istante che viene catturato e consegnato alla storia: Maurizio Vitale se ne innamora e lo impone come logo della propria azienda. In esso, l’amministratore torinese vede, infatti, non solo la spensieratezza dei giovani (bacino di clienti, come abbiamo visto, essenziale), ma, soprattutto, la raffigurazione simbolica di una parità di genere che le lotte femministe del tempo cercano di conseguire.
L’approdo nel calcio di Kappa: Juventus e Milan
Nel 1978, dieci anni dopo il cambio di rotta targato Maurizio Vitale, arriva l’approdo definitivo nel mondo dello sport. E stavolta il pioniere è Marco Boglione, giovane fotografo e direttore del marketing che ben presto avrebbe preso in mano il timone dell’azienda, creando l’attuale gruppo BasicNet. Boglione capisce che gli interessi dei ragazzi sono nuovamente cambiati, spostandosi verso un abbigliamento maggiormente “da strada“: il famoso streetwear. Nasce la divisione “Robe di Kappa Sport”, che ben presto prenderà il semplice nome di Kappa.
Sul finire degli anni Settanta, anche il campionato italiano vive un’importante novità. Arriva nel calcio nostrano (all’estero era già presente da tempo): l’autorizzazione ad esporre un logo commerciale sulle divise da gioco. Nasce l’era delle sponsorizzazioni. Per la neonata Kappa è un’occasione da non perdere per consacrarsi definitivamente. E, per un’azienda di tradizione torinese, quale squadra può essere considerata più appropriata della Juventus? Che tra l’altro sta vivendo uno dei cicli più vincenti di tutta la sua storia. Coincidenze che non possono passare inosservate.
Nel prende il via, quindi, la partnership tra Kappa e Juventus Football Club, sancita dall’incontro tra i rispettivi amministratori: il solito Maurizio Vitale e Giampiero Boniperti. È l’inizio di un sodalizio lungo 22 anni: la separazione sarebbe arrivata soltanto nel 2000. In questo lasso di tempo il marchio veste campioni del calibro di Platini, Boniek, Scirea, Baggio, Del Piero e Zidane. Antonio Cabrini e Marco Tardelli vengono scelti a più riprese come testimonial ufficiali del brand, dando vita a storici spot pubblicitari.
È un periodo d’oro per la Vecchia Signora: come probabilmente qualche attento tifoso juventino avrà già notato, le uniche due Coppe dei Campioni vinte dalla squadra torinese arrivano proprio durante il “regno” di Kappa. Che, nella seconda occasione, lascia un’impronta indelebile nel successo bianconero. Il 22 maggio 1996, allo Stadio Olimpico di Roma, infatti, la squadra di Marcello Lippi scende in campo con una delle divise più memorabili della sua storia.
Stiamo parlando della celebre seconda maglia blu “con le stelle” sulle spalle. Un kit all’avanguardia, che per la prima volta aveva portato in bella mostra lo stemma juventino (sostituito, però, nella stagione della Champions, dal tricolore). E che non dimenticava i portieri, fino a quel momento esclusi dalla fornitura scelta per il resto della squadra. Non che Angelo Peruzzi ne fosse entusiasta, anzi:
L’unica cosa che stonava era quella maglia gialla con le stelle blu. Non mi piaceva. Sono sempre stato un tradizionalista: grigio o nero, come Zoff.
Nel 1986, un’altra big del calcio italiano decide di affidarsi a Kappa. Si tratta del Milan del nuovo proprietario Silvio Berlusconi. In questo caso la collaborazione è molto più breve: durerà soltanto quattro stagioni. Ma l’esito può considerarsi più che positivo. Con la nuova maglia targata Kappa, che vede dopo diverso tempo il ritorno di strisce verticali più spesse, il Milan si impone prima a livello nazionale, poi europeo, infine mondiale.
Sono gli anni di Arrigo Sacchi, di Baresi e Maldini, dell’incredibile trio olandese composto da Frank Rijkaard, Ruud Gullit e Marco van Basten, il cigno di Utrecht. In tre stagioni arrivano un campionato italiano (quello soffiato al Napoli di Maradona) e una Supercoppa Italiana, ma soprattutto due Coppe dei Campioni, una Supercoppa Europea e una Coppa Intercontinentale. E nelle notti di Barcellona e Vienna a brillare è proprio il trio olandese: doppiette per Gullit e van Basten nel 4-0 alla Steaua Bucarest, gol decisivo di Rijkaard contro il Benfica.
