A poche settimane dall’esonero di Gennaro Gattuso, vittima sacrificale numero 12 negli ultimi 9 anni, le speranze del Valencia Club de Fútbol di rimanere in Liga ed evitare una rovinosa retrocessione sono al lumicino. Tanto da affidarsi, in un momento di crisi societaria e identitaria, ad una leggenda come Rubén Baraja Vegas, uno dei calciatori più vincenti della storia del club. Riuscirà il Pipo, grazie alla sua conoscenza del posto e alle sue idee come allenatore, a risollevare le sorti di un club in decadenza?
La ricetta “Voro”
Senza ombra di dubbio, quella del Valencia è la peggiore crisi nei 103 anni di storia, con una parabola che sembra una storia già scritta. Storia composta da un cambio societario, quello del 2014, che si trasformerà negli anni da opportunità per il futuro a rompicapo privo di soluzione e investimenti. Parliamo dell’era Lim, omonima del proprietario singaporiano Peter Lim, che acquisisce il club in un momento nero a livello economico e susseguente all’epopea nazionale e intercontinentale che i bianconeri avevano vissuto con Rafa Benítez. Fin dal suo arrivo nell’estate 2014, Lim apparve immediatamente come il salvatore della patria: l’uomo che, tramite la compagnia d’investimento Meriton, aveva creduto nel progetto e nella città Valencia per far rifiorire un club che aveva sfiorato la retrocessione. Dal 2014 ad oggi, ovvero quasi 9 anni dopo, le certezze saranno poche così come l’idea di una rinascita duratura: escludendo il periodo di Marcelino Garcia Toral, un biennio dal 2017 al 2019 in cui la Copa del Rey dell’ultimo anno fungerà da maschera per una rosa che andava pian piano sfaldandosi, il Valencia ha cambiato 10 allenatori, stringendo sempre più la cinghia sul mercato (e sul monte ingaggi) ed affidandosi alla ricetta “Voro” per salvare la pelle nelle stagioni più complicate. Di cosa si tratta? Di un salvatore di nome e di fatto.
Chiamasi Salvador González Marco, in arte Voro, altro non è che un fedele delegato del club che per amore di questi colori ha sempre risposto alle chiamata per allenare “ad interim“: a partire dal 2008, in cui fu chiamato a sostituire Ronald Koeman per evitare la retrocessione, fino a qualche settimana fa, quando però, dopo aver sostituito Gennaro Gattuso e con la squadra quartultima, si è visto un Voro sfiduciato e senza idee che quasi implorava di essere sostituito. D’altronde, dopo sei miracoli e con un ambiente non ancora corroso dalla gestione societaria, la settima impresa appariva davvero quella di troppo: ecco perché, nonostante l’immagine del mago che aveva perso il manuale dei suoi trucchi facesse paura a qualsiasi tifoso, la società ha capito che urgeva un cambio che andasse, per una volta, in direzione di un popolo valencianista che da anni ribolle di tensione e proteste.
Una decadenza ciclica
L’aspetto più sui generis di questa situazione è legato alla ciclicità con la quale gli allenatori sono giunti in Comunitat pensando di cambiare le cose ripartendo poi dopo poco – alle volte pochissimo – tempo gettando la spugna come a dire “di fronte a tutto ciò, non posso nulla”. L’ultimo caso è quello di Gattuso, lottatore e allenatore determinato da sempre e per sempre, anche nelle più disparate avventure come quelle di Salonicco, giunto a Valencia come uno dei pochi capaci di cambiare le cose anche di fronte alla pochezza del mercato valencianista, da anni ormai quasi immobilizzato, per giungere alla rescissione dopo un semestre e nonostante tutto un organico favorevole alla sua permanenza. Ecco perché in molti si sono chiesti: se anche lui lascia, lui che in conferenza stampa rispondeva determinatamente “tra uno due mesi ne riparliamo” quando un giornalista gli chiedeva se fosse un leone o un “bellissimo gattino” durante la presentazione ufficiale in estate, cosa può davvero salvare questo club?
Gattuso, come Prandelli prima di lui (con una conferenza stampa polemica), come lo stesso Marcelino e come José Bordalás, arrivato dopo l’epopea con il Getafe e ripartito dopo solo una stagione, ha riscontrato nella proprietà gli stessi problemi dei suoi antecedenti: promesse di mercato fatte e non mantenute, un ferreo monte ingaggi quasi proibitivo e pian piano un certo disinteresse nei confronti dello sport e della passione dei tifosi verso una più mera forma di guadagno senza troppi fronzoli. Ecco perché di fronte al caos più totale, con una tifoseria imbestialita tanto da apporre in qualsiasi punto della città i manifesti e gli adesivi con su scritto “Lim Go Home“, da manifestare ad ogni pre partita e giunta persino ad entrare allo stadio con ritardo per protesta, come si può parlare di calcio giocato o di tattiche messe in campo da ognuno di questi interpreti? I tifosi, dal canto loro, non hanno mai avuto odio nei confronti della squadra, con un appoggio incondizionato che si è fatto sentire a Mestalla, storica struttura nel centro della città che quest’anno si ritrova a compiere 100 anni sperando di “restare” nell’élite spagnola.
