Sapete che c’è una curiosa storiografia dietro a questo nome, Lee Kang-in, che incontra una grande quantità di variazioni?
Innanzitutto, chiariamo subito la faccenda: Lee Kang-in e Kangin Lee sono la stessa persona, soltanto che non è stato mai distribuito ai media europei un unico, vero cognome per riferirsi all’ultimo talento nascosto da un viso così simile a quello di Heung Min Son. Questo perché proviene dalla città metropolitana di Incheon, posta all’estremo nord-ovest della Corea del Sud, ed è figlio di un linguaggio sconosciuto rispetto ai nostri occhi occidentali. Poi accade che Lee Kang-in e Kangin Lee, come Dwayne Johnson e The Rock, oppure come Carlo III ed il re d’Inghilterra, sono la stessa persona. Da non crederci, il marketing e quel che ti combina.
Se nel corso di tutte queste stagioni non sono mancati quelli che lo abbreviavano in Kang-in o Kangin, oppure in un secco Lee o che trovavano ancora altre soluzioni, almeno adesso sembrerebbe esserci un nome che accontenta tutti: “Lee Kang-in”, e basta così. Sperando che si conservi, questa volta.
Numero due, come premessa risulta impossibile non citare una statistica su Lee Kang-in che viaggia tra il clamoroso ed il bizzarro, e che può spaventarvi. Anche perché consegna un’immagine abbastanza precisa sul profilo di questo “giocatore di rotazione” del Paris Saint-Germain. Infatti, come testimoniato dai dati in possesso del club, tra tutti i calciatori del PSG, quello che ha registrato il maggior numero di maglie vendute non è Kylian Mbappé, ma Lee Kang-in. Secondo me, scavalcare la risonanza mediatica di Mbappé non è cosa da poco.
Lee Kang-in è un calciatore molto attraente per i tifosi perché dà tutto il suo impegno, non perde palla, resiste al pressing, segna e fa assist. Quando si gioca ha una grande fame. Questo sentimento, la fame, trovo davvero che sia molto importante per lo sviluppo di un calciatore”.
(Luis Enrique)
L’età dell’innocenza di Lee Kang-in
Nonostante un cognome così, per la fortuna degli analisti con Lee Kang-in c’è poco da poter confondere sul suo profilo. Come si può intuire a prima vista – perché è così, e basta – lui è la tipica rappresentazione del talento genuino e leggero, ma ancora tutto da compiersi, da farsi, del bocciolo troppo precoce che solo ora sta cominciando il proprio percorso per sbocciare definitivamente.
I tiri in porta con la visione di gioco collegata gli migliorano giorno dopo giorno, e di lui si parla un gran bene da troppo tempo, semplicemente perché è destinato ad entrare nel pantheon dei migliori talenti del calcio asiatico. Un talento buono e senza malizia, senza scatti improvvisi e reazioni da campo, piccolino e determinatissimo, che in questa stagione siede tantissimo in panchina.
Lee Kang-in al momento rimane un trequartista molto versatile alla scoperta della totalità. È ipertecnico e brevilineo, rapido che sembra un po’ il gemello in formazione del coetaneo Takefusa Kubo della Real Sociedad. Inoltre, come accade per chi viene dalle sue parti, c’è la solita rigorosa disciplina sudcoreana a renderlo ancora di più un personaggio molto etico sportivamente. Ed è anche per questo, o meglio, forse è soprattutto per questo che Lee Kang-in piace proprio a tutti, e probabilmente piace fin troppo.
L’esperimento (e il problema) sorge quando la castità e l’incorruttibilità del calcio di Lee Kang-in deve piazzare le proprie radici a Parigi dove, non so se lo sapete, gioca il Paris Saint-Germain.
A Parigi, proprio Parigi
Finora, in carriera, il sudcoreano ha dimostrato di potersi piazzare un po’ ovunque in avanti, dato che ai tempi di Valencia svolgeva saltuariamente anche un ruolo da centravanti o addirittura, con più continuità, da seconda punta di supporto, una posizione molto sperimentata anche successivamente con la maglia del Maiorca. Le “migliori” abitudini dei suoi ex allenatori, però, lo hanno portato anche più lontano dalla porta: da trequartista alle spalle degli attaccanti o addirittura largo sulle fasce, con l’intenzione di vederlo puntare l’uomo e saltarlo. La cosiddetta sottopunta, o seconda punta mobile, con strappi da esterno famelico e dinamico.
Eppure non è questo il ruolo che sta occupando con Luis Enrique, e anzi, solo adesso sembra davvero a suo agio a giocare a calcio. A Parigi da luglio, per conto dei Parisiens Lee Kang-in sta stupendo nel ruolo nuovo da mezz’ala spregiudicata, imprescindibile nel 4-3-3 dell’allenatore spagnolo, suo manifesto del bel calcio spagnoleggiante. Quel ruolo in sé, effettivamente, sembra stagli addosso come un abito su misura di quelli dalla pronuncia francese.
Il sudcoreano si sta trovando liberato dalla morsa di quei difensori strutturati che altro non attendono che il duello fisico, tanto che adesso incomincia a sentirsi a suo agio su delle caselle che sono più arretrate rispetto al suo storico tattico. Dopo anni di “prova”, sembra essere finalmente a conoscenza dello spazio che lo circonda, ideando da sé ritmi e movimenti per tutta la squadra.