Creatività internazionale: Barcellona, City e Giamaica
Grazie alla popolarità (e ai successi) di Juventus e Milan, Kappa si fa finalmente conoscere a livello internazionale. Dopo aver lavorato anche per Roma, Lazio e Sampdoria, negli anni Novanta stringe delle collaborazioni con diverse squadre europee, come Athletic Bilbao, Manchester City e Barcellona. Con i blaugrana vediamo l’introduzione della “banda”, motivo utilizzato ancora oggi nelle collezioni streetwear.
La nuova decorazione viene scelta per vivacizzare la sezione laterale della divisa (pressoché ignorata fino a quel momento), partendo dal collo, passando per le spalle e arrivando fino alle maniche. La banda, con la ripetizione del pattern degli “Omini”, sarebbe entrata di diritto tra le integrazioni più innovative e creative del marchio torinese, venendo riproposta, a fine decennio, anche al Manchester City.
La conferma che si tratti di un periodo favorevole e che la fantasia non manchi nel team di Boglione arriva sempre attraverso il Barcellona. La seconda maglia indossata tra il 1995 e il 1997 è un tripudio di geometrie mai viste da quelle parti. Parallelogrammi, disposti in modo casuale ed evidenziati da due tonalità differenti di verde acqua, si sovrappongo, consentendo di scorgere alcuni spiragli di blu e rosso.
Sul fronte, riconoscibile il “watermark” blaugrana, composto dall’alternarsi tra il nome “Barça” e il logo Kappa. Sulle spalle, ancora una volta, le immancabili bande. Che però, a causa del regolamento UEFA, non possono accompagnare la squadra nelle competizioni europee. Non ci saranno, infatti, quando Ronaldo, con un rigore in finale, consegnerà al club la Coppa delle Coppe 1997, subito prima di salutare e passare all’Inter.
Nel 1998, infine, Kappa è partecipe e complice di una prima volta storica: quella della Giamaica ai Mondiali di Calcio. La squadra di René Simões si presenta in Francia senza niente da perdere e con tanta voglia di stupire. E lo fa innanzitutto con la maglia da gioco: Kappa disegna per lei una delle più belle nella storia del torneo. Sul classico sfondo giallo viene inserito un arco colorato, che attraversa tutto il busto dalla spalla sinistra alla coscia destra.
L’avventura dei “Reggae Boyz” in Francia si chiude già nella fase a gironi, nonostante una vittoria con il Giappone. Ma quella breve e fugace comparsa, unita alla simpatia che le nazionali più deboli riescono sempre a suscitare nel cuore degli appassionati, basta per consegnare la Giamaica (e la sua maglia) alla storia dello sport.
Il modello Kombat: Italia e Roma
Nel 1998, al termine degli stessi mondiali francesi, Kappa raggiunge il massimo delle proprie ambizioni. Subentrando a Nike, ottiene il privilegio di vestire la Nazionale italiana di calcio. E decide di farlo, come al solito, in grande stile.
Proprio la maglia realizzata per gli Azzurri in occasione degli Europei del 2000 segna, infatti, un cambiamento epocale per il mondo delle divise da gioco (e per Kappa nello specifico). Viene creato il Kombat, un nuovo modello dotato, per la prima volta, di un tessuto elasticizzato e aderente al corpo, composto da poliestere e Spandex: la maglietta si trasforma in una seconda pelle per i calciatori.
Un’evoluzione che si sarebbe rivelata molto utile: da quel momento, la maggiore aderenza avrebbe messo in risalto le trattenute degli avversari. Il vecchio modo stesso di concepire le maglie viene abbandonato, insieme alla loro larghezza e agli inutili colletti: viene definitivamente introdotto il più semplice collo a U.
Conclusosi l’Europeo, con gli Azzurri che vengono sconfitti in finale in modo piuttosto rocambolesco, Kappa decide di proporre il nuovo modello Kombat anche alle squadre di club. La prima a beneficiarne è la Roma, già legata al marchio tra il 1984 e il 1986. Manco a crederci, proprio al termine del primo anno di collaborazione, i giallorossi vincono uno storico scudetto, dopo ben diciotto anni di attesa.
