fbpx
CALCIO ITALIANO

Come Pellegrini si è preso la Roma

In una delle ultime partite prima del Covid che ha visto il pubblico presente allo Stadio Olimpico, Roma-Gent, Lorenzo Pellegrini è stato sostituito al 79esimo. Nonostante il vantaggio della squadra, dalle tribune si levarono dei fischi, sintomo di un’insofferenza covata da un po’ di tempo dalla tifoseria. Oggi che la gente è tornata sugli spalti la situazione si è completamente ribaltata, quello di Pellegrini è l’ultimo nome annunciato dallo speaker alla lettura delle formazioni e per lui è il boato più convinto e rumoroso.

Guardandolo adesso la sua sembra una storia segnata dall’inizio, il ragazzo romano e romanista che inizia nelle giovanili e arriva ad essere il capitano della compagine giallorossa, raccogliendo l’eredità lasciata da Totti, De Rossi e prima ancora Giannini, Conti e Di Bartolomei. Il percorso di Pellegrini con la Roma in realtà è stato ben più travagliato, fatto di lampi, ma anche di critiche, momenti di crisi e un feeling che stentava a decollare del tutto con la tifoseria, e la sua permanenza non è stata sempre così scontata.

Il numero 7 giallorosso si è consacrato quasi nello stupore generale, ma il suo è un talento che ora brilla perché, seppur forse più lentamente e gradualmente di quanto si aspettasse la piazza romana, è stato in grado di crescere con costanza, aggiungendo anno dopo anno qualcosa al proprio gioco.

Pellegrini, Abraham e Zaniolo esultano
Lorenzo Pellegrini è diventato il punto di riferimento della nuova Roma dei Friedkin (Foto: Paolo Bruno/Getty Images – OneFootball)

Quando Pellegrini era una promessa

C’è una settimana di metà marzo 2015 che corrisponde all’inizio ideale per questo racconto. Il 17 di quel mese infatti Lorenzo, che da qualche settimana aveva iniziato anche ad essere convocato con continuità in prima squadra dall’allenatore Rudi Garcia, era il capitano designato della Roma Primavera che affrontava il Manchester City ai quarti di finale di Youth League. La Roma vinse quella sfida 2-1, grazie anche ad una sua perla. Destro secco da fuori area, palla sotto l’incrocio e il mormorio sempre più insistente di una tifoseria che iniziava ad esaltarsi immaginando il futuro del ragazzo. Soltanto sei giorni dopo arrivò anche l’esordio in Serie A, 23 minuti in una partita vinta di misura contro il Cesena, segno anche di una certa considerazione da parte dell’allenatore.

A fine stagione fu presa per lui una decisione che aveva portato fortuna nel passato recente – pensiamo ai casi di Florenzi e Paredes – ovvero quella di mandarlo a farsi le ossa in provincia. Ad aspettarlo c’era il Sassuolo di Eusebio Di Francesco, che si accordò col club di Trigoria per la formula del prestito con diritto di riscatto, concedendo ai giallorossi la possibilità di esercitare la recompra. Già il primo anno Pellegrini raccolse un discreto bottino, giocando 19 partite e togliendosi lo sfizio del primo gol in Serie A già nei primi mesi di stagione, contro la Sampdoria. Gli infortuni della rosa neroverde, in particolare quelli di Missiroli, gli permisero di trovare continuità dopo un iniziale periodo di apprendistato, e lui seppe farne tesoro.

La seconda annata in Emilia fu quella della consacrazione nel primo campionato del nostro calcio. Il suo modo di interpretare il ruolo di mezzala si sposava perfettamente col sistema di gioco costruito da Di Francesco. La sua propensione a giocare in verticale e a cercare costantemente gli inserimenti senza palla erano infatti fondamentali nello scacchiere dell’allenatore abruzzese. Anche l’intesa con Domenico Berardi, la cui tendenza è sempre stata quella di occupare il campo in ampiezza, dando così agli intermedi l’opportunità di dominare lo spazio centrale, fu molto importante. A fine campionato il bottino di Pellegrini, soltanto 21enne, diceva 8 gol e 8 assist, numeri che gli valsero anche la titolarità agli Europei U21, e soprattutto la chiamata di Monchi. Il direttore sportivo spagnolo infatti, al primo mercato da romanista, decise che era il momento per il figliol prodigo di ritornare a casa.

