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Mamma, posso?

Quando pensiamo al ruolo della mamma connesso alla sfera calcistica, ognuno di noi conserva esperienze diverse. Le corse per arrivare in orario agli allenamenti, il panino con il cotto in trasferta, le ramanzine puntuali per non aver sbattuto sufficientemente le scarpe incrostate di terra e fango. E ancora, l’apprensione per una caviglia malmessa, il conforto dopo una sconfitta, il tè caldo d’inverno e la polo di rappresentanza sempre perfetta per la domenica.

Non a caso spesso usiamo la frase “Due cose non cambieranno mai nella vita: la mamma, e la squadra del cuore”. Sarebbe però estremamente riduttivo relegare il ruolo delle madri nella nostra vita a mera prassi. La mamma lava e stira, la mamma addetta all’ordine e alla pulizia. La definizione dei ruoli con il passare degli anni perde via via il senso dei confini, permettendo una maggior elasticità dei genitori nella divisione dei compiti più svariati. Ma qui di certo non vogliamo mettere a processo padri venuti meno alla preparazione del borsone, e madri tutt’ora impegnate nella navetta casa-stadio.

Tuttavia, oggi ci concentreremo su particolari sfumature che gravitano attorno all’essere madre nel contesto calcistico. Le sfide che deve affrontare la mamma di una bambina che vuole calzare le Mercurial di Ronaldo sono diverse; diverse dall’avere un figlio maschio con lo stesso desiderio. Ci sono battaglie invece ancor più delicate che non coinvolgono lo status quo di madre, ma l’idea di volerlo essere. Il nostro 9 maggio è un omaggio a loro.

Mamma, posso giocare a calcio?

Ancor oggi è largamente diffusa la credenza secondo cui ci siano sport legati più alla sfera maschile rispetto a quella femminile. Certamente, lo stesso vale anche nel caso opposto. Rispetto ad un decennio fa, abbiamo la percezione che le cose stiano cambiando, ma non dobbiamo commettere l’errore di valutare solamente ciò che avviene all’interno della nostra bolla. Una bambina che esprime il desiderio di indossare i dodici tacchetti, oggi rischia di trovare ancora degli ostacoli che si inseriscono tra lei e la sua volontà. Primo fra tutti, e non meno importante, il fatto che non sia facile trovare squadre femminili capillarmente diffuse sul territorio tali da accogliere una piccola calciatrice. Questo fatto conduce necessariamente al doversi affidare a squadre maschili locali, e da questa tappa inizia il giro del cane che si morde la coda. Pensare di lasciare la propria figlia allenarsi con bambini e ragazzini di sesso opposto, è motivo di preoccupazione. Lo è anche il pregiudizio secondo cui il calcio sia uno sport unicamente da maschi. Moltissime mamme, inoltre, coltivano la paura relegata ad uno sport troppo “duro”, che possa compromettere l’integrità fisica di una bambina.

Questo genere di situazioni non sono una novità per chi milita nel calcio femminile, ma una realtà con cui fare i conti. Ora credo sia chiaro il motivo per cui essere madre di un bambino che vuole giocare a calcio, sia diverso. Il fatto che un ragazzino voglia muovere i primi passi nella squadra di paese non è solo prassi e tradizione, ma è anche speranza. Speranza che, crescendo, possa avere la fortuna e il talento per fare del calcio la propria vita, guadagnare grandi cifre e sistemarsi. Per una ragazzina invece deve essere solo ed unicamente un hobby, perché non esistono altre prospettive. La situazione in tal senso si sta evolvendo, e le bambine di oggi potranno quasi sicuramente crescere con il sogno di calcare grandi stadi. Prima che esistesse nel concreto questa possibilità, il nostro grazie va a quelle mamme che non si sono piegate al pregiudizio sociale. A quelle che lo hanno combattuto, sdoganato e messo da parte, per lasciare spazio ai sogni e alla libertà delle figlie.

Calcio, posso diventare mamma?

