È il 15 luglio 2018, Mosca, Stadio Luzhniki. La Francia conquista il suo secondo Mondiale: la Croazia è battuta 4-2. Tanti gol, altrettanti errori e un’evidente superiorità transalpina. La data è storica, non solo perché un nuovo campione del mondo viene incoronato, ma perché è la finale che chiude un’era. La fine, però, è stata sancita 8 anni prima.
Il 2 dicembre 2010, infatti, la storia del calcio cambia. A Zurigo, nella sede della FIFA, il Mondiale 2022 viene assegnato al Qatar. Un vulnus, sicuramente un punto di non ritorno, i primi germogli di nuovi paradigmi, oggi assodati e naturali. E il cambiamento, come spesso accade, non è avvenuto sul rettangolo verde, tra maglie sudate che si scontrano per il pallone, ma tra giacche ingessate, strette di mano fintamente cordiali e sorrisi beffardi.
La scelta desta da subito perplessità. Negli anni successivi queste monteranno in inchieste e scandali che getteranno un’ombra sempre più nera sulla competizione e sulla FIFA. Fin da subito però la questione è una: si potrà disputare la competizione nel classico periodo tra giugno e luglio? La domanda è legittima: in estate le condizioni climatiche qatariote non sono umanamente sopportabili, con le temperature che possono arrivare a toccare i 50°C. Come risolvere questo impaccio?
La soluzione si materializzerà il 21 novembre 2022, calcio d’inizio di Qatar 2022. Alla fine, il calendario del Mondiale è stato ridisegnato. Non vi è stata altra soluzione, nonostante vaneggiamenti attorno a sistemi di raffreddamento in grado di garantire temperature accettabili all’interno degli stadi. Ma il giorno nel quale si riscriverà la storia è il 18 dicembre: il giorno della finale, la prima non giocata d’estate nella storia dei Campionati del Mondo. Tra Francia-Croazia e l’ultimo atto di Qatar 2022 passeranno quasi 4 anni e mezzo. Il lasso di tempo maggiore tra una finale e l’altra dai tempi del Dopoguerra.
“I Mondiali hanno scandito i tempi della nostra vita
Così recitava Federico Buffa nella sigla del suo Storie Mondiali. Ed è vero: in quasi 100 anni solo la Seconda Guerra Mondiale ha impedito, ogni quattro anni, lo svolgersi dei campionati del Mondo. Per decenni, estate è significato Campionati del Mondo. Quest’anno, invece, il cuore calcistico ha saltato un battito. È apparso un movimento irregolare e l’organismo calcio ha deciso di rimodularsi.
I mesi di giugno e luglio sono vuoti, privati della più importante ricorrenza del mondo del calcio. La manifestazione, tappa fondamentale per ogni appassionato, ha mancato l’appuntamento con la stagione che da sempre è stata teatro della sua storia e del suo immaginario. Di fatto, questa è “la prima estate del Mondiale invernale”.
Breviario delle estati Mondiali
La parola “estate” deriva dal tema latino aestus, calore. Ecco, se una parola dovesse descrivere cos’è il Mondiale, calore sarebbe tra le più appropriate. Un “calore” dal campo semantico vasto. Si può intendere sia il caldo climatico, le temperature elevate, le giornate soleggiate e i volti dei giocatori perlati dal sudore. Ma il calore è anche quello della festa umana sugli spalti e per le strade delle città del paese ospitante. Per un mese circa, una nazione diviene mondo: tifosi da ogni parte del pianeta danno i colori delle loro bandiere alle vie, alle piazze e agli stadi nei quali si riversano in massa.
Viene allora difficile escludere dall’immaginario dei Campionati del Mondo lo sfondo della stagione estiva. Al contrario, si può costruire, con i limiti di una prospettiva inevitabilmente italocentrica, un album di memoria culturale, di eventi storici e tradizioni createsi e sedimentatesi negli anni. E in ognuna la stagione estiva gioca un ruolo centrale.
Ripercorrendo la storia di come i Mondiali sono vissuti da casa, ne possiamo riconoscere l’elemento rituale che si è sviluppato con e grazie allo svolgimento della competizione durante i mesi di giugno e luglio. E c’è la convinzione che, con i dovuti distinguo e con le proprie particolarità, ogni popolo, ogni nazione possa rintracciare nella propria storia mondiale questo legame indissolubile.