Le successive stagioni sono invece caratterizzate da un’idea particolare. Kappa, infatti, desidera creare nuovi kit appositamente per le coppe europee. Nel 2001-2002, nelle partite di Champions League, la squadra scende in campo con una maglia metà gialla e metà rossa, accompagnata da dettagli, pantaloncini e calzettoni di color blu imperiale. Nella stagione successiva, l’ultima della partnership, vengono addirittura introdotte due divise: una per le partite in casa (body rosso con maniche gialle, dettagli, pantaloncini e calzettoni neri) e un’altra per le trasferte (simile a quella usata in campionato, ma con maniche argentate).
Kappa, una strana involuzione…
Proprio quando sembra che il marchio abbia definitivamente spiccato il volo, però, qualcosa si inceppa. Mentre si va affermando il modello Kombat, infatti, la creatività che aveva caratterizzato gli anni precedenti svanisce improvvisamente. Non è chiaro se a questa involuzione concorrano limiti o esigenze richieste dall’impiego del nuovo template.
Qualunque sia il motivo, a partire dalla seconda metà degli anni 2000 Kappa diviene irriconoscibile, in seguito alla produzione di una serie di divise sempre più anonime. Nulla a che vedere con le stelle juventine o le fantasie blaugrana, che sembrano ormai appartenere ad un’epoca lontana.
In particolare, spariscono le storiche bande, fino a quel momento emblema del marchio. Per gli appassionati è un colpo al cuore: è come se Adidas, da un giorno all’altro. si dimenticasse delle sue caratteristiche tre strisce parallele. Quella vissuta in questo periodo da Kappa può essere considerata una vera e propria crisi esistenziale, in cui la sua stessa identità viene messa in discussione.
L’incertezza cresce quando, sempre nei medesimi anni, si decide di abbandonare, su gran parte delle maglie, il memorabile disegno degli “omini“, optando per il semplice logo-tipo in corsivo. Una scelta discutibile, vista la mancanza – in questo formato – di un’adeguata potenza comunicativa, proprio nel momento in cui era maggiormente necessario.
…e una lenta ripresa
Tutti si chiedono la stessa cosa. Come mai un’azienda storicamente rivoluzionaria, che più di una volta aveva modificato la sua stessa essenza cercando di adattarsi alle esigenze del mercato, ora fatica ad uscire da questa fase di impasse? Come mai non è più in grado di osare, capacità necessaria per poter riacquistare l’interesse di club e tifosi?
Eppure ne avrebbe bisogno: il periodo negativo sta costando veramente caro al marchio torinese. Non solo è rimasta anni luce indietro rispetto a colossi del calibro di Nike e Adidas, ma ha perso anche la posizione di egemonia nel panorama nazionale. Negli ultimi anni, la bolognese Macron ha gentilmente sottratto a Kappa diverse squadre del campionato italiano, oltre a strappare ad Adidas un contratto per fornire agli arbitri le divise della UEFA.
In ogni caso, negli ultimi tempi, qualcosa sta ritornando a muoversi. Confrontando le nuove maglie con quelle di una decina di anni fa, ci si rende subito conto che Kappa sta intraprendendo nuovamente la strada di quell’azzardo e di quella fantasia dimenticati troppo presto in soffitta.
Ne è un esempio lampante la maglia del Napoli nella stagione 2017/18: la tinta unita viene messa da parte, per poter dare spazio al disegno in low-poly di un leone ruggente. Una geometria che, nel complesso, tende a ricordare la divisa disegnata da Umbro nel 1991/92. Un’altra boccata d’aria è visibile nella terza maglia del Betis Siviglia dell’anno successivo: sullo sfondo verde chiaro risalta una veduta aerea e stilizzata della città, dalla quale si possono persino riconoscere i monumenti principali.
Finalmente la creatività sta tornando. E, soprattutto, si sta riuscendo a farla convivere con il pragmatismo del modello Kombat. Vincendo una sfida, un tira e molla che va avanti ormai da una quindicina d’anni. Non ci montiamo la testa, la strada è ancora lunga, il traguardo si scorge lontano all’orizzonte. Ma gli appassionati possono tirare un sospiro di sollievo: Kappa ha dimostrato di essere ancora viva. L’auspicio di tutti è quello che possa tornare ai fasti di un tempo, riconquistando il posto che le spetta di diritto nel nostro amato palcoscenico.
Pezzo redatto in collaborazione con Gabriele Graziano
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