Quando riapre gli occhi, sente un leggero fischio alle orecchie. Una luce lampeggia di fronte a lui, una voce metallica sta dettando qualche ordine da seguire. In tono gentile, ma deciso. I viaggi in aereo gli causano sempre qualche acciacco al collo, lentamente si massaggia la porzione di corpo sotto l’orecchio, intanto focalizza con gli occhi ancora semichiusi quella luce che continua a lampeggiargli di fronte. Finalmente capisce, prende il lembo alla sua destra e lo unisce con quello alla sua sinistra. Un clic metallico, la cintura si chiude. Gira la testa ancora dolorante verso il finestrino, vede il terreno che via via si fa sempre più vicino. L’aereo poi con un piccolo sobbalzo tocca terra. Qualche timido applauso, sempre imbarazzante, e inizia la lunga trafila per uscire dall’aeroporto. In maniera estremamente meccanica l’uomo recupera la sua valigia, poi si dirige all’uscita dell’aeroporto. Sono 10 anni ormai che non torna a Londra, da quando è andato in pensione.
Ha appeso la penna al chiodo, per così dire. Niente più trasferte per i campi di tutto il Regno Unito. Niente più lunghe notti a scrivere i resoconti delle partite. Basta. Eppure, quando torna nella City prova sempre un pizzico di malinconia. Quando ha deciso di mettere fine al suo lavoro, ha abbandonato la capitale. Lontano dal caos della città, lontano da tutto quel calcio che per anni è stato la sua grande passione, ma anche il tormento quotidiano. Le due facce di scegliere il mestiere dei propri sogni. Ma quando torna a Londra prova sempre quel velo di malinconia. Tornano alla mente ricordi, emozioni, un turbinio di sentimenti incredibili.
Uscito dall’aeroporto sale su un taxi, che lo porta al centro della città. Per i suoi 80 anni si è voluto regalare quel viaggio a Londra, ufficialmente per incontrare vecchi amici e ricevere una meritata onorificenza. In cuor suo però perché vuole rivivere, un’ultima volta, tutte quelle emozioni che il calcio gli ha dato. Giunto in hotel quindi si cambia, si da una rinfrescata ed è di nuovo in strada. Avvolto dalla sciarpa che lo protegge dal vento che sferza si cala nella prima fermata della metropolitana che trova. Alla macchinetta compra il biglietto, lo timbra e parte. Un viaggio entusiasmante, nei ricordi del grande calcio londinese che ha vissuto e commentato, attraverso il mezzo di trasporto più rappresentativo della capitale del Regno Unito che ha sempre amato in maniera particolare.
Next stop: Arsenal
Il viaggio inizia lì, da quella fermata della metropolitana dal nome abbastanza eloquente. In origine in realtà si chiamava Gillespie Road, poi il leggendario allenatore dell’Arsenal Herbert Chapman le fece cambiare nome nel 1913, perché quella era la fermata più vicina ad Highbury, la casa dei Gunners, e tutti dovevano saperlo. Si tratta dell’unica fermata in tutta Londra che porta il nome di una squadra di calcio, eppure ce ne sono di club nella City. Ma l’Arsenal ha sempre avuto un fascino speciale, diverso dagli altri.
Sale i gradini che portano fuori dalla metro e, dopo una rapida occhiata intorno, ripensa a quell’anno in cui l’Arsenal è stato davvero una squadra speciale. All’alba della stagione 2003/2004 lo scettro d’Inghilterra è conteso da tantissime squadre. Ci sono i Gunners di Wenger, ma c’è anche il solito Manchester United di Sir Alex Ferguson, campione in carica. Poi c’è il nuovissimo Chelsea di Roman Abramovich, al primo anno alla guida del club. Infine, possono dire la loro anche il Liverpool di Gerrard e Owen e il Newcastle di Alan Shearer.