C’è una scena di un film che sussume con grazia e precisione cosa sia una partita di un Mondiale, e cosa sia una partita della nazionale italiana ai Mondiali: Così è la vita, il secondo film di Aldo, Giovanni e Giacomo, del 1998. Il film meno noto del periodo d’oro del trio, incastonato tra due cult come Tre uomini e una gamba e Chiedimi se sono felice, è la storia di una fuga di un detenuto, che rapisce un poliziotto e un comune cittadino. L’afflato poetico e malinconico viaggia sottile lungo tutto il film ed emerge con forza nella seconda parte.
I tre, al termine di un inseguimento, si ritrovano in un cimitero abbandonato. Tra un diverbio e l’altro, si ricordano che quello è il giorno della partita: c’è Italia-Norvegia. Grazie all’orologio di Giacomo riescono a seguire la gara alla radio. Non viene detto, ma la radiocronaca di Stefano Cucchi non lascia dubbi: è l’ottavo di finale del Mondiale di Francia ’98. La sua voce è colonna sonora dei loro gesti di tensione, speranza, paura e gioia nelle varie fasi della gara. È l’esemplificazione di quel rito apotropaico fatto di piccoli movimenti costanti e ripetuti in maniera inconscia. Una danza collettiva inconscia, in cui il popolo italiano si ritrova quando la Nazionale è in campo ai Campionati del Mondo.
All’improvviso, il gol di Vieri. Aldo si alza in piedi, braccia aperte in festa, ed esclama:
Già mi vedo: Campioni del mondo!
Il suo urlo è l’illusione di un intero decennio e di una generazione, che negli anni ’90 ha sognato i Mondiali, vedendoli sfuggire sempre ai calci di rigore. È il rammarico estivo ricorrente, divenuto eponimo di un quel gruppo di giocatori, dotati di un talento ora lontano e forse irripetibile, sempre a un passo dalla gloria, senza mai toccarla davvero.
Una triste tradizione, inaugurata nella prima estate di quel decennio, quando il Mondiale lo abbiamo organizzato. Quando l’illusione ha trovato un picco emotivo, e ha canonizzato e alimentato la simbiosi tra la stagione più calda dell’anno e la passione per il tifo azzurro. Bastano due parole per risvegliare la memoria collettiva dell’intero paese e riaccendere le luci sul 1990: notti magiche. La voce roca, graffiata di Gianna Nannini che si apre in un urlo di festa, con le due parole che hanno riscritto l’eredità culturale dei Mondiali.
Un’estate italiana. Questo è il titolo della canzone del duo Bennato-Nannini – anche se per molti sarà sempre “Notti Magiche”. Un inno di grande sintesi descrittiva, che riesce a ricreare anche in chi non ha vissuto il clima della Penisola durante quel mese. Nei ricordi-cartolina, le immagini del pubblico festante sugli spalti, tra bandiere, cappelli improbabili e trucchi scoloriti dal sudore, si celebra il rito collettivo di una nazione e di tutto un mondo.
La gioia nelle strade, tra persone in motorino, bandiere sui balconi e bagni di folla hanno creato, insieme ai festeggiamenti per la vittoria del 1982, una vera e propria enciclopedia a immagini su cos’è il vissuto palpitante di un Mondiale. Perché quello di Italia ’90 era il nostro Mondiale, era la nostra estate, era l’unione di uno stile di vita e di una passione che si incontrano e si celebrano vicendevolmente.
La stagione estiva, però, sa anche manifestare la propria influenza sul terreno di gioco. Un esempio un po’ oscuro, ma divertente da ricordare è la “casetta Manaus”, ovvero lo stratagemma, elaborato dal ct Cesare Prandelli, per preparare i suoi giocatori al match d’esordio di Brasile 2014. Una palestra-sauna in grado di adattare il fisico alle condizioni climatiche di calco e umidità della città designata per la partita contro l’Inghilterra. Funzionò, ma poi la nazionale azzurra collassò fisicamente e tecnicamente nelle due partite successive.
