Sono passati tre mesi da quando, nel ritiro di Dimaro, Khvicha Kvaratskhelia provava a spiegarci, con scarsi risultati, come pronunciare il suo nome. Da allora non abbiamo mai smesso di guardarlo, di ammirarlo, di capire come mai un talento simile potesse giungere quasi per caso e avere un impatto così folgorante. Qualcosa che raramente si è visto nella storia del calcio italiano, al punto da farci chiedere come sia possibile che una periferia dell’impero del pallone sia stata in grado di creare un giocatore del genere. Nemmeno l’unico in una nazionale che vanta altri giocatori di valore come Davitashvili e Mamardashvili. Quest’articolo non è la risposta a questa domanda, bensì a come nel mondo dello sport georgiano si stia assistendo a un fenomeno interessante. Kvaratskhelia è l’immagine di un mondo fatto di atleti nati da fuochi che a lungo sono rimasti sopiti. Prima però è importante fare un salto all’indietro e connettere questi fuochi ad altri, presenti nella storia.
La grande rapina alla banca
Dicembre 1903: Simon Ter-Petrosian, detto Kamo, è un ragazzo di ventun anni, già inquadrato dalla polizia zarista come soggetto estremamente pericoloso. All’interno di una borsa, durante una perquisizione, gli hanno trovato del materiale politico: lo hanno arrestato e posto in regime d’isolamento. Lì contrae la malaria e, come terapia, gli concedono di camminare ogni tanto nel cortile del carcere; durante una di queste passeggiate la guardia non lo nota e Simon ne approfitta per scavalcare le mura ed evadere. Anni dopo dirà:
Non dimenticherò mai la sensazione di libertà che ho provato scalando quel muro. Non ho mai provato un’esperienza come quella
Petrosian dopo la fuga riprende i contatti con i vecchi compagni, in particolare con un ex-seminarista suo amico, tale Iosif Vissarionovič Džugašvili, che lo ha indirizzato alla lotta politica. Entrambi militano in un partito clandestino che ha bisogno di risorse per portare avanti la lotta contro lo Zar; provano la strada degli espropri fino al 1907 quando a Petrosian viene la grande idea di fare una rapina in banca. La realizza a Tbilisi, sullo stile degli assalti alla diligenza del vecchio West: la rapina frutta di più di 200000 rubli dell’epoca ma le conseguenze saranno nefaste. Quei soldi saranno inutilizzabili, il partito perde di credibilità e finirà per spaccarsi. Petrosian viene arrestato e condannato a morte; il suo amico andrà in esilio. Sembra la loro fine ma tutti si prenderanno la rivincita: il partito dieci anni dopo salirà al potere; Petrosian verrà rilasciato con tutti gli onori e l’amico, diventato famoso col nome di Stalin, nel giro di pochi anni farà all-in sull’Unione Sovietica.
La storia degli albori del partito bolscevico ci insegna a non sottovalutare l’arguzia e la strategia della gente georgiana. Al solito, chi proviene dal centro sottovaluta la forza della periferia, scambiando la voglia di rivalsa per rozzezza, e prima o poi ne paga il prezzo. Nello sport, per certi versi, è accaduto e accade la stessa cosa: quando pensiamo agli atleti georgiani l’immagine che abbiamo è quella di figure rozze, molto manuali, espressione di pura potenza. L’esempio più evidente è quello di Lasha Talakhadze, forse il più grande sollevatore della storia, bi-campione olimpico e attuale detentore di tutti i record mondiali. Gli esempi più noti sono quelli di Zaza Pachulia, vincitore di due anelli con Golden State, uno che sull’Urban Dictionary viene definito dirty on the court and in bed, e Mamuka Gorgodze, ex-capitano della nazionale di rugby il cui soprannome Gorgodzilla dice tutto di come interpretava le partite. Eppure la cultura sportiva georgiana ha tradizioni antichissime, antecede la grande scuola sovietica e non è solo espressione di pura forza fisica. Scorrendo i nomi si trovano storie come quella di Robert Shavlakadze, oro olimpico a Roma nel salto in alto, oppure quella di Nona Gaprindashvili, grande scacchista la cui storia è stata in parte usata per la serie La Regina degli Scacchi; anche se in maniera scorretta secondo la diretta interessata che ha fatto causa a Netflix per danni morali.
