Bologna è una città strana, a suo modo unica. Una Parigi minore per Guccini, una Marsiglia senza il porto per Bersani. Imbevuta in quell’afflato culturale, pittoresco e decadente, è una città contraddittoria, incoerente e affascinante. San Luca dall’alto controlla lo scorrere della vita brulicante, calderone antropologico italiano e straniero, ricambio continuo dei flussi umani della sua antica università. Riparati dai portici, si possono incontrare bohemienne fuori dal tempo cercare il bacio dell’arte insieme a uomini di impresa dai volti squadrati, vestiti di tutto punto in completo e ventiquattrore, impegnati nella cura dei loro affari. Li si può vedere passeggiare uno di fianco all’altro, senza avere la sensazione di essere capitati in un qualche scenario grottesco.
Bologna è un’eterna adolescente, indecisa su cosa vuole essere e su cosa vuole diventare. Mutevole in ogni suo quartiere: dall’eleganza altoborghese del Quartiere Santo Stefano, alla modestia squadrata, quasi sovietica, della Bolognina, passando per il delirante rave giovanile della zona universitaria. La più importante città del centro-nord, così avanzata, eppure ancora così provinciale nello stile di vita e nell’aria che si respira. A Bologna non c’è la frenesia capitalista di Milano, quella modernità vorticosa che fa viaggiare e fa correre a ritmi allucinogeni. A Bologna si tiene ancora il passo del borgo preindustriale, con quella voglia costante di potersi fermare un attimo e godere del panorama.
In questo scontro con sé stessa, la squadra di calcio, il Bologna, o BFC come la chiamano i suoi tifosi, incarna quest’anima cittadina. La contraddizione interna del passato e del presente rifulge in essa, in bilico tra la celebrazione di una storia lunga più di 110 anni e il desiderio di entrare nella modernità del calcio contemporaneo.
Una passato glorioso, ma antico: lo “squadrone che tremare il mondo fa(ceva)” degli anni ’30; poi Bulgarelli e l’ultimo scudetto, così lontano nel tempo da essere ormai un ricordo sbiadito. L’ultimo trofeo nel 1999, un Intertoto, un successo talmente distante dall’immaginario calcistico contemporaneo da sembrare appartenente a un’altra era, a un altro calcio. E invece, sono solo, si fa per dire, 23 anni da allora.
Oggi il Bologna è diverso. Della nobiltà passata sono rimasti solo i titoli onorari. La squadra ha vissuto periodi molto bui, navigando in acque societarie torbide e incerte. Poi, nel 2014, una proprietà straniera, con un presidente canadese e un progetto serio, capace di ricostruire una solidità che a metà degli anni 2000 era parsa un miraggio. Con Saputo, alla settima stagione consecutiva in Serie A, il Bologna è tornato a far parte della borghesia del calcio italiano. Tuttavia, questo non sembra bastare.
Ritrovata la stabilità e una prospettiva futuribile, la città non ha più voglia di specchiarsi nella gloria del passato, desiderosa, invece, di costruire una storia nuova, un nuovo Bologna in grado di portare nuovi successi sotto le Torri. Tornata a camminare sulle sue gambe tra i sentieri del massimo calcio italiano, i rossoblù avrebbero ora voglia di fare lo step successivo, di diventare – o tornare ad essere – una grande squadra che “tremare il mondo fa”.
Il Bologna e il desiderio di avere di più
Venerdì 4 marzo, per la Bologna calcistica è una giornata come altre. La squadra sta preparando l’insidiosa gara casalinga contro il Torino. Non è il momento più brillante dell’era Mihajlovic – 1 sola vittoria nel 2022, arrivata contro lo Spezia, in rimonta, poco meno di due settimane prima. L’ambiente appare depresso, rassegnato a una stagione simile alle ultime due, senza nessun passo avanti sostanziale. Anzi, forse con qualche passo indietro nel gioco espresso.
