Alla fine aveva ragione De Bruyne, il Belgio non vincerà il Mondiale di Qatar 2022. Traditi da Romelu Lukaku nella sfida spareggio contro la Croazia, i Red Devils terminano la loro spedizione qatariota al terzo posto nel girone F; solo quattro anni prima raggiungevano il terzo posto a Russia 2018, il risultato più grande della storia del calcio belga.
Il Belgio si è mostrato sfiduciato, privo di linfa vitale, come se non fosse pienamente coinvolto in questo Mondiale. Un inizio rinunciatario precipitato in una rissa fra compagni. Al The Guardian è Kevin De Bruyne stesso ad avvertirci del morale del suo Belgio: «Vincere il mondiale? No, siamo troppo vecchi». Una risposta che ha trovato eco in lungo e in largo, scatenatrice di legittime perplessità. Erano veramente queste le parole migliori da spendere prima dell’inizio della manifestazione? Soprattutto da chi si propone (o è proposto) come leader tecnico e carismatico della selezione?
Probabilmente no. E se a noi spettatori lontani dal Belgio e dal Qatar possono scivolare via dopo qualche giorno, lo stesso non si può dire per i compagni di De Bruyne. Lo spogliatoio di Roberto Martínez si è perso completamente fra una rissa in allenamento e una frecciatina di Jan Vertonghen dopo la sconfitta col Marocco.
Dove abbiamo sbagliato? Probabilmente attacchiamo male anche perché siamo troppo vecchi, deve essere così adesso, no?
La Golden Generation del Belgio ci saluta così, tramortita dalle aspettative su di sé e un potenziale imploso per le tensioni fra compagni.
Ma perché De Bruyne ha detto quelle parole?
L’intervista al The Guardian ci offre diversi punti di riflessione su De Bruyne, che è in tutto e per tutto una sintesi di quanto fatto fino a oggi dal centrocampista. Dalle problematiche da giovanissimo, fin troppo silenzioso e solerte, fino all’esperienza negativa col Chelsea e la rinascita al Wolfsburg. La sincerità di De Bruyne, con il suo solito taglio sobrio e tremendamente asciutto, ci guarda dritto negli occhi e issa gli ultimi obiettivi della sua carriera.
Un paio di domande sono sul suo Manchester City. Gli viene chiesto del suo rapporto con la mancata Champions League, ultimo (forse) tassello per riconoscerlo fra i più grandi della storia. Con la solita forma di risposta da calciatore, De Bruyne ammette di non pensarci troppo.
Prosegue con lo stipendio, e la risposta non è banale. Secondo il belga non è pagato poi così tanto – venti milioni di sterline annue – perché alla fine gli spettatori giunti per lui sono alla stregua di quelli di un concerto di un cantante. E poi se un club può permetterselo non è troppo, dice. «So che non è una visione condivisa da tutti, ma è così che la penso».
Sono parole che sembrano prenderci in contropiede, di svegliarci da un sonno in cui lui ci aveva abituato, ma in realtà si rivelano risultato del percorso spirituale compiuto in questi anni. Il campo come unica dichiarazione di sé, di manifesto d’esistenza e d’intento: De Bruyne ruba l’occhio dello spettatore, ma lo fa in una maniera diversa rispetto alle giocate di Zinédine Zidane o di Luka Modrić. Non sembra essere poi un calciatore così diverso dagli altri per andatura o per atteggiamento, è semplicemente impeccabile per calcolo tattico e riuscita tecnica delle sue giocate. L’estetica della magia di un David Silva si condensa in De Bruyne per esprimersi in pura e sola efficacia meccanica, priva di ogni minimo vezzo che rende indimenticabile e appariscente un calciatore.
Il belga è il riflesso del calcio moderno, del calcio spersonalizzato d’identità tecniche e corporali ben riconoscibili. Una res extensa che contagia inevitabilmente anche la sua res cogitans, che permette di riconoscere la dimensione raggiunta dallo spirito di De Bruyne. Non più semplice consapevolezza di sé, ma una visione dissacrante della realtà immersa in dimensione realista et cinica disumana.
Il sacrificio dell’umanità a favore della perfezione. La creatura perfetta per Guardiola, da sempre plasmatore e inghiottitore delle anime e pensieri dei suoi calciatori per un radioso avvenire tattico. Un vero e proprio patto col diavolo.
Un matrimonio perfetto, in teoria. La pratica però scricchiola in Europa. Il belga e il catalano si sono traditi l’un l’altro a turno, più volte, nelle notti di Champions League decisive. La solitudine di Kevin De Bruyne è nata qui, fra una prestazione deludente e l’abbandono dei suoi compagni. Nonostante il City provvedesse ogni anno ad arricchire tutto ciò che era intorno a lui.
Il grande affronto che affligge Kevin De Bruyne sono il peso delle notti che non ha saputo trascinare con sé. Come in cielo con la maglia celeste del City, così in terra con la maglia rossa del Belgio. Lo scarto fra i grandi giocatori e i calciatori immortali è racchiuso nelle notti che pesano più delle altre. Le notti implacabili, estremizzanti in positivo o in negativo del valore e della memoria di un giocatore.