La scelta di Baraja e una rosa provvisoria
Per contrastare tutto ciò, la scelta di Lim e di Lay Hoon, ritornata presidente del Valencia quest’anno dopo il triennio 2014-2017 e fedelissima di Lim, è piombata su Rubén Baraja. Come dicevamo, il Pipo è stato una leggenda di Mestalla e nei suoi 10 anni di militanza ha partecipato ai maggiori trionfi degli uomini con il pipistrello, ma ha poca esperienza come allenatore, soprattutto in certe situazioni. Dopo la gavetta nelle giovanili del Valencia, il percorso come allenatore principale tra Elche, Rayo Vallecano, Sporting Gijon, Tenerife e Real Saragozza, dal quale è partito abbastanza in fretta, è stato fugace e privo di grande risonanza. Di lui si sa ben poco a livello tattico, anche se il discorso di presentazione come allenatore del Valencia, parlando di “sogno che si avvera“, al momento ha fatto breccia nel cuore di tanti tifosi e riacceso una fiammella di speranza che sembrava spenta. Discorso sublimato dalla recente vittoria casalinga contro la Real Sociedad (1-0 sabato 25 febbraio, ndr), con un Valencia ravvivato nonostante la permanenza al terzultimo posto che varrebbe la retrocessione. Ma che rosa ha a disposizione Baraja e chi è abituato a dover lottare in queste condizioni? La risposta è semplice, nessuno. Perché oltre al fatto che la maggior parte dei calciatori di spicco della rosa (Justin Kluivert, Samuel Lino, Ilaix Moriba, Nico González) sono frutto di prestiti o sanno già che probabilmente dovranno partire (i giovani Thierry Correia, Yunus Musah, Hugo Guillamón) con gli altri che hanno poca esperienza in lotte simili a questo punto della stagione.
Nelle due partite alla guida del Valencia, seguendo il percorso di Voro ma soprattutto quello di Gattuso, Baraja non sembra aver stravolto le cose rimanendo su un saldo 4-3-3 fondante sulla rapidità delle coppie di terzini (Thierry Correia/ Dimitri Foulquier a destra, José Gaya/Toni Lato a sinistra, da valutare però quando tornerà capitan José Luis Gayà, infortunatosi nella sfida contro il Getafe) e sulle caratteristiche di ripartenza degli esterni: Samuel Lino, brasiliano 1999 di proprietà dell’Atletico Madrid, rapido e pericolosissimo nell’uno contro uno, e Castillejo, che da mancino risulta sempre pericoloso quando taglia verso il cuore dell’area. E nell’attesa che Edinson Cavani torni disponibile dopo un infortunio muscolare, puntare su uno tra Justin Kluivert (che può agire su tutto il versante offensivo) e sul giovane Hugo Duro come punta centrale, senza dimenticare la colonna portante tra centrocampo e attacco: un trio omogeneo e giovane composto da Hugo Guillamón come “sentinella”, Yunus Musah e André Almeida come mezzali. Almeida in particolare, classe 2000 pescato a 7 milioni e mezzo di euro dai portoghesi del Vitória Guimarães, si è rivelato un prospetto interessante e un centrocampista collante tra fase difensiva e offensiva, con ottime qualità nel saltare il primo pressing e avanzare palla al piede strappando, senza disdegnare il tiro dalla media distanza. Dietro, oltre al vice ma ritenuto un “capitano mio capitano” Gabriel Paulista, l’unico capace di parlare ai tifosi dopo la sconfitta dolorosa di Getafe affermando alla curva di “morire per la maglia“, Mouctar Diakhaby convince più di Cenk Özkacar e Eray Cömert per esperienza e mix tra fisico e qualità in uscita (a volte però un po’ troppo rischiose).
Oltre ad una rosa incompleta ma sicuramente attrezzata quantomeno per la salvezza, le prestazioni da pescare dal cilindro come fonte d’ispirazione sono fondamentalmente due, entrambe sotto Gattuso: l’altisonante vittoria casalinga di novembre contro un Betis in lotta per la Champions (3-0 il 10/11, ndr) e la sconfitta in semifinale di supercoppa contro il Real Madrid dopo aver venduto cara la pelle per 120 minuti. Da quella fame e voglia di lottare su ogni pallone, non solo quando si affronta il Real Madrid ma anche su campi più arcigni come Cadice, Valladolid, Almería ed Elche, tutte rivali dirette nella lotta alla retrocessione. Ma per giudicare Baraja ci affidiamo a quello che il suo predecessore aveva detto ad un giornalista:
“Qualsiasi cosa pensi, ne riparliamo tra qualche mese”
Sperando che non sia una conclusione triste e che la squadra, così come il sovrano Jaime I nel XIII secolo, svegliatosi prima di un attacco degli arabi grazie ad un pipistrello (da qui il motivo del simbolo della città), saprà recuperare la situazione prima che sia troppo tardi. Amunt.