Può un gol far scoppiare una guerra? Chiedere a Mauricio Rodriguez detto el Pipo, ex centrocampista e poi allenatore di El Salvador ai mondiali del 1982. Una sua rete ai supplementari contro l’Honduras, nel 1969, rese irreversibile la situazione di tensione tra i due paesi. Poco più di due settimane dopo scoppiò la guerra vera e propria, destinata a durare soltanto 4 giorni. Il conflitto passò alla storia con l’appellativo di guerra del calcio. La definizione è di Ryszard Kapuscinski, l’inviato estero dell’Agenzia di stampa polacca che coprì l’evento.
Dove e quando
L’Honduras è, per estensione, uno dei paesi più grandi dell’America Centrale, dietro solo a Nicaragua e, se lo si considera parte della regione, Messico. Alla grande superficie si affianca però una densità di popolazione piuttosto bassa, un dato rilevante all’interno del contesto di guerra di cui parleremo. Il ‘900 honduregno fu caratterizzato da lunghi periodi di dittatura. Lo sbocco marittimo sia sull’Oceano Atlantico che sul Pacifico non servì a favorire una particolare avanzata e stabilizzazione delle condizioni economiche. Complici di questo anche gli Stati Uniti, le cui imprese controllavano in gran parte la produzione e le politiche di esportazioni del paese, specialmente per ciò che riguarda le grandi piantagioni di banane.
Nel 1963 un golpe militare rovesciò il governo allora vigente, ponendo a capo della nazione il generale Oswaldo Lopez Orellano. Le sue azioni non placarono però il malcontento della popolazione, in particolare dei contadini, che riversavano in condizioni di grande povertà e scarsi diritti sulle terre che lavoravano. Arrivati al 1969, la situazione era ormai quasi insostenibile e gli attacchi al governo arrivavano da entrambi i lati dello spettro politico, sia dai grandi conservatori che dai ceti inferiori.
Di contro El Salvador, confinante con l’ovest dell’Honduras, è il più piccolo tra i paesi continentali dell’America Latina. Nonostante il susseguirsi di governi di stampo militare dalle politiche autoritarie, El Salvador godeva di condizioni economiche decisamente migliori rispetto ai vicini. Il tasso di industrializzazione era superiore rispetto alla media della regione centroamericana e l’esportazione di caffè, la grande produzione del paese, garantiva un ritorno piuttosto importante. Nonostante ciò, i salvadoregni rivendicavano uno sbocco sull’Atlantico, e soprattutto gradivano poco la presenza honduregna sulla costa opposta.
Il grande problema di El Salvador risiedeva nel sovrappopolamento. Nonostante le minori dimensioni difatti, sul finire degli anni ’60 contava più di un milione di abitanti rispetto all’Honduras. Questo, unito a una ineguale suddivisione delle terre, portò i due paesi a prendere una serie di accordi migratori. Circa 300.000 contadini salvadoregni, i più poveri e non proprietari terrieri, si spostarono in Honduras, dove la richiesta di manodopera a basso costo era invece molto alta.
In poco tempo però i salvadoregni si trasformarono nel capro espiatorio di un malcontento generale che cresceva esponenzialmente. Iniziarono vessazioni e persecuzioni da parte della popolazione locale, alcuni dei lavoratori della terra si trovarono costretti a rimpatriare. La situazione tra i governi dei due paesi era diventata quindi piuttosto tesa.
Il calcio
Non solo quello economico, in Honduras anche lo sviluppo calcistico fu, inevitabilmente, molto lento. La nazionale scese in campo per la prima volta nel 1921, costituita da una rappresentativa di studenti universitari. Soltanto nel 1960 però partecipo per la prima volta alle qualificazioni mondiali, mancando il risultato sia per Cile ’62 che per Inghilterra ’66. Del resto la Federazione istituì un vero e proprio campionato nazionale solo nel 1965.
Curiosamente l’esordio della nazionale salvadoregna ebbe luogo nelle stesse circostanze. Nel ’21 infatti Costa Rica, Guatemala, El Salvador e Honduras si affrontarono in un quadrangolare per celebrare i 100 anni dell’indipendenza centroamericana. Negli anni ’60 una figura in particolare si distinse all’interno del panorama calcistico salvadoregno. Hernan Carrasco Vivanco, cileno e vice-allenatore del tecnico Fernando Riera ai mondiali di casa del ’62, ricevette una chiamata dalla federazione di El Salvador. Sul tavolo c’era la proposta di allenare la nazionale, e lui accettò . Le sue idee, maturate in un contesto ben più avanzato, favorirono una grande crescita sia a livello tattico che tecnico. Vivanco lasciò la sua mano prima sulla selecciòn e poi sull’Alianza, la prima squadra di club salvadoregna a diventare campione CONCACAF.