Alla fine, a spuntarla è proprio l’Arsenal, in un campionato a dir poco memorabile. Sì, perché i Gunners non si sono limitati a vincere il titolo, ma l’hanno fatto senza perdere mai. Gli invincibili, questo il nome con cui sono poi passati alla storia. Lehmann tra i pali, la coppia di centrali composta da Kolo Touré e Sol Campbell, con Lauren e Ashley Cole sulle fasce. Patrick Vieira e Gilberto Silva in mezzo al campo, a destra la fantasia di Ljungberg e a sinistra l’applicazione di Pires. Davanti la coppia, quella coppia: Dennis Bergkamp e Thierry Henry. Una squadra fantastica, che è stata capace di concludere il campionato con ben 90 punti, frutto di 26 vittorie e 12 pareggi. E soprattutto zero sconfitte.
Il turning point di quella stagione è senza dubbio il match passato alla storia come la battaglia dell’Old Trafford. United e Arsenal se le danno di santa ragione per tutta la gara, senza però trovare la via del gol. Nei minuti di recupero del secondo tempo poi viene fischiato un rigore a favore dei Red Devils: sul pallone van Nistelrooy, la sfera che impatta sulla traversa e grazia Jens Lehmann. Da lì, l’Arsenal inanella nove vittorie consecutive, costruendo un margine di vantaggio che al termine del campionato laureerà la squadra di Wenger campione d’Inghilterra.
Il 15 maggio 2004 si gioca l’ultimo atto di quell’incredibile campionato: l’Arsenal ospita il Leicester e i treni dell’underground londinese portano ad Highbury fiumi di tifosi, pronti ad ammirare il definitivo passo verso la storia della propria squadra. Il match parte male, Dickov porta avanti gli ospiti, ma nella ripresa prima Henry su rigore, poi Patrick Vieira, scacciano i fantasmi e confezionano la vittoria dei Gunners.
Il capolavoro è compiuto. Il mito degli invincibili è stato scritto. Che pagina di storia entusiasmante, la ricorda come fosse ieri. Raccontarla è stata un onore, davanti a imprese sportive del genere si è sempre commosso e lo fa ancora. Sospinto dai ricordi ha finito il suo giro, si riavvicina alla fermata e si cala nuovamente nella metro, verso la prossima destinazione.
Next stop: Seven Sisters
Da Highbury a White Hart Lane il viaggio è relativamente breve, o meglio, lo è da Arsenal alla fermata Seven Sisters, la più vicina alla storica casa del Tottenham. Da lì poi occorre proseguire per altri 15 minuti con un bus o col treno. Lui che ha sempre amato la metro però ha sempre sofferto questa scocciatura di usare dei mezzi alternativi. Forse per questo non ha mai avuto in grande simpatia il Tottenham.
Sicuramente c’è qualche altro modo per spostarsi più rapidamente, ma come al solito sceglie la metro e allora diligentemente da Arsenal scende a Finsbury Park, lascia la Piccadilly line per la Victoria e dopo un’altra fermata è a Seven Sisters. Era ancora un giovane studente quando ha pensato di potersi innamorare del Tottenham, prima di scoprire le difficoltà nel raggiungere White Hart Lane. Sognava vagamente, un giorno, di vivere scrivendo di calcio e intanto consumava tutto ciò che i campi londinesi offrivano. Negli anni ’60, c’era poco di meglio del Tottenham.
La storia degli Spurs è legata a doppio filo a quella del leggendario Bill Nicholson. Da calciatore ha vestito solo la maglia del Tottenham, dal 1938 al 1955. Poi ha allenato soltanto la compagine londinese, dal 1958 al 1974. In campo ha vinto la prima First Division della storia degli Spurs, dalla panchina ha portato nella bacheca della sua squadra altri 13 titoli. 14 dei 28 trofei complessivi della collezione del Tottenham portano la sua firma. Esattamente la metà. Una leggenda.