Certe notti pesano più di altre
Nella semifinale contro la Francia nel 2018, De Bruyne ha istituito un record negativo nei tempi recenti di questa competizione: ventotto palloni persi durante un suo possesso. Un dato che è immagine chiarissima della difficoltà del belga di imporsi nelle (più) grandi occasioni; e nella sfida contro il Marocco, il centrocampista del City è riuscito a ripetersi nell’impresa in negativo. Kevin assume un atteggiamento rassegnato, abulico, sconfitto per principio e per idea superiore. Il destino non può essere piegato, De Bruyne è già sconfitto. Un romanzo di radice verista che investe la storia di un ragazzo nato e vissuto nelle Fiandre.
Una delle immagini più crudeli della sua carriera – e con cui rischiamo di ricordarlo, aggiungo – arriva dalla partita più importante della sua storia, la finale di Champions League con il Chelsea. La prima storica occasione per il Manchester City di mettere le mani su quel trofeo, di porre un primo grande punto al percorso della dirigenza emiratina. L’ultima notte di Agüero, nonché l’opportunità definitiva di De Bruyne di sciogliere ogni dubbio sul suo conto. Nulla da fare: l’assolo finale del numero diciassette stona fin dall’inizio e peggiora col passare dei minuti. Lo scontro con Rüdiger pone fine alla sua sofferenza, e con il volto spezzato dalle lacrime, abbandona il campo della finale.
La dinamica dello scontro con Rüdiger è rovinosa e fatale, e per questo risulta armoniosa nel contesto di quella sera. Lo spettacolo di De Bruyne a Oporto è impietoso fin dai primi minuti, viene raggiunto e soffocato senza difficoltà e pietà dal centrocampo del Chelsea per un’ora, la sua resa era inevitabile. Il suo modo di muoversi meccanico risulta obsoleto a confronto della ferocia agonistica di Kanté. L’uscita di scena è crudele e sofferente, ma perfettamente concorde alla sua storia verista. Questa è la partita più importante disputata da Kevin De Bruyne finora carriera, ed è sintesi del suo rapporto con la pressione ad altissimi livelli.
Il tempo concede ancora qualche ballo, e lui, assieme al City, ha ancora diversi anni per ritentare l’assalto alla Champions League. Soprattutto con un Haaland in più. Ciononostante, il primo atto è già concluso, ed è già giudice della futura memoria di questo sport nei suoi confronti.
Chi è, o cos’è Kevin De Bruyne, dunque?
Tutto questo non deve portarci a reputare De Bruyne un bluff, tuttavia. Se esiste un De Bruyne assente nelle notti più importanti è perché è esistito un De Bruyne capace di arrivare nei grandi palcoscenici, di meritare quelle occasioni. Suona quasi ridicolo dover difendere un calciatore così, ma questo è il rischio del principio secondo cui la storia la scrivono i vincitori: la fatalità della memoria calcistica che premia l’eccezionalità di una notte al sudore di un cammino.
Ciò che manca a Kevin De Bruyne è una scossa improvvisa, un attimo incomprensibile di follia, un dubbio di realtà. Nascere a qualche ora da Bruxelles lo ha reso tremendamente diplomatico, e per questo conduce i propri duelli con gli avversari in maniera fin troppo scolastica. Simbolo di questa condizione è stato quel doppio confronto indimenticabile con il Real Madrid. I citizens si propongono come i migliori dei mondi possibili, senza andare mai oltre le loro possibilità. I blancos si compongono di un qualcosa che va oltre il concreto, con lo stupore del pubblico e di sé stessi.
Guardiola aspira a un calcio totalmente calcolato, a cui deve essere asportata l’incognita dell’emozione, dell’individualità. Non a caso, profeta di questa squadra è proprio De Bruyne. Nel cammino verso quest’apatia, chiaramente utopica, il City smarrisce quella personalità da far emergere nei momenti che contano. Nell’ultimo capolavoro di Ancelotti invece è tutto il contrario: Benzema si esalta nell’emozione di scoprirsi da pallone d’oro, Vinicius gioca con il possibile, e l’estemporaneità di Rodrygo ribalta il City al novantesimo e oltre.
Fra una corporalità che tenta di delegittimarlo agli occhi della storia e dei compagni spesso non alla sua altezza. Dal rapporto con la pressione addosso, con le sue attenuanti, fino alle parole prima di Qatar 2022. In tutto questo, la solitudine di Kevin De Bruyne, vicolo in cui lo ha portato a questa visione cinica e alienata della realtà.
De Bruyne, alla fine di tutto questo, rimane uno dei calciatori più forti di questo mondo e della storia. Simbolo del Manchester City, fragile col peso delle stelle, e del Belgio della Golden Generation mai compiuta davvero. Almeno fino a oggi.