Dopo l’esperienza ai Giochi Olimpici di Città del Messico, El Salvador intraprese il suo percorso di qualificazione ai mondiali del 1970. Nel suo girone c’erano Guayana e Antille Olandesi. L’Honduras aveva invece a che fare con la temibile Costa Rica e la Giamaica. La qualificazione d’ufficio del Messico, paese organizzatore, rendeva ancora più competitiva la situazione.
Entrambe superarono il proprio girone con un convincente primo posto, pur portando avanti filosofie diverse. L’Honduras era una nazionale fisica, di grande corsa. El Salvador aveva un’impostazione tattica più solida e giocava maggiormente palla a terra. Poste dallo stesso lato del tabellone, si ritrovarono ad affrontarsi in semifinale, mentre le altre due nazionali ancora in corsa erano Haiti e Stati Uniti. Il sistema di qualificazione ai tempi prevedeva il doppio turno di andata e ritorno. Si sarebbe giocato quindi prima a Tegucigalpa, capitale dell’Honduras, e poi a San Salvador.
Lo scontro
L’8 giugno 1969 a Tegucigalpa si svolse quindi il primo atto del confronto tra le due nazionali. Come detto in precedenza, le relazioni tra i due paesi negli ultimi tempi erano deteriorate. Anche i due popoli non perdevano occasione di dimostrarsi ostili. La nazionale salvadoregna, consapevole della possibilità di scontri, si recò in Honduras soltanto la sera prima della partita. La nottata fu infernale, i tifosi honduregni cercarono in ogni modo di disturbare il sonno dei giocatori di El Salvador riversandosi fuori dall’hotel. Lanciavano sassi contro le finestre, urlavano, suonavano clacson.
Il giorno dopo, in campo, mentre sugli spalti proseguivano gli scontri, a spuntarla fu l’Honduras del tecnico Mario Griffin. 1-0, sulla paternità della rete giornali e almanacchi si dividono. Qualcuno dice l’abbia segnata Leonard Wells, terzino del Motagua mai in gol in nazionale prima e dopo quella occasione. Altri la attribuiscono a Josè “Coneja” Cardona, ai tempi l’unico con una carriera europea di successo all’Atletico Madrid. Quest’ultimo era indubbiamente il più rappresentativo tra i calciatori della selecciòn, insieme a lui il capitano Tonin Mendoza e il centravanti Jorge Bran, una leggenda dell’Olimpia.
Nel post-partita gli scontri non si placarono. La leggenda racconta di una giovane salvadoregna, Amelia Bolanos, che sopraffatta dalle scene di violenza cui stava assistendo in televisione decise di togliersi la vita. La sua storia era la benzina di cui il paese aveva bisogno per giustificare la propria sete di vendetta. Gli animi si inasprirono ulteriormente.
Una settimana dopo, il 15 giugno, si giocava la partita di ritorno a San Salvador, la capitale salvadoregna. L’accoglienza riservata ai calciatori dell’Honduras fu persino peggiore di quanto visto a Tegucigalpa. I vetri delle camere d’hotel furono distrutti. L’accompagnatore della nazionale, in realtà un ragazzo di El Salvador, venne ucciso a sassate. Allo stadio le cose non cambiarono, con sonori fischi ad accogliere l’inno nazionale honduregno e la bandiera ridotta in brandelli.
Nel post-partita sia Griffin che il capitano Mendoza raccontarono di essere poco interessati al risultato del campo. Il loro unico desiderio era quello di tornare a casa vivi. Atteggiamento non difficile da riconoscere nei 90 minuti in cui la gara scivolò via senza che ci fosse storia. 3-0 per El Salvador, gol di Acevedo e doppietta di Juan Ramon Martinez. Quest’ultimo, centrocampista dell’Aguila, concluse il torneo di qualificazione al mondiale con il titolo di miglior marcatore. Nel frattempo sugli spalti si consumava la morte di 2 tifosi honduregni, e per le vie di San Salvador la situazione non era migliore.
Qualcosa iniziò a muoversi anche sul piano diplomatico. Lo stesso 15 giugno il governo di El Salvador decise per l’evacuazione e il ritorno in patria di 12000 campesinos. Stando alla versione salvadoregna infatti le aggressioni nei loro confronti si erano intensificate. Una settimana più tardi il presidente Fidel Sanchez Hernandez proclamò lo stato di emergenza, per poi il 26 giugno decidere di rompere le relazioni diplomatiche con l’Honduras.
