Diciotto anni fa Luis Figo tentava di calciare un corner al Camp Nou con indosso la camiseta blanca del Real Madrid. Nel tripudio di fischi che i suoi ex tifosi gli tributarono, anche il lancio di un oggetto che rimarrà per sempre nella memoria del mondo.
Luis Figo, in un modo diverso
Quando mi è stato chiesto di raccontare di Luis Figo e dell’oggetto che gli fu lanciato ai piedi nel corso del Clasico del Cochinillo (a spiegarvi perché si chiama così ci arriviamo tra poco) ho cercato in che modo poter narrare un evento che descrive in pieno la città di Barcellona, il Club del FC Barcelona e i suoi tifosi.
Nel poco tempo che mi è stato concesso di vivere in quella splendida città, ho frequentato il Camp Nou quel tanto che basta per toccare con mano come il legame tra il Club, la popolazione e la città sia visceralmente costruito su più di cent’anni di storia. Per questo, la vicenda del Cochinillo merita un modo diverso di essere raccontata rispetto alle classiche cronache di ciò che è accaduto quel 23 novembre 2002.
Potremmo parlare del trasferimento di 140 miliardi di due stagioni prima che spezzò il cuore dei tifosi blaugrana, o delle dichiarazioni dell’arbitro José Luis Cantalejo che raccontò anni dopo di aver cacciato un politico catalano dal tunnel nel corso della sospensione della gara e di non riuscire a sentire nemmeno il proprio fischietto tanto forti erano i fischi provenienti dagli spalti. Potremmo scrivere di come dal 1995 al 2000 Figo avesse messo in fila 249 presenze e 45 gol per il Barcellona assurgendo a nuovo semidio del club che fu di Johan Cruijff. Ma a quale scopo?
Nessuno, invero. Nessuno, perché la storia di Luis Figo, del Barcellona e del Cochinillo, merita un apologia differente, più carnale, sanguigna, direttamente estratta dalle viscere di un tifoso blaugrana straziato dal dolore. La partenza di un semidio è sempre fonte di tragedia catartica, spettacolarizzando il dolore che provoca. In questo caso, cercando di raccontarla nel modo più nuovo possibile, sono le stesse emozioni ad aver carbonizzato il cuore dei catalani.
Sognando il Barça
Andrea Fanì, giornalista della Gazzetta dello Sport, ha scritto nel 2012 un bellissimo libro (di cui consigliamo vivamente la lettura) intitolato “Sognando il Barça – L’epopea di una squadra e della sua città“. In piena epoca Guardiola, Fanì si è dato alla narrazione della storia del Club più iconico degli anni a cavallo tra i primi due decenni del nuovo millennio, mettendo davanti ad una pinta di birra Joan Gamper – o meglio, il suo fantasma di ritorno a Barcellona – e Paulì, un taverniere tifoso del Club al punto da conoscerne la storia nei minimi dettagli.
Il patto narrativo è subito stipulato: Gamper avrebbe raccontato a Paulì le vere viscere del Barcellona fino al giorno del suo suicidio, mentre Paulì avrebbe ricambiato narrandogli le gesta della sua creatura da quel giorno al momento stesso dell’incontro tra i due. Una magia che – fidatevi – in una città come Barcellona può risultare credibile: in ognuno dei suoi vicoli si snoda l’essenza del Club e della cultura catalana, rendendo il libro di Fanì una vivida rappresentazione di come sia nato il binomio che oggi respiriamo con tanta forza.
Ma torniamo al nostro Luis Figo, al Cochinillo, e a quel 23 novembre 2002, quando una Cabeza de Cochinillo – letteralmente una testa di maialino – venne scaraventata giù dagli spalti del Camp Nou ai piedi dell’ex semidio blaugrana.
Luis Figo, una delusione da semidio
Uniamo dunque la penna di Fanì all’evento, clamoroso, che Luis Figo si trovò a vivere nel suo primo ritorno al Camp Nou dopo la sua partenza, in un match di campionato. Ma prima torniamo indietro nel tempo, all’estate del 2000, e al tradimento che diede il via al Clasico del Cochinillo.
“Ed è arrivato il momento signor Gamper di parlarvi di quel tizio di nome Luis Figo, che prima vi ho accuratamente tralasciato. Era il nostro figlio, il nostro prediletto, il nostro eroe. Era portoghese, Nunez l’aveva portato nel 1995 dal un club di Lisbona, lo Sporting. Tutti lo adorammo da subito per l’eleganza e l’orgoglio con i quali giocava. E lui fece il resto, dichiarando amore eterno al club e giocando alla grande con quella maglia addosso.
Era amore, eterno amore. Finita l’era Cruijff, era diventato il leader della squadra, sarebbe stato lui a guidarci nel nuovo millennio con grandi trionfi internazionali. Perché lui era un predestinato, lo era stato da bambino, con quel piede destro fatato, con quella corsa fatta di cambi continui di velocità, con quell’intelligenza che gli permetteva tanto di fare l’ala quanto di stare al centro del gioco. Figo era la stella cometa, sarebbe diventato un figlio della Catalogna anche lui. E nell’estate 2000 lo era, in effetti. Poteva passare Van Gaal, Figo non sarebbe mai cambiato.
Da Madrid, però, un candidato alla presidenza di nome Florentino Perez promise ai tifosi che se fosse diventato presidente del Real avrebbe portato il numero uno, Luis Figo. Nessuno volle dargli credito, tra di noi, cui una spacconata del genere ci sembrava tipica della gente di Madrid e del Madrid. Che cosa ciarlava quel tizio riguardo al nostro figliolo più amato?