Lorenzo Pellegrini in campo in Frosinone-Sassuolo
La parentesi al Sassuolo è stata la prima tappa importante nella carriera di Pellegrini (Foto: Francesco Pecoraro/Getty Images – OneFootball)

Tante luci, altrettante ombre

Il ritorno alla Roma, al di là dei romanticismi, era interessante per due motivi. Il primo era la possibilità di crescere dietro calciatori come Strootman, Nainggolan e De Rossi, allo stesso tempo apportando delle caratteristiche diverse al centrocampo giallorosso. Il secondo era lo sbarco nella capitale anche di Di Francesco, in un certo senso suo padre calcistico.

La prima stagione, che per la squadra ebbe il suo punto più alto nella storica partita di ritorno col Barcellona, rientrò tutto sommato nelle aspettative. Un rendimento altalenante era prevedibile per un ragazzo di 22 anni alla prima esperienza in una big, e alcuni lampi lasciati intravedere, così come alcune prestazioni di livello molto alto (su tutte quella a San Siro contro il Milan), lasciavano grandi speranze per il futuro. Nel complesso 37 partite con 3 gol e 4 assist erano già una buona base da cui partire. Da migliorare c’era comunque tanto, a partire dal fisico ancora piuttosto leggero per certe partite, passando per una scelta delle giocate non sempre lucida.

La campagna 2018/19 iniziò per la Roma con un centrocampo completamente rifondato. Dentro Nzonzi, Cristante e Pastore, via Nainggolan e Strootman e un De Rossi agli sgoccioli da centellinare con parsimonia. Lecito era quindi attendersi, dopo un primo anno di adattamento, un salto di qualità da parte di Pellegrini, la cui responsabilità era quella di dimostrare di essere davvero un predestinato.

L’inizio invece per il ragazzo di Cinecittà fu ai limiti del disastroso. Titolarità a singhiozzo, prestazioni incolori, l’arrivo di Zaniolo che in pochi minuti col Real Madrid sembrava essersi già preso lo scettro di talento su cui puntare nel cuore dei tifosi. Alcuni di voi forse ricorderanno una partita in particolare, una sconfitta al Dall’Ara contro il Bologna, in cui Pellegrini giocò da 4 in pagella. In poco tempo il sentimento popolare si era ribaltato, e la pazienza iniziava a vacillare.

Spesso il destino però regala seconde opportunità, e tutto sta nel saperle cogliere. A fine settembre, in un derby con la Lazio, Pastore si fece male nel primo tempo. Al suo posto dentro Pellegrini, che con uno dei primi palloni toccati si ritrovò a infilare il portiere biancoceleste con un colpo di tacco.

Nel complesso fu un’annata travagliata anche come collettivo, segnata dall’esonero di Di Francesco a cui subentrò Claudio Ranieri, e dalla percezione di un ciclo arrivato quasi alla fine. La frustrazione dei tifosi travolse anche Pellegrini, che nei numeri era migliorato, il suo tabellino diceva infatti 4 gol e 7 assist, ma i cui difetti continuavano ad essere evidenti.

Difficile, soprattutto in un contesto non funzionale, era non notare l’efficacia ancora ridotta in fase difensiva, l’incostanza sotto porta o la difficoltà quando gli avversari alzavano ritmo e cifra tecnica. Tutti aspetti che lo portarono a vedersi appiccicata un’etichetta non corrispondente al reale, quella di giocatore svogliato. A questo contribuì anche la tendenza ad essere poco conservativo nelle giocate, che per un calciatore non affermato può sembrare presunzione.

Ranieri poco tempo fa ha detto di lui che allora era un giocatore fin troppo generoso, il che lo portava ad esagerare nelle rincorse e quindi a perdere lucidità nei momenti decisivi. Nel frattempo però, per togliersi di dosso la nomea, Pellegrini ci ha messo un po’.

Il gol di tacco contro la Lazio
Il gol nel derby contro la Lazio è uno dei lampi iniziali di una carriera con la Roma che faticava a prendere il volo (Foto: Paolo Bruno/Getty Images – OneFootball)

Eppur si muove

Come già detto, probabilmente è semplice dare giudizi col senno di poi, ma la stagione 2019/20 ha tutti gli effetti le sembianze del momento in cui per Pellegrini è iniziata la transizione verso il successo. Il Covid che ha portato all’interruzione forzata del campionato ha ovviamente reso più difficile capire sul momento la direzione che la sua carriera stava prendendo.

L’arrivo di Paulo Fonseca sulla panchina giallorossa per l’attuale capitano è stato molto importante. La bontà del lavoro del nativo di Nampula nel suo biennio romanista è ancora oggetto di dibattito, ma è innegabile che lui da subito abbia individuato in Pellegrini un calciatore da responsabilizzare e mettere al centro di un progetto di gioco.

