Dopo otto lunghi anni di esilio, il Milan si è finalmente riaffacciato alla sua amata Champions League. Per l’occasione, il destino ha offerto ai rossoneri il teatro di Anfield, uno stadio dove nemmeno Paolo Maldini ha mai avuto la fortuna di difendere i suoi colori. Nel prepartita, il dirigente milanista, da sempre maestro zen nella gestione delle emozioni, è apparso visibilmente nervoso. Apprensivo come un padre che accompagna suo figlio ad un incontro importante, Maldini sembrava chiedersi se il suo Milan sarebbe stato all’altezza di quella splendida cornice, di quella squadra travolgente, di quell’atmosfera magica di cui lui si nutriva abitualmente. L’incontro si è rivelato dapprima traumatico, poi illusorio, infine amaro.
Il trauma
Nei primi trenta minuti il Milan è sembrato del tutto frastornato dall’atmosfera circostante e dal ritmo forsennato degli uomini di Kloop, che di fatto rappresentano un tutt’uno (presto spiegate le difficoltà del Liverpool con gli impianti chiusi). La prima fase dell’incontro ha ritratto i Reds nelle vesti di una femme fatale. Pronti a sedurre i giovani innamorati rossoneri col canto ammaliante di “You’ll never walk alone” ma altrettanto decisi nel ferirli senza pietà con il loro esasperato Gegenpressing e un’intensità insostenibile. Inquadrato in pieno assedio inglese, Paolo Maldini ha scosso la testa deluso, quasi a certificare le preoccupazioni per i continui colpi incassati dal proprio figlioccio, forse non ancora all’altezza della tanto agognata coppa.
Il Liverpool ha saputo dominare il Milan con le stesse armi che hanno consentito alla squadra di Pioli di surclassare la Lazio domenica scorsa: pressione alta e intensità soffocante. I Reds, però, hanno chiaramente dimostrato di essere i veri padri putativi di uno stile di gioco che accumuna tutta l’avanguardia tedesca dal maestro teorico Ralf Rangnick – sì, proprio lui – fino a Klopp, Nagelsmann e Tuchel. A testimoniare l’aggressività feroce con cui il Liverpool ha accolto – si fa per dire- il Milan nel primo tempo, sono le posizioni medie avute dagli inglesi, che delineano un futuristico 2-3-5 a “piramide rovesciata”. Matip e Gomez con un baricentro medio di 40 metri, Fabinho, Henderson e Keita ad assorbire ogni brevissimo possesso del Milan, e le due ali, Arnold e Robertson, devastanti in pressione, nelle sovrapposizioni interne/esterne, e protagonisti di un cross pericoloso al minuto nella prima mezz’ora di gioco.
Le posizioni medie del Milan, invece, evidenziano un 3-4-2-1 asimmetrico, scomposto, ben lontano dall’efficacia che la squadra di Pioli è solita mostrare in campionato. Il principale problema del Milan è stata la mancata soluzione in uscita palla: Il Milan è abituato ad imporre aggressività, non a subirla, e in Serie A, tolta l’Atalanta, è difficile trovare un a squadra che assalti la prima uscita con la stessa intensità dei Reds. L’unico giocatore che poteva risultare utile a rendere più fluide le uscite era Ismael Bennacer, ma l’algerino, colpevole sul fallo da rigore e sulla respinta che ha favorito il 3-2 di Henderson, è parso ben lontano dalla migliore forma.
Dopo la rete in avvio di Alexander Arnold, propiziata dall’ennesima incursione dell’esterno inglese, il rigore procurato da Robertson sembrava preludere a un’imbarcata di gol. Invece, il primo squillo di un Milan giovane e impaurito, arriva da Mike Maignan, che al quindicesimo mura il rigore di Salah e respinge con un buon riflesso la ribattuta di Jota. Più che una svolta, nella dinamica dell’incontro la parata di Maignan assume la valenza di un moto d’impeto decadente, un tentativo di ricordare al Liverpool che un tempo il Milan, quei livelli, li reggeva eccome.
Nella seguente mezz’ora i Reds perseverano nel macinare gioco e occasioni. I primi quaranta minuti sembrano un appuntamento tra due vecchi amanti. Da una parte il Liverpool è rimasto quello forte e aitante di un tempo, ha avuto altri successi, altre conquiste. Il Milan, invece, ha passato anni terribili, flirtando con squadre poco nobili, accontentandosi, e quasi se ne vergogna. I rossoneri non vogliono sfigurare con la donna della loro vita, ma appaiono ormai del tutto disabituati a queste notti romantiche. Poi, all’improvviso, la svolta.
L’illusione
Ciò che distingue la squadra di Pioli dall‘ultimo Milan che aveva giocato una partita di Champions è la prospettiva: quello del 2013 era un Milan smorto, esangue, privo di progettualità e ambizioni future. Al contrario, i rossoneri presentatisi ad Anfield per incontrare la dama di Liverpool sono inesperti, in alcuni casi acerbi, ma anche giovani, ricchi di talento ed energia.