La risposta sta a metà via tra la convinzione che dopo la gravidanza un’atleta non sia più parimenti performante, e il fatto che contrattualmente le donne professioniste pratichino ancora un hobby. È certo, ormai, che dalla stagione 2022/2023 nel calcio femminile approderà il professionismo. Questo traguardo sarà cruciale affinché le atlete possano godere di veri e propri contratti di lavoro con tutti i vantaggi e i diritti – sacrosanti – che ne derivano. Ancora oggi, infatti, le calciatrici (e in generale tutto lo sport femminile) sono considerate dilettanti. Non hanno dunque veri e propri contratti che le leghino alle società, bensì scritture private tra le parti. Questo genere di situazione ha prodotto negli anni centinaia di denunce, mobilitazioni, e casi limite da cui si è cercato di lavorare sodo per produrre un cambiamento.

Qualche mese fa, Lara Lugli, pallavolista del Maniago Pordenone, ha denunciato tramite i suoi canali social la rescissione del contratto operata dalla società dopo l’annuncio della gravidanza. Il club, per contro, la cita a sua volta per danni. Lara Lugli chiedeva nello specifico che le venisse corrisposta una mensilità lavorativa pari a mille euro, somma che il Pordenone si rifiutava di pagare provvedendo subito al contrattacco legale per violazione di contratto. Nello specifico, violazione della clausola che metteva nero su bianco l’immediata cessazione del contratto in caso di gravidanza. La società ci tiene a rendere noto che alcuni tipi di clausola sono state volute e finalizzate dall’atleta e l’agente.

L’opinione pubblica si spacca in due dopo questo caso: molti si mostrano solidali nei confronti dell’accaduto, ma molti altri rivendicano l’integrità del rapporto contrattuale. Questa polarizzazione nel dibattito non ci vedrebbe così divisi se tutti noi credessimo nel fatto che una pallavolista di Serie A, una calciatrice, una cestista, siano lavoratrici. Questo è il loro lavoro. E come l’operaia, la benzinaia, l’impiegata e la direttrice, hanno dei diritti. Il diritto alle ferie pagate, al giorno di riposo e a diventare mamme per realizzarsi come meglio credono in piena libertà. Non facciamo l’errore di equiparare lavori che per natura differente sono imparagonabili, ma limitiamoci a riconoscerli. Le donne non praticano sport professionistico per hobby. Al pari dei colleghi maschi, vogliono essere riconosciute e tutelate ugualmente e in maniera intelligente, rispettando e valorizzando le differenze che intercorrono tra i sessi.

Ripartire da basi solide: il progetto “Donna, tra maternità e sport”

Il 4 maggio 2018, il CONI comunica l’avvio di una partnership con Chicco per la creazione di un progetto mirato a valutare il rapporto tra attività fisica e gravidanza. L’équipe medica ha condotto i test su 55 atlete olimpiche che hanno interrotto – e poi ripreso – la loro carriera per portare a termine una gravidanza.

A distanza di tre anni, il presidente del CONI Giovanni Malagò presenta i risultati ottenuti dalla collaborazione con Chicco, e i dati parlano chiaramente: una mamma su due, terminata la gravidanza, torna agli stessi livelli internazionali. Il 40% riesce a posizionarsi sul podio, mentre il 30% vince una medaglia d’oro. Questi risultati ci dicono due cose importanti: la prima riguarda lo stato di perfetta salute di cui godono madre e figlio/a prima, durante e dopo il parto. La seconda, invece, avvalora il concetto per cui una donna non dovrebbe essere messa di fronte ad un bivio quando si tratta di realizzare obiettivi personali e professionali. Questo studio è un importante punto di partenza per inserire un clima di sicurezza e giustizia sociale nel mondo dello sport femminile. È un’occasione per accorciare le distanze, per creare nuove opportunità e avviarci verso la strada della dignità, per tutte quelle donne che per troppo tempo hanno sacrificato la loro vita personale per poter vivere di sport.

Oggi il nostro celebrare si rivolge a tutte quelle donne che lottano per le proprie figlie, affinché possano calarsi nelle dinamiche della vita senza dover scendere a compromessi con i pregiudizi. Oggi il nostro augurio va a tutte le professioniste costrette dall’aura socio-culturale ancora troppo ingessata, a scegliere tra un figlio o un contratto. Non tutte le mamme hanno – ancora – dei figli.

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