Il dettaglio non poco significativo è che al tempo tra andata e ritorno contava soltanto il risultato. La somma dei gol non era rilevante ai fini del passaggio del turno. Per definire chi in finale avrebbe affrontato Haiti, vincente in entrambe le gare con gli Stati Uniti, era quindi necessario uno spareggio. La data designata era il 27 giugno, e la CONCACAF decise saggiamente per lo scontro in campo neutro a Città del Messico.
All’Estadio Azteca ebbe luogo una partita più avvincente e paradossalmente tirata delle precedenti due. Dopo soli 10′ Martinez portò in vantaggio i suoi con un rasoterra mancino che non lasciò scampo al portiere honduregno Jamie Varela. Gli rispose Cardona, con una splendida rovesciata purtroppo abbandonata al lato sbagliato della storia. Sempre Martinez, scaltro nel dribblare due avversari, a tu per tu con l’estremo difensore chiuse con un destro secco sul secondo palo. I primi 45′ si chiusero quindi sul risultato di 2-1 per El Salvador
Nel secondo tempo, mentre El Salvador era abbastanza in controllo, Rigoberto “Shula” Gomez segnò il gol del pari approfittando di una scellerata uscita di Gualberto Fernandez. L’Honduras prese progressivamente maggior coraggio, ribaltando gli equilibri della gara. Sul finire dei tempi regolamentari però, il centrocampista salvadoregno Josè Quintanilla provocò l’infortunio di Cardona, costringendolo alla sostituzione. Un duro colpo che diede nuovamente una sferzata alla direzione della gara. Terminati i 90 minuti in parità, furono necessari i tempi supplementari.
Qui un piede destro, quello del Pipo Rodriguez, si ritrovò protagonista assoluto della storia. Quella calcistica, ma non solo. Su un cross dalla destra il centrocampista fu lesto ad anticipare Varela con una spaccata, infilando il pallone in rete. El Salvador era in vantaggio per l’ultima volta, quella definitiva. Al triplice fischio all’Azteca tra festeggiamenti e disperazione si consumava la solita routine di vincitori e vinti. Per le vie di Città del Messico invece la situazione precipitò in una guerriglia. Lo stesso accadde nei due paesi, tra violenze e manifestazioni. In Honduras i locali attaccarono i pochi salvadoregni rimasti con il beneplacito del governo. Governo che decise di rispondere a El Salvador con la rottura dei rapporti diplomatici a sua volta.
Entrambe le squadre si sentivano moralmente obbligate a vincere anche per questioni di orgoglio nazionale e di affermazione di superiorità nei confronti dei vicini. Del resto il calcio rappresentava uno dei pochi appigli per entrambe le popolazioni. Nessuno però immaginava che una partita avrebbe portato a un conflitto armato nei 20 giorni successivi.
Dall’inizio di luglio iniziarono una serie di scaramucce, tra scontri aerei, assalti e colluttazioni tra piccoli contingenti di entrambi gli eserciti. Finché, il 14 del mese, non iniziò la guerra vera e propria. Il conflitto passò alla storia per la sua durata molto breve, da cui il nome di guerra delle cento ore. Le vite sacrificate però furono più di 4000.
Il povero Rodriguez, da eroe calcistico si ritrovò quasi a dover giustificare la sua marcatura. Negli anni non ha mai smesso di rivendicare come si sia trattato, in fondo, soltanto di un gol. La guerra sarebbe scoppiata in ogni caso, a prescindere dal calcio. I giocatori di entrambe le squadre nel tempo sono rimasti amici, uniti da un destino che li ha consegnati all’eternità loro malgrado.
Da parte loro c’è sempre stato il tentativo di ridimensionare quanto accaduto. Di sfuggire a quel nominativo di guerra del calcio che di calcistico aveva poco. Ironia della sorte, le due squadre tornarono ad affrontarsi soltanto 11 anni dopo, il 23 novembre del 1980 per le qualificazioni al mondiale spagnolo. Il 30 ottobre dello stesso anno, con El Salvador sull’orlo di una guerra civile, i due paesi firmarono un trattato di pace, riprendendo finalmente le relazioni. Il cerchio si era chiuso e il calcio ne era diventato nuovamente simbolo.
Tornando al 1969, dopo la fine del conflitto, El Salvador vinse la finale con Haiti. La vittoria segnò per la squadra salvadoregna la sua prima qualificazione ad un mondiale. Questa, però, è un’altra storia.