L’anno d’oro del Tottenham di Nicholson è il 1960-1961. Gli anni ’50 sono stati molto positivi per gli Spurs, che hanno vinto il loro primo titolo nazionale e mantenuto un buon rendimento generale. I ’60 però sono tutta un’altra storia, e si vede da come iniziamo. Quella stagione per il Tottenham è semplicemente pazzesca: i londinesi vincono le prime 11 gare di campionato, rimangono imbattuti per altre cinque e cadono solo dopo 16 risultati utili consecutivi. Alla terza giornata, la squadra di Nicholson conquista la vetta della classifica in solitaria e non la molla più, vincendo matematicamente il titolo con due turni di anticipo.
Il 17 aprile 1961, a White Hart Lane il Tottenham ospita lo Sheffield Wednesday, unica squadra rimasta in corsa per il titolo. Gli ospiti gelano l’impianto con la rete del vantaggio di Megson, ma poi Bobby Smith e Les Allen, due leggende del club, ribaltano il risultato, regalando la gioia del titolo ai propri tifosi.
La magia non finisce qui però, perché qualche settimana dopo, il 6 maggio 1961, il Tottenham conquista anche l’FA Cup, superando in finale il Leicester grazie alle reti ancora di Smith e dell’altro attaccante, Terry Dyson. Il capitano Danny Blanchflower può alzare al cielo la seconda coppa nel giro di nemmeno un mese, sigillando un trionfo storico per il Tottenham, che diventa così la prima squadra a centrare il prestigioso double nel XX secolo.
Il Tottenham di Bill Nicholson continuerà a vincere ed essere protagonista per tutti gli anni ’60 e ‘70, diventando anche la prima squadra inglese a vincere un trofeo europeo grazie al trionfo in Coppa delle Coppe nel 1963. Intanto, mentre il Tottenham ascende e si consuma, uscendo progressivamente dal novero delle più grandi squadre inglese, il sogno del nostro protagonista si realizza e il calcio inizia a diventare davvero ciò che gli permette di vivere. Il Tottenham è stata la prima squadra che lo ha incantato, ma altre storie erano destinate ancora a rubargli il cuore.
Next stop: Upton Park
Tra queste c’è quella di un’altra squadra londinese, che ha vissuto nei suoi primi anni di lavoro e che quindi ricorda con particolare piacere. Stavolta il viaggio è molto più lungo, ci sono parecchie fermate e diversi cambi da fare, ma quando la voce della metro annuncia l’arrivo nella stazione di Upton Park, lo stomaco torna in subbuglio. Già, perché dopo quattro anni dalla straordinaria annata del double del Tottenham, da semplice studente il nostro viaggiatore è diventato un giornalista in erba, alla sua prima esperienza nel mondo del lavoro e Upton Park gli riporta alla memoria sensazioni molto care.
Una delle prime grandi imprese che ha avuto l’onore di seguire e commentare porta la firma del West Ham. Gli Hammers sono una di quelle squadre che esercitano un fascino incredibile sui tifosi di tutto il mondo, ma la cui storia è abbastanza avara di vittorie. Il 1965 però è un anno assolutamente da ricordare dalle parti di Upton Park. Nella stagione appena conclusa, i londinesi hanno vinto il primo trofeo della loro storia, la FA Cup, se si fa eccezione della vittoria nel 1940 della Football League War Cup, trofeo che si è disputato solo durante la Seconda Guerra Mondiale.
Nella stagione 1964-1965 quindi il West Ham, guidato dal leggendario capitano Bobby Moore e dal grande bomber Geoff Hurst, campioni del mondo entrambi di lì a poco, si appresta a disputare la Coppa delle Coppe. La cavalcata europea degli Hammers è folgorante: i ragazzi di Ron Greenwood eliminano al primo turno il Gent, poi superano Sparta Praga e Losanna negli ottavi e nei quarti della competizione, mentre in semifinale fanno fuori il Saragozza.
Nella finalissima di Wembley, del 19 maggio 1965, il West Ham sconfigge il Monaco 1860 con una doppietta in due minuti di Alan Sealey. Il trionfo di Londra chiude un biennio magico per gli Hammers, che riescono a conquistare ben tre titoli vivendo gioie che non proveranno quasi mai più nella loro storia.