L’esempio più famoso, però, è senza dubbio la finale di Usa ’94. Il Mondiale americano è stato un passo importante e sensibile verso una globalizzazione industrializzata del calcio. Quello in cui le storture di un mondo proteso alla globalizzazione e all’interesse economico hanno cominciato a mostrare con evidenza le proprie insidie e a crepare il sistema. La finale ne è la summa: il 17 luglio 1994, al Rose Bowl di Pasadena, si gioca Italia-Brasile. Quasi 95 mila spettatori assiepano gli spalti di una struttura immensa, ma completamente scoperchiata. Un bel problema visto che, per inemendabili ragioni televisive, si gioca alle 12.30, con una temperatura proibitiva anche solo per respirare.
La gara ha una sua indubbia valenza storica, ma è una finale brutta e bloccata, l’esempio negativo di tensione ed equilibrio attribuibili a questo genere di sfide, specie se ad un Mondiale. Il risultato è un pot-pourri di azioni lente e macchinose, con pochissime emozioni e un senso di asfissia generale. Un rigore riassume questo senso di straziante sofferenza. E non è quello di Roberto Baggio. Sul dischetto c’è Franco Baresi: stremato, calzettoni alle caviglie, ciondola verso il pallone. Va ricordato e celebrato il recupero in soli 25 giorni dalla rottura del menisco, e una prestazione fin lì strabiliante.
Al lumicino delle forze, però, calcia alto; e subito dopo, cade in ginocchio disperato, il busto riversato all’indietro in modo innaturale, come se le leggi anatomiche si fossero infrante. La disperazione di un uomo distrutto da una fatica fisica titanica. In quel caldo afoso, asmatico di Pasadena, Baresi e tutta l’Italia calcistica sudarono lacrime amare.
In generale, dunque, la catarsi mondiale porta con sé anche l’aggettivo “estiva”. Gli esempi possono essere molti altri. Basta pensare agli orari improbabili di Messico ’70; e d’altronde la Partita del Secolo affonda la sua mistica anche nell’aver tenuta sveglia la popolazione italiana fino alle 2 di notte. O al Mondiale nippo-coreano, in cui la sveglia mattutina coincideva con il calcio d’inizio della prima partita della giornata. O, ancora più banalmente, al fenomeno sociale dei festeggiamenti per un’eventuale vittoria.
Nel 1982 e nel 2006, la gioia per la vittoria è divenuta sfogo collettivo nei luoghi pubblici, con riti di gioia specifici della bella stagione; ad esempio: i giri in macchina con i finestrini spalancati, i bagni al mare o nelle fontane delle piazze. D’altronde, lo abbiamo visto di recente, lo scorso anno, con la vittoria dell’Europeo.
Il punto è questo: la folla festante che invade le piazze e le vie delle città e dei paesi o la festa con la squadra su un pullman scoperto, sono immagini in cui l’elemento estivo – o quantomeno la presenza di un clima caldo – sembra quasi imprescindibile. Si può riconoscere una possibile faziosità nel giudizio, ma, comunque, viene difficile concepire diversamente a livello climatico queste enormi manifestazioni di calore popolare e pubblico. Il problema per noi italiani comunque non si presenterà. Purtroppo.
Mondiale in Qatar: cosa non va
Razionalizzare che il Mondiale sarà giocato in autunno – la definizione “invernale” è impropria per quanto ormai di uso comune – non è semplice. La modifica così radicale all’equilibrio tradizionale dell’andamento calcistico è uno shock di difficile comprensione. Ancor prima, da molti è rigettata l’idea stessa di un campionato Mondiale qatariota. Non tanto per la convinzione, priva di reali fondamenti, secondo la quale un paese senza storia calcistica non possa essere l’organizzatore della più importante kermesse pallonara. No, non è decisamente quello il problema: è proprio il fatto che quella nazione sia il Qatar.
Le polemiche attorno a una grande manifestazione sportiva sono una prassi comune. Gli interessi economici dietro all’organizzazione di eventi tanto poderosi lasciano spesso in secondo piano criticità etiche e morali. Il problema è che Qatar 2022 sembra essere il “Frankenstein” di tutte queste storture. Dalle accuse di corruzione sull’assegnazione, alle condizioni disumane dei lavoratori migranti, con numeri di morti che viaggiano nell’ordine delle migliaia per la costruzione degli 8 stadi che ospiteranno le partite.
