Nella narrazione calcistica moderna c’è un cortocircuito, e riguarda i calciatori stessi, le loro funzioni sul campo. La retorica ha preso il sopravvento sul racconto del gioco, e lo ha esaltato in maniera esasperata, dimenticandosi di qualcosa. Sentiamo spesso sproloqui a favore dei numeri dieci, dei giocatori più estrosi o dei cecchini d’area di rigore, ma si parla poco dei giocatori dalla mentalità difensiva. È chiaro il perché: hanno una minore attrattiva. In un periodo storico in cui la critica si spacca nell’eterno dualismo tra “giochismo” e “risultatismo”, giocare bene o meno come dilemma amletico, il goal viene sempre giudicato per primo quando si analizza un calciatore, e chi è più invisibile sul campo spesso è dimenticato.
Io la penso diversamente: per me il bel gioco è un concetto relativo, perché non c’è scritto da nessuna parte che io debba esaltarmi per il tiki taka del Barcellona di Guardiola piuttosto che per il Cholismo. Per questa ragione trovo non ci sia niente di strano se al sottoscritto Javier Pastore e Claude Makélélé facciano lo stesso effetto. Sono due giocatori opposti, ma si completano, e non possono fare a meno l’uno dell’altro, perché se Pastore è diventato famoso per le sue giocate da fantasista, Makélélé è diventato un monumento del gioco “in silenzio”, grazie alle sue letture difensive e alle sue chiusure determinanti.
Lo strapotere di Makélélé in campo non sono sicuro si possa spiegare a parole. Quando parlo del mio giocatore preferito, Juan Román Riquelme, mi è facile descrivere il suo gioco e il suo pensare sul rettangolo verde. Ma per Makélélé no, perché quasi non appare. La sua presenza è tuttavia cruciale, e la storia parla per lui. Quando nell’estate del 2003 il Real Madrid decide di rinunciare a lui per aggiungere un altro fenomeno offensivo – cioè David Beckham – alla parata di stelle che schierava ogni domenica, la macchina perfetta dei Galacticos si ingolfa. Tutti sapevano che il sottile equilibrio in grado di tenere in piedi quella costellazione era dato dal mediano francese ceduto al Chelsea, tranne Florentino Pérez, che lo riteneva addirittura “inutile”.
Galactico e inutile
Le impressioni del Presidente merengue ora come allora riflettono il pensiero dell’appassionato di calcio medio: se non fai goal, se non ti fai notare, allora non sei utile. Lo stesso pensavano i tifosi del Real Madrid pochi mesi dopo il suo arrivo. “Ogni volta che toccavo palla venivo subissato di fischi” rivelerà Makélélé, che venne prelevato nel 2000 dal Celta Vigo, dove si era imposto come giocatore chiave. Prima della parentesi galiziana, Makélélé era in Ligue 1, e non aveva ancora entusiasmato le tifoserie per quelle che erano le sue vere doti. A inizio carriera giocava da esterno offensivo. Poi, a Nantes si accorsero della sua immensa intelligenza calcistica, di come fosse capace nel posizionamento in campo. Dalla sua parte, ovviamente, anche delle impressionanti capacità atletiche.
Quando si pensa a Claude Makélélé, chi non lo conosce probabilmente se lo immagina come un massiccio ammasso di muscoli, un tronco d’ebano dalle gambe lunghe lunghe. Eppure, Makélélé è alto solo un metro e settantaquattro. Ha la faccia di qualcuno che potresti incrociare dietro il bancone di una salumeria, oppure potrebbe essere il tuo macellaio di fiducia, o anche un impiegato d’ufficio. Invece, è uno dei calciatori più importanti degli ultimi vent’anni di calcio. Il suo lascito è tangibile: avete presente il Makélélé Role? Non l’ha inventato mica un suo omonimo. Se a un certo punto della tua carriera prendi possesso di un ruolo definito, e tutti iniziano a ricordarselo per quello, forse vuol dire che non sei così inutile.
C’è un alone di misticità attorno alla figura di Claude Makélélé. Da che ne ho memoria, le sue gesta mi sono sempre state raccontate come se si stesse parlando di una figura mitologica. Vedere, per esempio, Ercole in Makélélé non è mai stato inusuale, perché quello che il mediano francese ha fatto nella sua carriera da calciatore, specialmente negli anni 2000, ha veramente qualcosa di mai visto prima, di epico e, per certi versi, senza precedenti.
Quando Vicente del Bosque si ritrova ad amministrare tutto il talento che gli è stato fornito al Real Madrid, è chiaro che per sostenere un arsenale offensivo di quel livello è necessario qualcuno che compensi magistralmente i deficit difensivi dei compagni. Il tecnico iberico in Makélélé troverà un tesoro. Quando il Real Madrid vince l’unica Champions League del suo ciclo galactico, Makélélé è in campo con la maglia numero 24 sulle spalle. È un numero anonimo il suo, che nessuno di memorabile ha mai vestito. A parte lui, chiaramente. Nell’undici blanco di quella partita la distinzione tra giocatori difensivi e offensivi è netta, e lo spartiacque è dato proprio da Makélélé, che separa la difesa dal quintetto da sogno madrileno: Solari, Figo, Zidane, Morientes e Raúl, in campo tutti insieme nello stesso momento. Sembra una formazione da PlayStation, eppure è quella che vincerà la Champions con una prova di forza sontuosa.