Tutti i ricordi di quella strepitosa avventura europea gli riaffiorano alla mente, insieme alle prime ansie che gli causava il suo lavoro, ma anche alle prime emozioni e soddisfazioni. Quella rimane la prima grande impresa di una squadra inglese che ha seguito nel suo lavoro e per questo il West Ham occuperà sempre un posto speciale nel suo cuore. Dopo questo tuffo nel passato è ora di lasciare Upton Park, risalire sulla metro e spostarsi dall’altra parte di Londra, verso sud.
Next Stop: Fulham Broadway
Per andare da Upton Park a Fulham Broadway occorre percorrere quasi tutta la lunga District line, prendendo la diramazione di Wimbledon. Un viaggio che gli ricorda tanto quello fatto diversi anni fa, nel 2012. Precisamente il 18 aprile. La sera, il Chelsea avrebbe sfidato il Barcellona nel match valido per la semifinale di andata di Champions League. Da convinto sostenitore del calcio inglese, dentro di lui ancora ribolliva la rabbia per quella maledetta notte del 2009, quando il Chelsea fu praticamente derubato dell’accesso alla finale di Champions dall’arbitro Ovrebo. Anche in quell’occasione era a Stanford Bridge ed era riuscito a stento a mantenere un atteggiamento composto e professionale, senza inveire contro il direttore di gara norvegese, come invece si erano abbandonati a fare parecchi colleghi in tribuna stampa. Dopo tre anni l’occasione per vendicarsi era ghiotta e non andava sprecata.
Ma se il Chelsea del 2009 era una squadra fortissima, quella del 2012 non convinceva moltissimo. L’annata era complicata, con l’esonero di André Villas-Boas e l’approdo in panchina di Roberto Di Matteo. Mentre in campionato il tecnico italiano prova a salvare il salvabile, in Europa conduce il Chelsea a una incredibile e insperata cavalcata. Dopo aver superato con una grande rimonta il Napoli agli ottavi, il Chelsea nei quarti si libera del Benfica e in semifinale si trova di fronte, come tre anni prima, il Barcellona.
Stavolta l’epilogo però è diverso: quel match d’andata i londinesi riescono a vincerlo grazie alla rete di Drogba. Poi al ritorno al Camp Nou il 2-2 finale qualifica i Blues alla finalissima di Monaco. Una grande soddisfazione, ma all’Allianz Arena contro i padroni di casa, ovviamente strafavoriti, del Bayern, in pochi credono che la squadra di Di Matteo possa farcela. Lui per primo non conserva la minima speranza. E invece…
Il Chelsea trascina la gara ai rigori, va sotto all’83 con la rete di Müller, ma pareggia cinque minuti dopo col solito Drogba. Dal dischetto Mata sbaglia subito, i bavaresi segnano i primi tre tentativi, poi falliscono Olic e Schweinsteiger. Drogba, chi se non lui, realizza il rigore decisivo e regala al Chelsea la prima Champions League della sua storia. Uno dei trionfi più sorprendenti della storia della competizione.
La vittoria del West Ham è stata la prima grande impresa di una squadra inglese che ha seguito, quella del Chelsea è stata l’ultima. Dopo quella finale decide di ritirarsi, godendosi la meritata pensione. Per questo quando esce dalla fermata di Fulham Broadway e va a caccia del monumentale Stanford Bridge il cuore gli batte un po’ di più, perché in quello stadio, nel match contro il Barcellona, ha vissuto l’ultima grande soddisfazione della sua vita professionale.
Così, prende la via del ritorno, torna ad aspettare il treno che lo porterà nell’ultima tappa del suo viaggio a Londra, quella che stranamente gli ricorda un’impresa mancata, ma in cui ha creduto tantissimo. Forse, uno dei più grandi sogni sfumati della sua carriera.