Nel giro di 24 ore due lampi squarciano la mesta serenità in quel di Casteldebole. Prima gli ultras. Un comunicato congiunto dei Forever Ultras 1974 e dei Freak Boys Bologna, due importanti gruppi del tifo bolognese, infiamma la contestazione verso l’operato della società. La disillusione per anni di gestione, in cui le promesse di crescita non sono state rispettate. Il Bologna sembra essere rimasto fermo al palo, mentre la classe media attorno a sé si muove in avanti. L’impennata improvvisa della Fiorentina, rivale storica, rinata all’improvviso nell’ultimo anno di gestione Commisso, o la lungimirante crescita del Sassuolo sono esempi perfetti. A paragone, la curva di crescita del Bologna è misera e piatta. C’è la richiesta di cambiamento, di un ripensamento dei ruoli societari. Nemmeno la bandiera Di Vaio viene risparmiata dalle critiche.
Il giorno dopo, dalle colonne de Il Resto del Carlino, storico giornale bolognese, è Saputo a far sentire le sue ragioni. Ad emergere è il suo disappunto per una stagione ritenuta non proprio soddisfacente. L’addio di Mihajlovic comincia a divenire una realtà sempre più concreta. Bisogna solo terminare con dignità un altro campionato da metà classifica.
Sembrerebbe la cronaca di un’annata totalmente negativa, quelle che quando finiscono richiedono di tirare una linea, di fissare un punto di ripartenza. Via i dirigenti, via l’allenatore, via i giocatori. Eppure, non è così. In fin dei conti, la stagione dei felsinei è stata… normale. Un saliscendi prevedibile di prestazioni: una fase di profonda depressione nelle prime giornate, seguita dal periodo più brillante del campionato rossoblù; il quale, giunto al termine, è stato seguito dalla fase più buia, con un miglioramento nelle ultime giornate.
L’incostanza della squadra viaggia parallela a quella del suo tifo. Sugli spalti del Dall’Ara, ormai da qualche anno, l’approccio alla materia calcistica vive questa sua duplicità. Si passa da momenti di grande depressione collettiva, nei quali i tifosi rossoblù si sentono quasi come intrappolati in un loop di mediocrità, a brevi periodi di esaltazione in cui la speranza per possibili buoni risultati in futuro si infiamma di nuovo.
In queste condizioni, formulare un giudizio sul campionato del Bologna equivale a guardare dentro una palla magica: la risposta è sempre diversa e non per forza è quella che si cerca. È positiva? È negativa? Dipende un po’ da che parte la si guarda, come quella figura in cui si può vedere al tempo stesso un’anatra o un coniglio.
Non cedere al torpore
C’è qualcosa di strano, quasi intangibile, nella stagione del Bologna. È l’ombra “donadoniana”, un’oscura presenza capace di ingrigire l’atmosfera rossoblù in più fasi della stagione. Ecco, se si volesse riassumere in una breve sentenza quest’annata rossoblù, potrebbe essere questa: “una lotta continua contro un’anonima rassegnazione”.
In che senso “donadoniana”? Parlare in termini negativi e assoluti dei quasi tre anni di gestione di Roberto Donadoni, sarebbe ingiusto. Preso il Bologna nei primi mesi nella stagione 2015/16, in una situazione disperata dopo il disastroso avvio con Delio Rossi, il tecnico lombardo è riuscito a portare i felsinei a una salvezza insperata, condita anche da risultati prestigiosi – vittorie su Napoli e Milan, e pareggi contro Juve e Roma. Nelle due stagioni successive, poi, la permanenza in A è stata sempre consolidata senza difficoltà particolari. Allora cos’è questa ombra capace di dipanare un malinconico pessimismo nei giudizi sulle prestazioni della squadra?
L’ombra “donadoniana” rappresenta a Bologna, per il Bologna, quella tranquillità statica a cui la città, la curva, la società non sa rassegnarsi. La sensazione di star vedendo lo stesso, mediocre film dal finale già noto. L’ombra “donadoniana” è la medietà, la constatazione di non essere né una squadra da alta classifica, né un’armata Brancaleone alla ricerca di una salvezza miracolosa.