Dal 42‘ al 44‘, in due minuti belli e fugaci come un sogno, si è abbattuta su Anfield tutta la fresca qualità del Milan di Stefano Pioli. Al quarantunesimo un lancio di Kjaer trova Brahim sul centro–sinistra, lo spagnolo addomestica il pallone e imbuca per Saelemaekers – smarcatosi in un corridoio centrale tra Fabinho e Keita – il belga esegue uno stop a seguire, taglia il campo sul lato sinistro prima di servire con l‘esterno Leão, che di prima offre un assist perfetto a Rebic: destro secco d‘interno, ed è 1–1. Un‘azione corale perfetta che tra verticalità, interscambio di posizioni, e precisione nelle scelte, rappresenta una perfetta epitome del calcio a cui i rossoneri ci hanno abituati nell‘ultimo anno e mezzo.
Anfield si ammutolisce, e se il cuore si ferma, tutto l’organismo cessa di funzionare. La femme fatale in abito rosso, che per fascino ricorda la meravigliosa Emmanuelle Seigner che interpreta la “Venere in pelliccia” di Polanski, tutto a un tratto, è passata dalla condizione di dominatrice a quella di dominata. Il Milan ha svestito i panni del vecchio amante deluso, timido e contratto, e si è trasformato in un giovane attraente ricco di segreti, pronto a sedurre il Liverpool per poi colpirlo, come nel 2007. Un minuto e mezzo dopo la rete del pari, Leão scambia con Theo e mette il turbo sulla fascia sinistra. Il portoghese si accentra portandosi appresso Fabinho, con Rebic e Theo che tagliano sul lato sinistro mentre Brahim e Saelemaekers inseguono come ossessi dal lato opposto. Leão serve Rebic che di prima offre a Theo la palla dell‘1–2: Robertson si immola salvando sulla linea, ma Brahim la spinge dentro. É 2-1 per il Milan.
Siamo nella seconda fase dell‘incontro, quella in cui il Milan, superato l‘imbarazzo iniziale, strappa un bacio nostalgico e passionale alla sua amata. Per due minuti i rossoneri provano una fortissima sensazione di “madeleine” proustiana: riassaporano l‘odore ubriacante della gloria, della nobiltà europea, e ritrovano l’identità che per otto anni avevano smarrito. A fine primo tempo l‘atmosfera è quasi onirica. Il Milan ha già ottenuto quello che voleva, la sua dose di grandezza, e la sensazione è che il Liverpool tornerà a dominare.
L’amarezza
Finito un sogno, la vita costringe a fare i conti con la realtà: pronti–via, a Kjaer viene annullato per questione di centimetri un gol che sarebbe stato pesantissimo. Il Milan continua ad arrancare, Kessié e Bennacer non riescono a salire di tono, e i Reds tornano a caricare come tori indemoniati. Dopo tre minuti Salah segna la rete del pari dopo un triangolo con Origi. Il collettivo milanista appare ancora sognante, frastornato dalla potenza emotiva di quei due minuti a fine primo tempo (come il tifoso rossonero commosso inquadrato dalle telecamere) mentre il Liverpool è ben saldo sulla realtà, e sa che c‘è una partita da vincere.
Venti minuti più tardi un Bennacer distratto rinvia di testa un corner dei padroni di casa sul destro di Henderson, che al limite dell‘area scarica un destro al volo all’angolino alla destra di Maignan. È 3–2 per il Liverpool. L‘impressione è che dopo il bacio nostalgico rappresentato dall‘uno–due terribile del Milan, i Reds abbiano dimostrato che a contare è solo il “qui e ora”, riassestando i rossoneri sulla difficoltà della Champions League, una competizione in cui due minuti ad alto livello non possono certo bastare.
Negli ultimi venti minuti la squadra di Klopp ha abbassato la pressione, lasciando spesso al Milan l‘iniziativa, ma tolto qualche pallone scaraventato in area, i rossoneri non hanno saputo creare pericoli. Nel post–partita Brahim Díaz si è definito deluso per una partita che la sua squadra avrebbe potuto vincere, e qui veniamo alla sensazione di amarezza finale. Il Milan non è mai stato all‘altezza di un Liverpool visibilmente più forte, ma i due minuti di onirica bellezza hanno riaffacciato l‘ambiente a una dimensione emozionale che da anni era sconosciuta. Una volta raggiunta questa condizione – più per episodi e fortuna che per meriti – i sette volte campioni d‘Europa non hanno avuto la forza di difenderla, probabilmente perché troppo scossi dal salto compiuto. I margini di miglioramento sono infiniti, e il Liverpool – per caratteristiche – è forse la big europea che peggio si adatta allo stile di gioco del Milan.
Ma il solo fatto che si possa parlare di amarezza dopo una sconfitta ad Anfield, certifica i passi da gigante fatti da proprietà, squadra e allenatore negli ultimi due anni. Il trauma iniziale è stato superato, l‘emozione di un vantaggio ad Anfield è stata esperita, l‘amarezza verrà metabolizzata. Ora, dopo questo primo, pregno appuntamento, per il Milan viene il momento di dimostrare di essere all’altezza di questa competizione. Già contro l‘Atletico a San Siro servirà un Milan più reattivo, più pronto ad adottare contromisure all‘atteggiamento degli avversari, un Milan alla ricerca di successi futuri, non più di un tempo perduto. La partita di Anfield è stata un sogno romantico, ora è il momento di aprire gli occhi e sfidare la realtà dell‘hic et nunc.