London calling
Una delle più grandi fortune della carriera di Claudio Ranieri è sicuramente quella di aver allenato prima Claude Makélélé e poi N’Golo Kanté, che per molti è il suo erede diretto. Ranieri definirà Makélélé come la “batteria” del suo Chelsea che arriverà secondo in Premier League. A Londra ci arrivò all’apice della carriera, quando già era riconosciuto come uno dei giocatori più forti al mondo. Ovviamente, non deluderà le aspettative, restando saldo al vertice basso del centrocampo dei Blues fino al 2008.
La Premier League è un campionato che anche più della Liga si prestava alle capacità fisiche del mediano classe 1973. I ritmi forsennati del campionato inglese erano una sfida che Makélélé sembrava attendere da tempo, quasi per dimostrare a sé stesso di saperci ancora fare. E al Madrid chiaramente, che così ingenuamente lo aveva liquidato, per poi pentirsene dopo qualche tempo, cercando di rimediare sostituendolo nel 2005 con Thomas Gravesen, che in Spagna rimarrà solo un anno e mezzo non lasciando un bellissimo ricordo – la rissa in allenamento con Robinho, invece, se la ricordano tutti.
Anche in Inghilterra, le responsabilità difensive del mediano francese saranno non indifferenti, specialmente a partire dalla stagione 2004/2005, con l’arrivo in panchina di José Mourinho. Il Chelsea non era il Real Madrid, ma comunque aveva tanti giocatori offensivi. Drogba, Joe Cole e Frank Lampard sono solo alcuni degli alfieri che lo Special One relegherà specialmente a compiti d’attacco, sgravandoli di preoccuparsi della loro retroguardia. Per quello, c’era Makélélé. E sembrava una diga. Sembrava che nessun calciatore in campo contasse di più quando c’era lui a dettare legge in mediana. Come militarizzava la propria metà campo Makélélé, nessuno mai. Lo trovavi in fascia a contenere le sgroppate delle ali avversarie, poi mezzo minuto dopo era a centrocampo ad avviare una ripartenza per i suoi. A proposito di questo, nessuno parla mai della sua buona tecnica individuale, di come era in grado di liberarsi dei giocatori che lo pressavano – con poche possibilità di successo -, dei suoi dribbling un po’ goffi quanto efficaci. Era una piovra, era davvero dappertutto. Di questo tipo di calciatori si dice sempre che pare abbiano due polmoni di scorta: Makélélé allora ne aveva tre, perché era onnipresente anche al novantesimo. Il suo cognome, in lingua lingala, la stessa che si parla a Kinshasa, in Congo, dove nasce esattamente quarantanove anni fa, vuol dire “rumori”. Per assurdo, ha una musicalità piacevole da pronunciare e da ascoltare. Quello che non doveva essere piacevole, invece, era fronteggiare Makélélé.
Dopo la conquista della sua prima Premier League, nel 2005, Mourinho non esiterà a definire Makélélé come il giocatore dell’anno della sua squadra, senza palesare alcun imbarazzo della scelta, nonostante quest’ultimo potesse esserci eccome, visti i campioni allenati dallo Special One quell’anno al Chelsea.
Makélélé continuerà a rivestire un ruolo chiave nello spartito tattico dei londinesi anche dopo l’addio di Mou, e nella stagione 2007/2008 sfiorò la sua seconda Champions League, dimostrandosi determinante nella corsa alla prima Coppa dalle grandi orecchie della sua squadra. Solo i rigori infatti negarono il trionfo ai Blues di Avram Grant nella finale di Mosca contro il Manchester United.
Il ricordo di Makélélé in campo
Dopo il Chelsea e gli Europei del 2008, Makélélé pose fine alla sua carriera in Nazionale (dal 1995 giocò complessivamente settantuno partite, mancando per poco la vittoria del Mondiale del 2006, perso in finale contro l’Italia) e si accasò al Paris Saint-Germain per chiudere la carriera a casa sua, in Francia, tre anni dopo. Ha intrapreso poi, con alterne fortune, la carriera da allenatore, che lo ha riportato di nuovo al Chelsea nel 2019, con un ruolo da technical mentor nelle giovanili del club. Oggi di Makélélé che cosa resta, se non il ricordo di un calciatore dall’etica del lavoro sconsiderata, che in campo si sacrificava per quattro a sostegno della causa collettiva? Resta il Makélélé Role ovviamente, restano gli aneddoti, restano le parole di compagni e avversari e chiaramente le immagini dei suoi interventi sempre equilibrati, mai elegantissimi ma neanche sgraziati, sempre efficaci. In tutta la sua carriera coi club ha realizzato poco più di seicento falli, ha portato a casa solo ottantasette cartellini gialli e due rossi (dati FBREF), numeri modesti per un mediano. Ma lui non è mai stato un mediano qualsiasi.
“Makélélé era il giocatore più importante del Real, e anche il meno riconosciuto” dirà di lui Steve McManaman, con cui divideva lo spogliatoio ai tempi dei blancos. A fronte di queste sue dichiarazioni, è così fuori luogo definire Makélélé come il miglior giocatore di quella squadra, come dicono i suoi stessi compagni di squadra? Pensiamoci: di funamboli e goleador in quel Real Madrid ce n’erano tanti, e ce ne sono stati tanti in tutta la sua storia. Ma nessuno è mai stato fondamentale come lo era Makélélé, unico nel suo genere eppure così normale, per quanto possa essere definito “normale” avere le spalle così larghe da dare solidità a quella squadra, malgrado arrivare su ogni pallone, limitare ogni sortita rivale, anticipare ogni ripartenza avversaria, fossero tutte abilità da supereroe. Forse una spiegazione di Claude Makélélé, alla fine, ce l’ho: era semplicemente il più umano fra gli dèi.