Un terrore, quest’ultimo, vissuto durante la pessima gestione Filippo Inzaghi. L’esonero, infatti, arriva dopo la gara del 27 gennaio 2019, sconfitta casalinga contro il Frosinone, un 4-0 disarmante, e terzultimo posto in classifica. La situazione è drammatica, anche più di tre anni prima, perché c’è meno margine per recuperare terreno. Al termine di quella gara Saputo parla vis à vis con la tifoseria, mettendo sul piatto quelle rassicurazioni e quelle ambizioni, oggi rinfacciategli dai tifosi.
Il sostituto di Inzaghi è Sinisa Mihajlovic. Il serbo prima salva il Bologna, ripetendo quel miracolo già di Donadoni tre anni prima. E nella stagione successiva ottiene la 10a posizione, un risultato in grado di esaltare le prospettive future della squadra. La svolta sembra poter arrivare. Invece, le due annate seguenti sono meno positive. Sempre salvezze tranquille, sia chiaro, ma prive di quelle ambizioni “da grandi” alle quali i tifosi puntano gli occhi. Voglie di grandezza che puntualmente si dimostrano bolle di sapone. L’ombra di quella tranquillità noiosa del periodo Donadoni, torna ad allungarsi sul Dall’Ara.
Con queste premesse, l’annata attuale ha concentrato in sé l’essenza di questa alternanza sincopata di illusione per un divenire diverso, e delusione per il doversi rassegnare a un presente sempre uguale.
Ci sono stati due momenti, in particolare, nelle quali il Bologna sembrava esser sprofondato in un vortice di tristezza, all’apparenza tanto tossico quanto inevitabile. Il primo, è la sconfitta estiva in Coppa Italia contro la Ternana, per 5-4. Era la prima gara dell’anno, la prima occasione dei tifosi di ripopolare il Dall’Ara – ancora con le restrizioni pandemiche del caso – e l’avversario era una squadra neopromossa in Serie B.
All’apparenza, una di quelle partite agostane che fungono più da occasione per alzare il sipario sulla stagione appena iniziata, mettendo in passerella i nuovi acquisti e le nuove ambizioni. E questa volta di innesto ce n’era uno molto importante: Marko Arnautovic, accolto come un eroe al suo arrivo. L’uomo giusto per alzare il peso specifico offensivo dei rossoblù.
Il Bologna, invece, vive un autentico incubo. I 5 gol subiti ricordano la fragilità difensiva di una squadra che poco più di un anno prima aveva interrotto una striscia di reti subite consecutivamente di 41 partite. Più di un intero campionato. La gara successiva con la Salernitana, l’esordio in campionato, è tragica. Sembra la materializzazione delle parole di Marx. Ma questa volta la storia non si ripete: il Bologna non cede a un avvio di stagione farsesco, e in pochi minuti ribalta il doppio svantaggio contro i neopromossi campani. Al Dall’Ara finisce 3-2. Il pubblico tira un sospiro di sollievo.
È il segnale di una voglia ferina della squadra di non cedere al suo stesso destino. Eppure, la stagione prosegue in maniera altalenante, fino alla sconfitta con l’Empoli: 4-2. C’è bisogno di una svolta: Mihajlovic passa al 3-5-2. Il gioco diviene più prudente, il Bologna pare riorganizzare le idee e trovare compattezza. I risultati arrivano e le porte dell’Europa cominciano addirittura ad aprirsi piano piano. La tifoseria sogna.
Tuttavia, a inizio dicembre una sconfitta brutta con la Fiorentina, riporta i piedi per terra. Le ambizioni del Bologna si spengono. La sconfitta contro una rivale, in una gara che in quel momento valeva la 5a posizione, fa riscoprire la squadra fragile e poco pimpante. Da lì pochi risultati positivi, e un inizio di 2022 da dimenticare. La stagione prende una china deprimente, con la sconfitta casalinga, a metà marzo, contro un’Atalanta rimaneggiata e con il gol nel finale del giovanissimo Cissé a segnare il punto più basso.