Con un po’ di pessimismo e malizia, la si potrebbe considerare l’attualizzazione della distopia calcistica contemporanea. Una realtà i cui i protagonisti sono stati sovrani e i loro fondi di investimento, disposti a immettere nel mercato ingenti somme di denaro, vera e propria droga nelle vene del sistema; un sistema nel quale le disuguaglianze tra ricchi e poveri aumentano la loro forbice giornalmente, in cui il business sembra imporsi quotidianamente sullo show, con lo sport e l’etica lasciati sempre più al margine del discorso o usati come volantini pubblicitari.
L’aberrazione finale poi è la vera finalità rintracciabile dietro l’interesse per una nazione come il Qatar di ospitare una competizione internazionale. È il problema dello sportwashing. Nonostante il termine di uso recente, utilizzare lo sport come mezzo di propaganda e di revisione della realtà effettiva è un tema tipico dei dittatori del passato: lo hanno fatto Hitler e Mussolini, per non dimenticare Videla e il Mondiale ’78 in Argentina. Anche Putin e il Russia 2018 sono un caso recente, tutt’altro che fuori luogo. Il problema con il Qatar è il totale appoggio delle istituzioni ad uno stato conservatore e discutibile in materia di diritti umani e civili.
La faccia di bronzo di Gianni Infantino, presidente della FIFA, che incorona la competizione qatariota come il “Mondiale della pace” è lo schiaffo al buonsenso e al buongusto. La prova di un mondo che giorno dopo giorno sembra scollarsi sempre di più dalla realtà obiettiva per abbracciare una propria visione più idealizzata e fittizia. Una rappresentazione di pura fantasia della quale convincersi, per poi venderla a chi è disposto a crederci.
Conoscere e riconoscere le troppe ombre di Qatar 2022 è un atto necessario. E a questo punto, decidere di boicottare la competizione può essere una delle vie legittime. Tuttavia, si può inghiottire un po’ di ipocrisia e, consapevoli dei problemi, lasciarsi comunque rapire dal fascino indiscusso del Mondiale in quanto mero spettacolo calcistico, teatro di scontri culturali tra nazioni diverse, con i migliori giocatori a esibirsi.
Alla ricerca di nuove tradizioni
Concentrandosi solo su quello che concerne i fatti di campo, anche lì, Qatar 2022 si mostra una materia incandescente difficile da gestire. Accettata la rottura con la tradizione e riposte le fotografie del passato, il fatto reale e compiuto è uno: Qatar 2022 sarà il primo (unico?) Mondiale non estivo della storia. Sarà un inedito che potrebbe riallineare determinati equilibri e ricorrenze che, come si è detto, sono tratto somatico tipico della competizione.
Quegli elementi, divenuti identità stessa della competizione, potrebbero mutare forma o scomparire del tutto, di fronte a una visione ora come ora indecifrabile. Una possibilità che sul terreno di gioco potrebbe convertirsi e attualizzarsi in un’imprevedibilità di difficile intuizione.
Pertanto, per riempire il vuoto estivo lasciato dall’assenza di una grande competizione per nazionali e per sopravvivere all’indigestione di notizie di calciomercato, può essere interessante, a più di quattro mesi dal calcio d’inizio, speculare attorno alle novità qatariote; per capire come queste si incastonano nello scenario della stagione calcistica che sta per avere il via.
Il primo assunto è legato proprio alla natura invernale della competizione, da un punto di vista meramente calendariale. Negli ultimi anni si è discusso abbondantemente della bulimia sempre più estrema delle stagioni calcistiche, con un numero di partite in continuo aumento e richieste fisiche e psicologiche ai giocatori vicine al punto di rottura. Più volte allenatori blasonati quali Klopp e Guardiola si sono lamentati di questa situazione. Richieste non più consistenti di un fresco venticello estivo. Un lieve sussulto sulla pelle per alcuni secondi, ma poi il caldo asfissiante torna a manifestarsi statuario.
Difatti, i calendari non sono cambiati e anzi, è proprio Qatar 2022 ad aver portato il congestionamento allo step successivo. Si è creata una spaccatura all’interno della stagione calcistica, tant’è che già da ora si può parlare di una stagione prima e una stagione dopo il Mondiale.