I primi due mesi per Pellegrini furono ottimi, si iniziò a vedere un giocatore finalmente continuo e coinvolto appieno. La Roma e il suo centrocampista non avevano ancora fatto i conti con la sfortuna, e così dopo un infortunio sul campo del Via Del Mare di Lecce, Lorenzo pur ritrovando una buona forma non diede più la sensazione di totale fiducia che aveva acquisito ad inizio campionato.

Finita l’annata, ci si iniziò a chiedere se in fondo non fosse il caso di considerare Pellegrini una promessa mancata, ormai all’ennesimo salto di qualità mancato. Forse ciò che si aveva di fronte era soltanto un buon gregario o un calciatore da Serie A medio bassa e gli 8 gol e 8 assist di Sassuolo erano stati soltanto frutto di una serie di coincidenze fortunate.

Per la terza stagione di fila si vedevano gli stessi difetti. Poca incisività nelle sfide con concorrenti dirette, periodi di scarsa forma fisica durante la stagione, una predisposizione evidente alla fallosità e a prendere cartellini anche pesanti. Fisicamente continuava a mancare la capacità di tenere botta ad avversari più forti nei contrasti, e c’era in più ancora la pessima abitudine a perdere il pallone in zone nevralgiche del campo. Tutto ciò che riguardava la protezione del pallone insomma andava costruito da zero. A questo va aggiunta una grossa carestia in zona gol. Pellegrini infatti chiuse la stagione a sole 3 reti segnate, di cui 1 in campionato. Un bottino davvero misero per un calciatore da velleità offensive.

Arrivati fin qui vi starete chiedendo di quale transizione io parlassi ad inizio paragrafo, ma se per i tifosi ormai impazienti a balzare agli occhi erano i tasti dolenti, il grosso merito di Pellegrini in questa stagione fu quello di riuscire a consolidare i propri punti di forza. Un aspetto determinante per il proseguo della sua crescita.

In un inedito ruolo di trequartista di destra più che di ala pura, il romanista fece registrare il suo record stagionale di assist (13) e di occasioni create per i compagni. Inoltre, l’impressione era che avesse finalmente imparato a dosare le forze e a coprire meglio le distanze in campo, riuscendo così a finire le partite senza andare in riserva senza disdegnare rincorse. Questa nuova abilità, unita alla capacità di lettura delle linee di passaggio avversarie che aveva già messo in mostra agli ordini di Di Francesco, ne fecero per Fonseca il primo baluardo della fase difensiva. Sì, perché Pellegrini non è un giocatore velocissimo, né capace di cavalcate inarrestabili, ma ha un’invidiabile intensità e predisposizione a correre con continuità nell’arco di una partita. Agli allenatori questo piace, e non poco.

Pellegrini in contrasto con Lucioni
L’infortunio contro il Lecce ha probabilmente ritardato l’esplosione di Pellegrini di qualche mese (Foto: Maurizio Lagana/Getty Images – OneFootball)

Il cambio di marcia di Pellegrini

Nella scorsa stagione è quasi naturale individuare due sliding doors decisive per Lorenzo Pellegrini a livello individuale, nonostante un rendimento collettivo quasi bipolare. La prima è forse la meno ovvia, ma è per vari motivi un crocevia. Roma-Sassuolo fu forse, nei 90′, una delle migliori prestazioni di Pellegrini con la Roma. Con la squadra in 10 per gran parte del tempo corse per due e fece un grande lavoro in entrambe le fasi. Ciò che rimase nel post-partita fu un suo errore in occasione del gol del vantaggio poi annullato alla Roma, dove Pellegrini invece di tirare da posizione favorevole decise di passare il pallone.

Quella fu l’ultima di una serie di gare consecutive che il centrocampista giocò da mediano nel 4-2-3-1. Un ruolo in cui non ha mai davvero brillato e che Fonseca gli aveva ritagliato in quell’inizio di stagione, ma in cui ha paradossalmente imparato tanto. In quei mesi diventò un giocatore più consistente nei contrasti, più concreto nella protezione del pallone e più intelligente e riflessivo nel leggere il gioco. Dalla successiva sfida contro il Bologna, spostato nuovamente in posizione avanzata, Pellegrini trovò un’inedita pericolosità in zona gol, come se mentalmente avesse sbloccato qualcosa.