Per capire meglio di cosa stiamo parlando, osservate il movimento del sudcoreano mentre segue l’azione nel suo goal contro il Montpellier. Oltre al tiro violentemente preciso all’incrocio dei pali, lo spazio occupato da Lee Kang-in è esattamente nella zona centrale, ma circa dieci metri in meno rispetto alle posizioni di Mbappé e Kolo Muani. Fra le altre cose, la costruzione di quest’azione da rete è molto simile al suo goal segnato al Milan in Champions League.
In questo calcio europeo, così frenetico e fisico, Lee Kang-in sembra ritagliato appositamente per occupare quel mezzospazio che dà sulla trequarti, pronto ad agitarsi e a esprimersi come meglio crede in quello spazio tanto affollato quanto cruciale. In posizione arretrata, sì, ma dentro le trame di gioco, da tessitore finissimo di tutte quelle fasi di rifinitura adoperate per aprire gli spazi delle difese avversarie. Formando con Zaïre-Emery una coppia di centrocampo senza senso.
Ma non è questo il punto. Non importa così tanto della posizione, del suo ruolo.
Il problema di Lee Kang-in, dunque qual è? Il suo guaio immancabile è trovarsi dentro il club dell’ego, come lo è da definizione il Paris Saint-Germain. Quando l’asiatico veste la maglia nike parigina, c’è un contrasto assurdo fra il suo essere e il suo abito. È il completo contrasto con tutto quello che sono i meccanismi del PSG ed è che, per costituzione, al contrario di tanti altri negli ultimi anni, l’innocente Lee Kang-in non è così capace di abbassare il proprio livello a causa del contesto intorno. Un vero guaio che Lee Kang-in non sia così adattabile a Parigi, dopotutto.
Per quanto ci si provi, lui non si sente smarrito o impotente nelle iniziative, al contrario di tante altre promessine del club che hanno visto come i top player non ce la fanno – in fondo in fondo – a tenere la squadra a galla con le loro solite iniziative personali. In una squadra che è troppo forte qualitativamente e troppo debole caratterialmente, dentro Lee Kang-in non avviene nessuno dei processi tipici dell’ambiente parigino, perché lo tiene salvo una certa genuinità (e una disciplina) che proprio non si riesce a levargli via.
Lee Kang-in è un deus ex machina scritto male
Al contrario di tantissimi predecessori ed interpreti contemporanei dentro il PSG, il sudcoreano non sta riuscendo tanto facilmente a perdere quello spirito a cui faceva riferimento Luis Enrique a luglio, perché gli è semplicemente impossibile mollare la sua carissima etica sportiva. Da luglio, qui, è cambiato molto poco.
Lee Kang-in è a prova di delusione quando, tra i tanti campioni, deve essere utilizzato lui come un deus ex machina nelle partite che contano, soltanto perché si avverte che ha più fame degli altri rouge et bleus, come infatti è accaduto nei doppi confronti contro il Milan, in Champions League, quando lui è dovuto entrare perché andava aggiustato qualcosa (con esiti e situazioni diversi). Lui è una pedina differente.
Addirittura, lui sta sempre lì, che ci prova e ci riprova nella sua originalità e affidandosi alla propria iniziativa, evitando di appiattirsi sulla soglia dell’apatia da campo delle tante giovani scommesse di contorno che, negli anni, hanno fatto solo da sfondo a Neymar e Messi prima, ed ora a Mbappé.
Epilogo
Insomma, Lee Kang-in non è il tipico eroe moderno che gira con la spada nel fodero e con la bottiglia di whisky e lacrime, è più uno di quei profili puri e idealizzati. Va avanti come l’immagine di un cavaliere senza macchie di sangue o di vino sulla divisa, uno bravo, che corre a cavallo e fa solo quello che può, che non si distrae mai in mezzo ai boschi claustrofobici. È di altri tempi.
Nel nostro Occidente, il sudcoreano sembra essere avvolto da un tessuto tardomedievale e poi fare parte di quei protagonisti dei libri vecchi: è della categoria dei protagonisti del ciclo bretone e dei nobiluomini delle crociate, che aiutano i buoni cristiani e che non riescono cadere in tentazione. Lui ci fa capire che è coraggioso e che sa conquistare perché è un virtuoso, perché legge i libri sulla cortesia e sulle buone maniere di corte, che è per questo che è il prescelto della volontà divina in ogni impresa. Allora quando va avanti, Lee Kang-in resta la tipica figura che non sgarra, nemmeno se esce la Morgana in persona o se c’è il tempaccio per strada, e fino alla fine fa il buono incorruttibile contro tutti, senza scendere a patti, mantenendo la stessa identità dall’inizio alla fine. Semplicemente, riesce a piacere a tutti perché fa la parte del buono.
Ma, davvero, proprio non si capisce cosa ci faccia lui a Parigi nel Paris Saint-Germain, lui, davvero.
Arrivo sempre dove sto andando allontanandomi da dove sono stato”.
(Winnie the Pooh)