La vulgata vorrebbe infatti che alcuni giocatori possano risparmiarsi in vista della competizione e quindi avere una prima parte di stagione sottotono; mentre d’altro canto altri potrebbero arrivare alla seconda parte di stagione svuotati mentalmente dalle fatiche con le proprie nazionali. Delle speculazioni in tal senso non sono mai mancate, va detto. Di illazioni su presunte strategie di “preservazione delle energie” in vista del Mondiale ne esistono da sempre.
Al netto della veridicità di queste osservazioni, a partire da esse si possono formulare due inferenze, un po’ provocatorie: 1) Il Mondiale qatariota influenzerà le competizioni per club. 2) Il Mondiale qatariota non è altro che una pausa nazionali sotto steroidi
Quest’ultima è un’evidente esagerazione, dalla quale però si può sviluppare una considerazione interessante. Cambiando il punto di vista, si crea un’immagine nuova della competizione intesa in senso generale. Non si afferma nulla di nuovo: la pausa delle nazionali nel mezzo dei campionati è vissuta come un male (in)necessario. Giorni sprecati, che spesso creano malumore tra i tifosi e screzi nemmeno troppo velati tra federazioni e dirigenze.
In Qatar tutto questo sarà amplificato, stagliandosi esattamente nel momento in cui le stagioni per club entrano nel vivo agonistico. Questa affermazione porta direttamente alla prima formulata in precedenza. Non era mai successo prima che i Mondiali avessero effetto diretto sulle prestazioni dei giocatori nelle squadre di club. Quest’anno sarà così e fra un anno sarà molto interessante capire effettivamente quali effetti avrà avuto la competizione sulla stagione sportiva.
Uscendo dal campo degli addetti ai lavori un altro dubbio può essere posto sul tavolo: ma che effetto avrà sul pubblico questa competizione aliena? Bisogna restringere doppiamente il campo: se difficile è prevedere che pubblico si vedrà sugli spalti degli stadi, ancor più difficile è capire come verrà recepito il Mondiale dal pubblico non italiano. Difficile pensare che ci sarà un boicottaggio televisivo. Dal canto nostro, per la seconda volta siamo pronti a vestire il ruolo di semplici spettatori. Nel 2018, l’assenza degli Azzurri non impedì al pubblico italiano di seguire con passione la competizione. Mediaset, l’emittente televisivo che trasmise in esclusiva l’evento, fece numeri da record, anche migliori rispetto alle precedenti edizioni.
Un’ultima speculazione. Già ci si è girato attorno e indirettamente si è accennato l’argomento, ma è necessario affrontarlo: il Mondiale influenzerà le competizioni per club e viceversa, incidendo direttamente sulle prestazioni dei giocatori. Ma è possibile al contrario che il suo innestarsi nel vivo del calendario per club non porti le competizioni per club a influenzare il Mondiale?
Un grande classico del Campionato del Mondo sono le difficoltà atletiche dell’Inghilterra. Infatti, spesso gli inglesi sembrano arrivare spolpati dopo la lunga stagione di club alla quale sono sottoposti. Quest’anno arriveranno alla competizione all’apice della propria condizione e potrebbero far fruttare il loro indubbio atletismo. Ma è evidente che si tratti più di un pronostico da sciamano che di un’ipotesi fondata su dati analitici.
La domanda alla fine è questa: in Qatar potrebbe avvenire un ribaltamento della realtà abitudinaria? Sotto certi aspetti forse, ma non è detto. Quello che è certo è che Qatar 2022 è un passo verso l’ignoto e verso la novità. Qatar 2022 sa mostrare storture e fattori inediti che riscrivono la storia del calcio e sono pronti a scrivere un nuovo paradigma.
Su Internet, subito dopo la sconfitta dell’Italia contro la Macedonia del Nord, la malizia ha portato a commenti del tipo: “visto che il Mondiale è in Qatar, alla fine è meglio che non ci andiamo. Meglio boicottarlo”. Effettivamente, questo torneo presenta molte ombre. E, forse, anche il non poter vivere quella ritualità estiva tipica del Campionato del Mondo allevia il rammarico e la delusione di non esserci.
O forse no: si trattava solo di una battuta consolatoria. L’unico modo per assorbire una delusione troppo grande. Il Mondiale è sempre il Mondiale. E alla fine ci saremmo adattati anche a uno un po’ più grigio e un po’ più freddo del solito.