La seconda sliding door, l’avrete intuito, è stata la nomina a capitano in un momento particolarmente complicato. Il caos post-sconfitta a tavolino con lo Spezia e la conseguente lite tra Fonseca e Dzeko portò infatti a un’investitura che un tempo sarebbe sembrata annunciata, ma che invece a molti in quel momento sembrò non pienamente meritata. Pellegrini reagì nel modo migliore, con una prestazione sontuosa da acciaccato contro lo Spezia condita da un gol decisivo in zona cesarini. Se serviva dimostrare di avere la stoffa per fare il capitano, difficilmente poteva esserci un biglietto da visita migliore.

Al salto di qualità mentale, Pellegrini ha associato anche una crescita tecnica in quegli aspetti in cui in precedenza aveva manifestato delle lacune. Più pericolosità nel tiro da fuori, più progressioni palla al piede, migliore interpretazione della fase difensiva, più cattiveria e solidità nei contrasti. Le statistiche a fine stagione hanno fatto segnare 11 gol, ben 8 più della stagione precedente, e 9 assist, perfettamente in linea con le doti da fantasista che gli sono sempre appartenuti. 3 gol e 3 assist sono arrivati nella fase finale di Europa League, a dimostrazione di una personalità che stava giungendo alla maturazione.

Pellegrini segna contro lo Spezia
Roma-Spezia è il momento del passaggio di consegne definitivo (Foto: Paolo Bruno/Getty Images – OneFootball)

L’incontro con Mourinho

Parlare di incantesimo di Mourinho, per ciò che riguarda la crescita di Pellegrini, è un torto nei confronti del giocatore.  L’autorevolezza dell’allenatore portoghese e la sua padronanza dell’ambiente hanno influito nello smuovere ulteriormente i favori della stampa e del tifo verso il suo capitano. Ciò in cui Mourinho ha fatto davvero la differenza è stato però accorgersi della crescita del giocatore sin dal suo arrivo anche se poco mediaticizzata e non del tutto percepita neanche dalla tifoseria, condizionata in negativo anche dall’ennesima stagione sotto le aspettative della squadra.

Innegabile è comunque che in questo inizio di stagione Pellegrini abbia compiuto uno step ulteriore, ed è quindi giusto cercare di rintracciarne le motivazioni. Per il capitano romanista c’è una sicurezza diversa nel provare giocate difficili con convinzione, senza farsi scalfire troppo dagli errori. In questo grossa importanza hanno avuto sia l’allenatore che la società che da subito l’hanno responsabilizzato e messo al centro del progetto tecnico, come dimostra il recente rinnovo di contratto. L’addio di Dzeko inoltre lo ha consacrato a leader tecnico ed emotivo per lo spogliatoio. Quella del bosniaco, nonostante la degradazione, lo scorso anno anche senza fascia ha continuato ad essere una presenza ingombrante. Questa è invece a tutti gli effetti la Roma di Pellegrini, sia per i compagni che per l’ambiente circostante rappresenta un riferimento.

La questione tecnico-tattica comunque non è secondaria. Nel gioco di Mourinho il 7 giallorosso agisce in posizione più centrale, ed è spesso chiamato ad impostare l’azione. Per fare un paragone con la scorsa stagione, verrebbe da dire che lui e Mkhitaryan si sono invertiti i ruoli. L’armeno ora ha il compito di essere efficace negli ultimi 30 metri con giocate decisive, mentre è Pellegrini ad abbassarsi per dare manforte a Cristante e Veretout. Anche in fase difensiva, seppur il chilometraggio sia sempre lo stesso, le mansioni svolte sono differenti. Meno rincorse all’indietro e sugli esterni, più lavoro in fase di pressing in combinazione con Abraham. Questo permette a Pellegrini di mantenere una posizione più alta, di esaltare le proprie caratteristiche senza il pallone, e di essere presente e lucido nelle ripartenze.

Quell’etichetta di svogliato ormai sembra un ricordo lontano, Pellegrini l’ha strappata via anche con una certa veemenza. Adesso negli occhi abbiamo i gol segnati di tacco come quello segnato a Verona (votato gol del mese in Serie A) o di pura creatività come quello al CSKA Sofia, ma ciò che conta sono le tante piccole cose che fanno vincere le partite di calcio. Se Mourinho dice che se ne avesse tre li schiererebbe tutti, fidatevi che Pellegrini di piccole cose se ne intende eccome.

Il capitano della Roma esulta dopo il gol al Verona
Il colpo di tacco contro il Verona è solo una delle tante magie di Pellegrini in questo magico inizio di stagione (Foto: Marco Luzzani/Getty Images – OneFootball)

Lascia un commento

Top