Nel momento all’apparenza più nero, però, il Bologna si riscopre squadra e pareggia a San Siro, 0-0 contro il Milan. È la prima partita senza Mihajlovic in panchina, di nuovo ricoverato all’Ospedale Sant’Orsola per le inemendabili cure contro la leucemia. In quella notte milanese, nella fase più difficile di un campionato dalle pieghe sempre più sinistre, i rossoblù giocano tirando fuori una prestazione di carattere, come non se ne vedevano da mesi. Due settimane dopo, il pareggio in casa della Juventus.
Poi l’apice. La gara che potrebbe diventare la fotografia decisiva del campionato di Serie A 2021/2022. Nel recupero della 20a giornata, il Bologna batte l’Inter 2-1. L’errore di Radu e il gol di Sansone sono già storia. L’entusiasmo torna ad animare il Dall’Ara, i rossoblù si riscoprono squadra vera e tosta, in grado di battagliare ad armi pari con tutti. L’ottimismo torna a essere tangibile, ma ancora non basta.
Aspettarsi troppo, ricevere poco: l’illusione rossoblù
In questa disamina, vi è un problema di prospettiva. E una domanda è lecita: ma quali sono le aspettative e le ambizioni di questa squadra? In effetti, se si assume un campo di visione più ampio, quanto detto sulla stagione del Bologna sembra aver valore solo a Bologna. Sotto i portici, allora, il punto di vista appare distorto rispetto alla realtà oggettiva.
Ad occhi esterni, la stagione degli uomini di Mihajlovic è di una precisione quasi artificiale. Un’onesta posizione di media classifica, con periodi di flessione più o meno prolungati, alternati a reazioni orgogliose in grado di procurare quei punti necessari a una comoda salvezza. Anzi, i risultati prestigiosi contro alcune grandi del calcio nostrano – oltre alle già citate strisciate, vanno ricordati anche le vittoria casalinghe contro le due romane e il recente pareggio dell’Olimpico contro la Roma – dovrebbero aggiungere brillantezza alla valutazione complessiva.
Eppure, il senso di incompiutezza rende più pesante del dovuto l’aria del Dall’Ara. Frustrazione e disillusione accompagnano le gare casalinghe del Bologna, con il pubblico sempre in bilico tra l’esaltazione di giocatori il cui potenziale sembra sul punto di esplodere, e irritazione per un errore banale degli stessi. Non è difficile sugli spalti sentire alternarsi un incensamento entusiastico a Svanberg, Dominguez o Barrow, tra i giocatori più talentuosi della rosa, seguito a stretto giro da un impropero colorito dalle forti venature emiliane. Il quadro finale è grottesco: le prestazioni dei giocatori sono spesso degli orgasmi mancati, un’esaltazione pronta a esplodere e bloccata sul più bello.
Per capire ciò, bisogna ritornare alle parole di Saputo. Nell’intervista al Carlino, le parole del presidente sono un manifesto programmatico:
Una squadra che andasse in Europa ha sempre fatto parte della nostra strada, dello sviluppo che vogliamo
È una dichiarazione d’intenti chiara, senza possibili equivocazioni. E la dose viene rincarata:
Ecco, per me abbiamo già tutto per fare questo salto di qualità: giocatori, allenatori, staff tecnico
Ad analizzare i risultati e i numeri della squadra, le parole del patron non sembrano però trovare riscontro. Il Bologna ha subito 7 gol in meno in questa stagione – 52 contro i 59 del 2020/21, alla stessa giornata. Ma a stupire è il dato dei clean sheet: 12 quest’anno, mentre lo scorso erano a malapena 4. In compenso, però, l’attacco ha segnato 6 gol in meno – 48 contro 42.