Nuovi talenti si fanno strada nel rugby
Il rugby è un osservatorio privilegiato per capire lo sport georgiano e le sue connessioni storiche. Basta guardare il soprannome, Lelos, la cui origine risale al Lelo Burti, antica tradizione ortodossa in vigore a Shukhuti, un paesino della Guria, durante le celebrazioni pasquali. Il paese viene diviso in due fazioni, attraverso una linea immaginaria che divide la parte alta da quella bassa, che si sfidano portando da una parte all’altra una palla ovale, molto pesante perché piena di vino. La contesa inizia quando il sacerdote, dopo aver benedetto la palla, la lancia verso la folla che se la contende dandosele di santa ragione. Il Lelo Burti nel corso dei secoli era molto praticato e il rugby georgiano ha un debito diretto nei suoi confronti: lo ha dimostrato nel 2017 quando, in occasione del mondiale maschile Under 20, il trofeo è stato portato proprio nel paesino nel tripudio della folla.
Eppure anche il rugby sta cambiando, con la voglia della periferia di emergere e presupposti nuovi. 10 Luglio scorso, Batumi. La Georgia, dopo anni di richieste, ha la possibilità di ospitare una nazionale Tier 1, cioè il gotha della palla ovale mondiale, in casa propria. Dall’altra parte c’è l’Italia di Kieran Crowley, centro in disfacimento che pensa di dare una lezione alla periferia per ribadire le gerarchie. Il responso è tragico per gli azzurri. La sconfitta per 28-19 segna una prima volta storica per il rugby georgiano, che ora busserà più forte alle grandi della palla ovale. I protagonisti di questa vittoria sono tre: Davit Niniashvili, estremo e ala, Tedo Abzhandadze, mediano d’apertura, e Gela Aprasidze, mediano di mischia. Il più vecchio di loro, Aprasidze, ha 25 anni e il più giovane, Niniashvili, 20. Sono la nouvelle vague del rugby georgiano: piccolini, spesso sotto l’1.80 e dotati di una reattività fisica e mentale eccezionale. Quando partono sono incontenibili, le difese non riescono a leggere le loro intenzioni e non stanno al loro passo. Direi che ci ricordano qualcosa, gli echi sul campo sono gli stessi che lascia Kvaratskhelia ed è curioso che anche lui abbia trovato rifugio sulla costa del Mar Nero, dopo l’addio al Rubin Kazan a causa della guerra. Probabilmente non porteranno la Georgia in cima al mondo ma nei prossimi anni guarderemo queste nazionali con altri occhi, data la loro capacità di competere.
I figli di Q’ipiani: Kvaratskhelia erede di una tradizione
Kamo morirà nel 1922 a causa di un incidente stradale; i sospetti cadranno a lungo sull’ex amico Stalin che negli anni ucciderà tutti quelli che potevano fargli ombra, affidandosi anche agli zii di Christian De Sica. Il suo nome resta nell’ombra della storia, sebbene abbia avuto un ruolo non indifferente nella storia del bolscevismo e dunque dell’intero ‘900. Anche lo sport georgiano ha avuto il suo Kamo, un uomo dotato di idee eccezionali che è morto presto ed è rimasto all’ombra della storia. Si chiamava Davit Q’ipiani e nella sua vita è morto due volte. La prima quando non ha partecipato al Mundial 1982, all’apice della carriera, e la seconda con la sua morte effettiva, anche lui per incidente stradale. Q’ipiani era un atleta diverso: né la scuola scientifica di Kiev, né il brutalismo calcistico moscovita. Chi lo ha visto giocare racconta quanto fosse incantevole, capace con la sua fantasia di far saltare tutti gli schemi nel nome di un’innata creatività. La stessa che ci vuole nel trasformare Tbilisi in un epigone delle ferrovie del vecchio West o nel trasformare le difese avversarie in pareti che si sgretolano al primo soffio di vento.