Però dal Direttivo nessuno lo mandò al diavolo. Più cresceva il silenzio intorno a Figo, più aumentava la nostra inquietudine. Potevamo rubare Kubala al Madrid, loro potevano rubarci Di Stefano, ma nessuno avrebbe osato portarsi via un giocatore così grande quando era già dell’altro.
Un trasloco tra Barcellona e Madrid si poteva pensare per giocatori come Luis Enrique, pur bravi e parecchio, ma non per semidei. Gli idoli come Figo si intrecciano alla storia del Club come una vite si aggrappa all’ulivo. A metà luglio, contro ogni pronostico, Perez vinse le elezioni per la presidenza del Madrid e riprese con quelle smargiassate su Figo, sul nostro Figo.
Che però dimostrò tutto il suo attaccamento al Club con un’intervista a un giornale:
Non c’è alcun accordo con il Real. Posso assicurare ai tifosi che Luis Figo sarà il 24 luglio al Camp Nou per l’inizio della nuova stagione.
Disse quel moretto che portava gel nel taschino come noi portiamo le monetine di rame. Parlò persino in terza persona, come se si sentisse erede al trono di non so quale regno, quel portoghese. Quella sera stessa, invitato dalle autorità locali in un momento di grande fermento per la città e per noi tifosi, si affacciò dal balcone del palazzo cittadino, in Plaça Saint Jaume, e davanti a una folla di gente accorsa si mise a urlare “Visca Barça, Visca Catalunya“, come se quegli evviva fossero il bollo papalino sopra a un documento da consegnare agli archivi.
Non erano passate quarantotto ore da quella pagliacciata in piazza, che Luis Figo stava firmando per il Real Madrid negli uffici dello stadio Santiago Bernabeu. Altro che Visca, ci aveva traditi, noi, il Barça, la Catalogna. Ecco perché ho dato Cruijff signor Gamper, perché lui battezzò suo figlio Jordi. Questo tizio portoghese ci aveva piantati per inseguire i milioni del Madrid.
Nel nostro cuore c’era una candela accesa per Figo, sempre, come i ceri nelle chiese. Lui l’aveva spenta, con un soffio gelido. E noi eravamo rimasti invischiati nella sua stupida brillantina per capelli.”
El Clasico del Cochinillo
Spiegato Luis Figo, e spiegato il perché quell’addio fece così male, passiamo al 23 novembre 2002, raccontato come spero non abbia fatto nessuno all’infuori di Fanì:
“Di questi tre anni la cosa che ricordo meglio fu il saluto che riservammo a mister brillantina, Luis Figo, la prima volta che tornò al Camp Nou da Madridista in campionato. Era il 2002, un 23 di novembre. La partita con il Real non fu memorabile, finì 0-0. A un certo punto ci fu un calcio d’angolo per il Madrid, ed era Figo a calciare da quella posizione. Così si avvicinò al punto per calciare e la gente prese a lanciargli addosso di tutti, tappi, acqua, bottiglie vuote, monetine.
Sentivo, da dove ero appollaiato, i fischi, ma diversi dal solito. Erano fischi cupi, se mai qualcuno è riuscito a farne di suoni così. Non venivano dalla bocca, dai polmoni. Venivano da più sotto dalle viscere. Erano fischi di lupi, erano suoni appiccicosi, lenti, acidi. Sembravano lava, che scivolava piano e portava via, consumando, ogni cosa. Persino la dignità.
Dall’area arrivò anche un nostro giocatore, Carles Puyol, si signor Gamper, Puyol e non Pujol esattamente, quasi omonimo di uno dei gentiluomini che assieme a voi fondò il club più di un secolo prima. Che volete farci, il destino si affeziona ai ricordi. Comunque, Puyol si avvicinò ai tifosi, lo vedevo dal mio angolo che agitava le braccia per dire:
Smettetela.
E qualcuno smise, in effetti, ma solo qualcuno. Altri continuarono. Durò qualche minuto, poi si avvicinò un altro giocatore del Madrid per giocare la palla, e fu allora che piovve dal cielo quella cosa che da lontano non distinsi. Rimbalzò su campo come un pallone bacio, affossandosi a mezzo metro dai piedi di quei due. Figo non si accorse subito, ci mise un po’.
Quasi tutto lo stadio ci mise un po’. Quel pallone bucato, buttato sull’erba, era una testa di maiale, cotta allo spiedo come fanno in certi paesini italiani e catalani. Una testa, proprio, vera, a due passi da Figo. Le foto, le immagini, fecero il giro del mondo in poche ore. Il Camp Nou aveva tributato il suo addio a Luis Figo, che dichiarò amore al Barça e scoprì il giorno dopo avere un cuore più piccolo della memoria.”
Chi meglio del taverniere Paulì avrebbe potuto spiegare che cosa quei fischi – dai decibel più alti di quelli di un Boeing in fase di decollo – rappresentarono al Camp Nou? Chi meglio di Fanì avrebbe potuto ricreare quell’atmosfera di colata lavica di viscere bollenti e rese nere come il carbone dal tradimento che si creò al Camp Nou? A Barcellona nulla è superficiale, quando si parla del Club. E il tradimento di Luis Figo fu il motivo per cui si giunse all’estrema ratio in quel fatidico 23 novembre 2002. Un evento che rimarrà per sempre nella storia, e che, speriamo, possa essere qui stato raccontato un po’ diversamente, grazie a Paulì, a Barcellona e alla penna di Andrea Fanì.