Sono numeri che descrivono un miglioramento difensivo del Bologna, dovuto anche al nuovo modulo più prudente, al quale però è coincisa una maggiore sterilità offensiva. Il tutto al netto dei 14 gol di Arnautovic, acquisto di indubbia caratura, ma i cui effetti sulla classifica sono stati minimi. Pertanto, la coperta è questa, tirare da un lato scopre l’altro, e non sembra possibile poi fare molto di più. Qualcosa di diverso c’è stato, ma la sostanza è cambiata solo in minima parte, pretendere risultati migliori appare come uno scollamento dalla realtà effettiva.
Ma quest’idea non è solo di Saputo. Ad esempio, il 5 maggio, Aaron Hickey ha rilasciato un’intervista al quotidiano la Repubblica e, tra domande sul suo ambientamento in Italia e sulle possibili sirene di mercato – lo scozzese è tra i giocatori del Bologna più messisi in mostra in questo campionato -, c’è stato un bilancio sul presente. Nelle parole del classe 2003 c’è l’incompiutezza amara di chi non riesce a rassegnarsi alla sua condizione, di chi vorrebbe essere diverso, essere più grande, stare più in alto:
È stata una buona stagione che può finire meglio
Quel meglio non è una possibilità, è quasi un obbligo morale. Bisogna fare di più di così. Altrimenti, come afferma lo stesso Hickey nell’intervista, la stagione sarà da ritenere deludente.
Se l’ambiente carica in questo modo di aspettative e di obiettivi, a volte anche un po’ astrusi – si può effettivamente definire un vero traguardo da raggiungere la 10a posizione in classifica? -, le pretese di prestazioni di più alto livello della tifoseria divengono di colpo richieste realistiche, da giustificare e comprendere.
Il futuro incerto del Bologna
Ancora una volta, però, è la realtà a colpire ai fianchi i rossoblù. Questa volta non è la realtà astratta dei numeri, ma quella materica del campo. Ieri al Penzo, il Bologna è stato sconfitto per 4-3 dal Venezia, a un passo dalla Serie B e in serie negativa da 10 partite consecutive. Era la prima con Mihajlovic di nuovo in panchina dopo un mese e mezzo di terapie, l’occasione per sublimare l’ottimo stato di forma attuale. Colpisce come proprio Hickey sia parso tra i giocatori più scarichi e meno motivati del Bologna.
È arrivata una sconfitta, spettacolare nel risultato e nei modi, e, in fin dei conti, abbastanza indolore. Un riassunto in 90 minuti della stagione del Bologna. L’inizio sbadato, con un doppio svantaggio arrivato senza colpo ferire, con un primo gol subito con rassegnata passività – Mihajlovic in conferenza post-partita lo ha definito “un gol da partita tra scapoli e ammogliati”. La reazione che porta addirittura al vantaggio a metà della ripresa, per poi subire il pari e il gol beffa praticamente all’ultimo tiro della gara. Proprio quando almeno un pareggio sembrava poter maturare.
Ora, con due giornate ancora da disputare, il record di punti della gestione Saputo è ancora a portata di mano, mentre è sfuggito quello assoluto nell’era dei 3 punti per vittoria. Non di certo obiettivi in grado di fare realmente la differenza. O forse sì, se si assume la prospettiva dei portici, dove differenziare questo campionato da quelli precedenti sembra quasi un obbligo morale.
Diventare grandi è assumersi delle responsabilità. Il Bologna, invece, è ancora come la sua città, un’adolescente indeciso sul suo futuro, speranzoso e voglioso di realizzare i propri sogni, ma ancora non in grado di decidere chi vuole davvero essere. Il Bologna vuole crescere, i bolognesi vogliono vederlo diventare qualcosa di più. Ritornare ai fasti di un passato che è polveroso come le fotografie di quelle giornate, per abbandonarlo e riscrivere un futuro diverso, ma ugualmente di successo. Sognare non costa niente, ma bisogna essere pronti ad affrontare tante delusioni per arrivare alla meta.