Next stop: Putney Bridge
Da Fulham Bridge a Putney Bridge c’è di mezzo solo la fermata di Parsons Green. Il percorso è breve e da Stamford Bridge, il nostro viaggiatore si trova presto a Craven Cottage. Il Fulham gli ha sempre destato una strana simpatia, un tratto tipico delle squadre non vincenti. Con un misto di curiosità, scetticismo e flebile speranza segue il cammino europeo del club londinese nella stagione 2009-2010.
Il settimo posto dell’anno precedente è valso alla squadra guidata da Roy Hogdson la qualificazione all’Europa League. Nei turni preliminari i londinesi superano il Vetra e l’Amkar Pern, approdando così finalmente alla fase a gironi. Riescono anche a passare questo turno, piazzandosi al secondo posto alle spalle della Roma, ma vincendo il duello col più quotato Basilea per un posto nei sedicesimi.
Dopo aver superato gli ucraini dello Shakhtar, agli ottavi c’è la sfida con la Juventus. Un confronto impossibile, specialmente dopo la sconfitta per 3-1 a Torino dell’andata. Nel ritorno a Londra, a Craven Cottage, però, accade l’impossibile: il Fulham va subito sotto col gol di Trezeguet, ma poi riesce a segnare addirittura quattro reti alla Vecchia Signora, col definitivo 4-1 di Dempsey che regala una clamorosa e insperata qualificazione ai quarti.
A questo punto quella speranza diventa un po’ meno flebile, Zamora e Duff confezionano la vittoria nell’andata dei quarti col Wolfsburg, poi al ritorno ancora il bomber inglese sigilla il passaggio del turno. In semifinale contro l’Amburgo, dopo lo 0-0 in Germania sono Davies e Gera a ribaltare il vantaggio di Petric e a regalare al Fulham la clamorosa finale di Europa League.
A quel punto si è appassionato terribilmente alle vicende della squadra di Hogdson, sogna di poter commentare una delle più grandi imprese europee di una squadra inglese, ma nella finalissima di Amburgo il Fulham si deve piegare al troppo superiore Atletico Madrid, non prima comunque di averlo portato ai supplementari. Vantaggio di Forlan, pareggio immediato di Simon Davies, poi a cinque minuti dai rigori ancora l’uruguaiano, a spezzare i sogni del Fulham.
Next stop: home
Col rimpianto che anche ad anni di distanza si riaffaccia in maniera beffarda, fa nuovamente capolino alla fermata di Putney Bridge. A passo lento si addentra nel sottosuolo della sua cara Londra, passa il biglietto nel tornello e si dirige verso le scale. Le scende, aspetta il treno, ci sale sopra. Trova un posto per sedersi, due file più avanti una coppia di adolescenti sta ascoltando la musica. Una cuffietta per uno, la testa di lei poggiata sulla sua spalla. In piedi accanto a lui una giovane mamma spinge avanti e indietro nervosamente la carrozzina, dentro la bambina inquieta cerca di rilassarsi con quel movimento ipnotico.
A questo punto poggia la testa al finestrino, guarda all’esterno, nel buio della metro. Davanti gli ripassa tutto: le braccia al cielo di Blanchflower, il braccio di Moore intorno alla coppa, l’esultanza festosa di Thierry Henry, la delusione di Bobby Zamora e le lacrime di gioia di Didier Drogba. Una vita condensata in pochi attimi, quelli che hanno lasciato maggiormente il segno. Ora si è ricordato perché non ama tornare a Londra, perché il peso della nostalgia è troppo alto. Perché fosse per lui prenderebbe il computer e tornerebbe a girare tutti gli stadi di Londra. Passerebbe le giornate su quella metro. Tra quelle fermate.
Questo è il calcio, un vortice pazzesco e infinito di emozioni. Per lui, come per tutti i londinesi che, armati di sciarpa e biglietto, ogni domenica salgono sulla metro e vanno allo stadio, al pub di fiducia o da qualche amico, per il rito settimanale. Per la magia del Football, che soprattutto a Londra sa regalare momenti indimenticabili.